Teatro La ribalta di legno
«Le quinte di stoffa con le porte in rilievo, le finestre di vetro dipinto, i vasi coi fiori di carta. In alto una lampada faceva da giorno mentre la notte veniva con la parola “notte”. In terra, una botola, dalla ribalta portava sul retro, dov’erano pronti gli attori».
Prima e intorno
Gli attori sono già sul palco: luci accese e brusio del pubblico sottostante.
Gli attori sono dentro una scatola, che è una camera, presumibilmente d’albergo. Tecnici della luce e del suono si muovono sulla scena, veloci, sicuri, coordinati. Sono vestiti di nero: hanno marsupi, cuffie, giraffe, cineprese. In questo mélange tra teatro e cinema, che sospende in qualche modo la comprensione, perché la suddivide in più piani e in diverse percezioni, ha inizio lo spettacolo La maladie de la mort, tratto dall’omonima opera di Marguerite Duras.
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È un novembre che prolunga il tepore della mezza stagione ben oltre la sua naturale consuetudine, un novembre che regala una domenica soleggiata, una domenica di bambini e famigliole, di Edenlandia e giardino zoologico. E, percorrendo quello stesso viale che s’apre da un lato sullo zoo e dall’altro sul parco dei divertimenti, s’arriva al Teatro dei Piccoli. Ci arrivo ripercorrendo, con piedi un po’ più grandi, quei passi dati dal bambino che fui – fa effetto dirlo, ma correva il finire, nemmeno troppo estremo, del secolo scorso – quando un giorno alle giostre e una caramella tirata a una scimmia potevano essere il colore della gioia da dare a una giornata.
Per vedere Il Grande Fallo 2.0, spettacolo di Milena Pugliese, interpretato da Roberta Misticone e Marilia Testa, occorrono alcune cose. Addominali preparati, per resistere alle tante risate che il testo e l’interpretazione delle due attrici provocano. Stomaco forte, al contrario, per affrontare l’orrore di un mondo, immaginato come non troppo lontano, in cui un’avanguardia fallocratica ha preso il potere e “assegna” le donne agli uomini per fini ricreativi e procreativi. E poi un po’ di tempo, dato che dopo aver registrato tre giorni di tutto esaurito allo ZTN, nel weekend dal 9 all’11 novembre, tornerà il 28 e 29 dicembre all'Avanposto Numero Zero in via Sedile di Porto.
Noi, Čechov, Platonov e la pioggia finale
Written by Alessandro ToppiLe testarde insistenze di Čechov
In Zio Vanja domina il caldo, i vestiti quasi si attaccano addosso e certi personaggi sembrano in affanno tant'è che manifestano il bisogno di sedersi, di non compiere gesti superflui, chissà quali movimenti corporei. Non a caso la prima scena del dramma mostra due figure sedute su delle panche, sistemate accanto a un tavolo che è stato posizionato all'ombra di un pioppo. D'altronde c'è “quest'afa” terribile dice Astrov; già, “fa caldo, c'è afa” ripete quattro pagine dopo Vojnickij e, perché sia chiaro che durante Zio Vanja non si respira, Serebriakov – che in giro se ne va con soprabito, guanti, calosce ed ombrello facendo ridere tutti – ribadisce per l'ennesima volta che “c'è afa”, poi chiede alla moglie di prendergli “le gocce che stanno sul tavolo” poiché non ce la fa a muoversi.
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La verità fa male più di un colpo di pistola
Written by Viviana CalabriaNapoli, anni ’80.
Siamo in un vicolo della città, sotto la finestra di una casa abitata da padre e due figli, Erica e Peppe: la famiglia Caruso. È una serata come tante quando Francesco Gargiulo si presenta sotto il palazzo per riportare il cardellino fuggito al suo amico. Pochi scambi e un tonfo. Peppe Caruso è a terra, inerme.
