Teatro La ribalta di legno
«Le quinte di stoffa con le porte in rilievo, le finestre di vetro dipinto, i vasi coi fiori di carta. In alto una lampada faceva da giorno mentre la notte veniva con la parola “notte”. In terra, una botola, dalla ribalta portava sul retro, dov’erano pronti gli attori».
Il palco del Teatro Verdi è molto grande, occupato nella sua interezza, sullo sfondo, da sei gabbie sottili stilizzate sormontate da una piccola luce posta in alto. A sinistra vi è una grossa sedia stile impero rivestita di nero. Sulla destra vi sono tre musicisti che intrecceranno le note ai fili narrativi raccontati dagli attori che, all’apertura del sipario, sono già quasi tutti sulla scena indossando pantaloni neri e camicia bianca. Per tutto lo spettacolo, però, sarà il nero a dominare come una cappa funebre, come l’abito amplissimo indossato dall’unica silenziosa figura femminile (Mirela Karlika) che coprirà i diversi ruoli simbolici della Coscienza, della Saggezza, dell’Angelo della Morte.
- Briganti
- Raffaele Nigro
- Marcantonio Gallo
- Fabrizio Cito
- Questione meridionale
- Unità d'Italia
- brigantaggio
- Salvatore Buonomo
- Stefano Lanzo
- Vladomiro Spalanzano
- Mirela Karlika
- Aronne Renzullo
- Memli Murrizi
- Vitantonio Palmitessa
- Ivan Pedone
- Sergio Pentassuglia
- Mauro Iaia
- Lo Cheambacke
- Oronzo Ciracì
- Prince Ogho Go
- Francesco Barnaba
- Giancarlo Pagliara
- Luciano Gennari
- Alessandro Muscillo
- Mauro Mattei
- Coro polifonico di Oria
- Angelo Antelmi
- TeatroDellePietre
- Casa Circondariale di Brindisi
- Fondazione Nuovo Teatro Verdi Brindisi
- Nuovo Teatro Verdi
- Il custode del museo delle cere
- dominione borbonica
- Requiem di Mozart
- Paola Spedaliere
- Il Pickwick
Qui suis-je, d’où je viens?
Je suis un corps.
Nella sala d’aspetto del Teatro della Contraddizione di Milano osservo l’ambiente circostante: foto, libri e manifesti. All’angolo, una macchinetta del caffè. Sorseggio la mia bevanda calda in tutta tranquillità quando dal telone che apre sul teatro entra in sala un attore vestito di bianco, che si para davanti ai presenti chiedendo loro di imitare un suo gesto; ciò compiuto, dona loro un biglietto con sopra scritta una frase. A me è capitata questa: “Basterebbe una semplice parola senza importanza per essere grande”.
Lo spettacolo si chiama Danza alla rovescia, ideato dal regista Gaddo Bagnoli e interpretato dall’attrice Claudia Franceschetti. La compagnia milanese si chiama “Scimmie nude” e si è costituita nel 2003.
Le luci si spengono, del tutto, serve un'oscurità non attenuata per penetrare le tenebre in tutta la loro chiarezza. Lo spettacolo inizia così, predisponendo gli animi del pubblico a qualcosa di molto poco rassicurante. Un coro di voci ci prende alle spalle, tutto il pubblico si volta a centottanta gradi per cercarne l'origine, ma l'oscurità viene spenta da luci fumose. Ed eccole, a formare un'arena circolare: le streghe, unite in un girotondo dimenato, si esibiscono nei loro riti blasfemi. Belle e irraggiungibili, sono fuori dalla portata di Dio.
- Malia Streghe: il vero volto dell'Inquisizione
- Inquisizione spagnola
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- Serena Pisa
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- Gianni Porcaro
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- Franca Naccarato
- Salvatore Fiore
- Sala Assoli
- Grazia Laderchi
- Il Pickwick
Con il teatro, il movimento si sveste dei suoi connotati puramente fisici e meccanici. Diventa linguaggio, si carica di elementi che reinventano, rielaborano i consueti codici interpretativi. Sulla scena, ogni gesto eseguito va oltre l'immediatezza della parola, la quale si esaurisce quasi del tutto nel momento in cui essa viene pronunciata. La danza ha infatti una carica di trasmissione che prolunga o interrompe l'attimo performativo, raggiunge e permea la memoria sfruttando la totale comunicabilità dei sensi umani.