Arrivano gli amici, il padre e la sorella, arriva don Bartolomeo, il nuovo parroco. Pianti, urla, occhi bassi. Lo sanno tutti cosa è successo, chi è stato, ma nessuno parla. Peppe voleva fare l’eroe, voleva ribellarsi a un sistema che è così da anni e non può essere debellato. “L’eroe serve solo a morire. Io non volevo un leone ma un figlio dentro casa” sono le parole di un padre che non può nulla perché vendicarsi significherebbe morire, e significherebbe mettere in pericolo quella figlia che, a differenza loro, sta studiando dalle suore per diventare maestra. Ma quella figlia non è più una bambina che deve essere tenuta lontana dal centro di tutto e dalla verità.
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“Bacerò la tua bocca”, Salomè: tra sublime e delitto
Written by Giovanna FuscoSalomè è la fanciulla che danzò durante il banchetto di Erode Antipa, chiedendo poi allo stesso sovrano ammaliato dalla sua bellezza indescrivibile di consegnarle la testa di Giovanni Battista su un piatto d’argento. Così raccontano i Vangeli di Matteo e Giovanni.
E così Oscar Wilde nel 1893 ha tramandato questo episodio biblico in un dramma ad atto unico che trasferisce la sacralità del racconto in uno spazio neutrale e profano.
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Resta / Bisogna che vada
La scena seconda dell'atto primo è cominciata da una cinquantina di versi quando Amleto è chiamato al cospetto della Regina e del Re. I due hanno appena concesso a Laerte, figlio di Polonio e fratello di Ofelia, il permesso per tornarsene in Francia, lì da dove è rientrato per assistere all'incoronazione del nuovo sovrano: “Devo confessare” – ha detto il giovane – “che i miei pensieri volgono alla Francia e si inchinano al vostro consenso”; posso ritornarvi dunque? “Cogli la tua bella ora, Laerte” gli ha risposto Claudio; “il tempo sia tuo e le tue migliori doti splendano a tuo piacere” ha poi aggiunto e, fatto retrocedere con un gesto della mano il ragazzo, ha quindi chiamato a sé il principe, facendogli notare che adesso risulta contemporaneamente “mio nipote e mio figlio”; “un po' più parente e meno che figlio” risponde invece Amleto, come a dire: mettiamo le cose a posto, diciamoci la verità, chiariamo subito e davanti a tutti i rapporti che ci sono tra noi: io non sono tuo figlio ma tuo nipote e tu non sei mio padre ma solo l'uomo che si è unito in matrimonio con mia madre.
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“La lotta contro la censura, qualunque essa sia e sotto qualunque potere, è mio dovere, così come gli appelli alla libertà di stampa. Nella vasta arena della letteratura russa, in URSS io ero l’unico lupo. Mi hanno consigliato di tingermi il pelo. Consiglio assurdo. Sia tinto sia tosato, un lupo non assomiglierà mai a un barboncino”.
- Cuore di cane
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Sette paia di scarpe nere sul limitare dello spazio che separa l’assito dalle gradinate del Teatro La Giostra, ad un passo in altezza da Piazza Augusteo, nei Quartieri Spagnoli. Quasi al centro di questa linea, sagomato a terra da un nastro bianco, un gioco da bambini con le caselle numerate in cui si salta senza toccare le linee di demarcazione. Poco più indietro nove piccoli sgabelli di cartone su cui si siederanno gli attori-ballerini, cinque donne e due uomini con abiti neri come le scarpe che li attendono, e una ballerina.
- Anna Cappelli (CanticOpera)
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La sensualità musicale del “Don Giovanni”
Written by Grazia LaderchiKierkegaard definì il Don Giovanni di Mozart un “animale musicale” in cui il centro magnetico e la forza vitale risiedono non nella carne ma nella sensualità musicale. Egli non è persona bensì un carisma della musica, e non si può nemmeno intendere come processo di incarnazione in un corpo singolo in quanto l’intera opera è un corpo mistico musicale ottenuto attraverso la congiunzione ‘misteriosa’ di tutti i cantanti con lui, il Don Giovanni, che rappresenta la testa.
- Il Don Giovanni di Mozart secondo L'Orchestra di Piazza Vittorio
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Nella sala destinata un tempo all'operazione di spellamento dei suini, la pelanda, all'interno del grande complesso del Mattatoio, situato nel quartiere romano Testaccio, non lontano dalla famosa piramide, oggi, si fa e si vede teatro, musica ed arte.
Il complesso è molto grande, composto di vari edifici, con un altrettanto grande spazio esterno, in cui di tanto in tanto si incappa in residui di aggeggi che furono utilizzati per le operazioni di preparazione degli animali a diventare carne commestibile (ganci, gabbie, macchinari vari).
- Gentle Unicorn
- Chiara Bersani
- Gaia Clotilde Chernetich
- Luca Poncetta
- Marta Ciappina
- Alessandro Sciarroni
- Marco D'Agostin
- Francesca De Isabella
- Valeria Foti
- Paolo Tizianel
- Eleonora Cavallo
- Giulia Traversi
- Associazione Culturale Corpoceleste
- C C 00#
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- Centrale Fries
- Graner
- Carrozzerie Not
- Gender Bender Festival
- CapoTrave
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- Mattatoio
- La Pelanda
- Roma
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Di Licia, di Bulgakov e dell’essere artista
Written by Michele Di DonatoCuore di cane di Bulgakov portato in scena da Licia Lanera è il primo capitolo di una trilogia ispirata ad autori russi – a questo primo capitolo dovranno far seguito Il gabbiano di Čechov e le poesie di Majakovskij – dal titolo complessivo Guarda come nevica. Ed è la neve il primo elemento che apre la scena, accogliendo, in identità testuale fra romanzo e azione scenica, l’ingresso sulle tavole del Teatro Abeliano della Lanera che guaisce il dolore del cane Pallino.
- Cuore di cane
- Cuore di cane
- Michail Afanas'evič Bulgakov
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- Licia Lanera
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- Guarda come nevica
- Anton Čechov
- Guarda come nevica
- Vladimir Majakovskij
- Anton Čechov
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- La cabala dei bigotti
- La cabala dei bigotti
- Molière
- Il misantropo
- Molière
- Orgia
- Pier Paolo Pasolini
- Il misantropo
- Manifesto per un nuovo teatro
- The Black's Tale Tour
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- Pier Paolo Pasolini
- Tommaso Qzerty Danisi
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- Vincent Longuemare
- Sara Cantarone
- The Black's Tale Tour
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- Cristian Allegrini
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- Cristian Allegrini
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- Martin Emanuel Palma
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- Regione Puglia
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Siamo abituati a pensare allo straniero come a colui che sta al di là confini, che tenta di superarli o che ci guarda ostile dalla torre nemica. Non si parla d’altro, oramai, che di quest’entità fittizia, lo straniero, come colui che viene da fuori e contro, come un’alterità pericolosa per la vita. Non si capisce che in fondo è di questo che si tratta, sempre, della vita, del tentativo di tenersi in vita, in un modo o nell’altro. Non si capisce che in fondo si tratta di sfidare la morte, che è l’unica vera alterità, estraneità da capogiro che ci aspetta, tutti, al confine.
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- Vincenzo Mascoli
- Manuele Paladin Šabanović
- Papaceccio MMC
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La semplicità di una vita, e del dolore nella vita. La facilità e la velocità con cui si arriva a soffrire, con cui si incorre nell’errore e si incespica nelle situazioni che compongono il percorso, facendo torto a se stessi, scoprendo a poco a poco, con il passare del tempo, che in fondo di chi può essere la colpa, se non nostra?
Germania 1938: in un clima di orrore e indecenza sociale, Bertolt Brecht conclude la scrittura di Terrore e miseria del Terzo Reich, un lavoro di ventiquattro scene ovvero ventiquattro manifesti pubblici di quotidiana disfatta.
Il cerchio è chiuso, la svastica è in bella mostra, l’orrore compatto prende spazio nell’angolo giro e luminoso che definisce la scena: siamo al Teatro Elicantropo di Napoli, è un venerdì di ottobre dell’anno 2018 in cui l’autunno tarda ad arrivare, e il pubblico napoletano − ventaglio alla mano − gode dell’ennesimo regalo teatrale che porta l’inconfondibile firma di Carlo Cerciello.
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