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Sono stata zitta per una settimana prima di cominciare oggi il mio racconto di Mutu. Non che non avessi nulla da dire a riguardo, anzi. Diciamo che una serie di eventi capitati in questa settimana mi hanno tenuta lontana da penne, fogli e tastiera, finché il mio “boss” mi ha incalzata che basta star zitta, è giunta l’ora di dire qualcosa su questo spettacolo. Non ho la scrittura forte di Rapè, non sembra che le parole sul mio foglio urlino come le sue ma cercherò di raccontare fedelmente le sensazioni provocate dalla messinscena. E adesso zitti, si parla.
La forma buffa dell’operetta per mettere in scena un paradosso usuale. Il paradosso usuale è quello che fornisce materia tematica: una storia di ordinaria omosessualità tarpata, in un ordinario contesto provinciale – nella fattispecie meridionale e segnatamente siculo-partenopeo – in cui è ad oggi ancora ordinario (e proprio per questo paradossale) un approccio retrivo al tema dell’omosessualità. Questo, in una sintesi estrema e non del tutto esaustiva, ciò che compone Operetta burlesca, lavoro di Emma Dante che ha debuttato chiudendo la stagione del Teatro Kismet OperA di Bari.
Panini col salame, aringhe, un cosciotto, una mela cotta. Salsicce, cetriolini, bistecche ma tenere, “non piene di nervi”. Pasticcini, babà, millefoglie e noccioline, riso, pane, avanzi di patate, grasso di maiale. Shitz ha nel cibo il suo primo contenuto testuale. Cibo, cibo, cibo: a tutte le ore, in ogni occasione; qualunque sia l’evento, qualunque sia la scusa. “L’unica cosa che mi lega ancora alla vita è l’odore del salame” dice il padre mentre la figlia, felice di “evocare il pranzo di oggi”, compie l’elogio delle patatine: “Quando vedo una patatina, mi emoziono. Ah, la patatina, guizza, sotto il dente crocca. È come un maschio abbronzato che abbrustolisce sotto il sole desertico, è come un eroe antico in un sogno asiatico. Se potessi mi sposerei con un cartoccio di patatine”. E – soltanto per mettere in rapporto i due personaggi già evocati – ecco cosa dice ancora il padre, a un certo punto: “È tutto tenero, fresco, si scioglie in bocca”. Sembra parli di un alimento qualsiasi mentre sta descrivendo il corpo della figlia, accompagnando le parole con un ghigno succoso e un viscido movimento della lingua.
Le sorprese più gradite sono quelle ricevute nei momenti giusti e spesso nei luoghi più insoliti. Napoli di sera è uno sterminato labirinto, un imponente agglomerato di edifici, indumenti stesi, veicoli, vicoli stretti e ciechi illuminati a chiazze dalla luce ambrata dei lampioni. Una città millenaria e viscerale, per certi versi inquietante, ma che non si smentisce mai, che non delude mai, perchè perfetto teatro di vita, “nu teatro antico sempe apierto”.
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Una corda tesa divide in due la scena, un davanti ed un dietro dell'ampio palco: suppellettili e masserizie affastellate alla rinfusa sono ciarpame sparso. È lo sfondo davanti al quale si muoverà, prendendo di tanto in tanto qualche oggetto, Sergio Vespertino. Una fisarmonica imbracciata a latere da Pierpaolo Petta ne accompagnerà il monologare.
Lo spettacolo deve ancora iniziare. In scena c'è una luce fioca e calda, una poltroncina bordò, un tavolino con su esposte foto in bianco e nero della Marilyn dei sogni, la diva di Hollywood che a ogni suo passo faceva accendere mille candele. Tra pochi minuti qualcosa succederà, qualcuno entrerà in casa cambiando la chimica e l'atmosfera di questo spazio di attesa.
Ovviamente non è scelta a caso la tela che chiude la vista dello spettatore all'inizio dell'opera: col Giardino delle delizie Bosch raffigura un mondo – brulicante d'uomini e animali – al di là dei confini dello spazio e del tempo e del bene e del male: non è, il Giardino, il Paradiso perduto a causa del peccato di cui parlano le scritture cristiane, paradigma e modello d'ultraterrena felicità. È, invece, finzione narrativa, astratto pensiero di mai raggiunta felicità: così, l'idea d'effimera costruzione umana viene rafforzata dal gesto di Jago che strappa con un urlo il velo dipinto – come in Maugham fragile schermo d'illusione fatto di nulla e di nebbia – a dar inizio alla tempesta dei cuori. In verità, il particolare del Giardino raffigurato è la Torre dell'adulterio, e anche questo particolare può dar conto della misura insieme corposa e ironica della chiave di lettura adottata.
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San Giorgio a Cremano (NA). Villa Bruno. Fonderia Righetti. Uno spazio austero in blocchetti di tufo. La copertura è sostenuta da archi e putrelle d’acciaio. Stratificazioni di senso in uno spazio antico. Luce calda, che si sposa bene col giallo del tufo. Antico e moderno dialogano e convivono. La pesantezza della muratura e la leggerezza dell’acciaio. La leggerezza della vita in villa nel ‘700 e il calore greve della fonderia del secolo successivo. Una statua di Massimo Troisi, nei panni del Postino, con l’immancabile bicicletta, decora il fondo della sala, con lo stile greve di tanta produzione bronzistica contemporanea.
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- Sara Saccone
- Chiara Vitiello
- Olimpia Panariello
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Una Chiesa Luterana essenziale è la scenografia ideale per mettere in scena una pièce sull’avventura spirituale e umana di Martin Lutero ad opera del collettivo Teatro in Fabula intitolata Le 95 tesi: una storia di Lutero, progetto teatrale elaborato su testi di John Osborne, Roland H. Bainton e Luther Blissett, per la regia di Giuseppe Cerrone e Antonio Piccolo.
- Le 95 tesi
- Martin Lutero
- Giuseppe Cerrone
- Antonio Piccolo
- eduardo di pietro
- Raffaele Ausiello
- Alessandro Errico
- Stefano Ferraro
- John Osborne
- Roland H Bainton
- Luther Blisset
- Teatro In Fabula
- Wittenberg
- Carlo V
- Riforma Protestante
- Chiesa Luterana Napoli
- Paola Spedaliere
- Il Pickwick
- Tiziana Mastropasqua
Quando si viaggia nomadi in una città estera, è naturale diventare acuti osservatori delle situazioni, delle persone e dei luoghi ed ecco che allo Staatsoper im Schiller a Berlino si respira un’aria di interesse e di attenzione per la danza ed il teatro da parte delle persone.
Al botteghino del teatro è possibile acquistare biglietti a prezzo davvero ridotto per studenti e giovani e fare così ingresso nei tanti foyer del teatro in cui poter fare uso della famosa tecnica di osservazione per nutrire occhi ed anima. Le persone, infatti, sono desiderose a fruire degli spettacoli in maniera attenta e critica.
Valentina Picello pende al centro della scena, legata al soffitto da tre sottili e robusti fili, come una bambola, come una marionetta. Oro ramato i capelli, inanellati in boccoli quasi vezzosi. Spalancati e spiritati gli occhi chiari, che guardano senza guardare. L’abito è come una struttura, un involucro, una torre. Sotto il lino leggero, di un bianco caldo, si intravede la crinolina, che genera il volume, e sotto la stoffa si allarga, a invadere il pavimento, come spuma del mare. Muove il braccio sinistro, con lenti scatti meccanici, da marionetta, si dondola appesa ai fili. “Alice non dormire. Per sognare basta sognare. Basta tenere gli occhi a bada. Se tieni gli occhi a bada tutto il mondo entra dentro di te”.
Una donna, un corpo, tante voci.