“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Teatro

Teatro La ribalta di legno

«Le quinte di stoffa con le porte in rilievo, le finestre di vetro dipinto, i vasi coi fiori di carta. In alto una lampada faceva da giorno mentre la notte veniva con la parola “notte”. In terra, una botola, dalla ribalta portava sul retro, dov’erano pronti gli attori».

Friday, 27 June 2014 00:00

Take a Chance

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Si è conclusa la rassegna 'Una certa idea di teatro' tenutasi al Godot Art Bistrot dallo scorso febbraio, nel corso della quale si sono alteranti spettacoli di giovani autori, lontani dalle quelle convenzioni legate alla telegenìa degli interpreti che nulla hanno da spartire con la pratica di ricerca drammaturgica. L’onore di porre il sigillo a questa serie di appuntamenti – piccoli per allestimento ma grandi per riuscita (e passione) – è toccato a Chance, scritto e interpretato dai curatori stessi della rassegna, Gaetano Battista e Clif Imperato. Trattasi di una prima assoluta che ha visto la collaborazione dei due autori-interpreti, unici titolari del cartellone.

Tuesday, 24 June 2014 00:00

Requiem di vita secondo Boris Eifman

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Si conclude, al Teatro San Carlo di Napoli, la stagione di balletto 2013-2014 con l'ultima creazione di uno dei coreografi russi contemporanei più apprezzati nel panorama della danza internazionale: Boris Eifman. La Eifman Ballet di San Pietroburgo espande i confini del balletto, ricercando un linguaggio del corpo in grado di esternare le molteplici sfumature dell'anima. Eifman definisce il suo genere come “balletto psicologico” e Mozart Requiem ne è un esempio di alto spessore artistico e filosofico.

Wednesday, 25 June 2014 00:00

L’enigma senza risposte di Kaspar Hauser

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Sull’assito del palcoscenico, solo, ad attenderci, un piccolo pony il cui mantello è reso ancora più abbacinante dal contrasto con lo sfondo nero. Una figura nera con copricapo da apicoltore di identico colore si accomoda presso uno dei cinque pianoforti posti uno accanto all’altro, e inizia a suonare Claude Debussy. Sopraggiunge un piccolo uomo − la cui statura fa diventare il pony un cavallo − ha dei grandi scarponi in mano, si ferma accanto ad un recinto pieno di sabbia e inizia a scavare a mani nude, con la meticolosità di un gatto. Dalla sabbia emerge un uomo che in confronto al nano è un colosso ma che da lui si lascia guidare. Il nano gli porge una tavoletta e ne dirige la mano in un gesto che imita i rudimenti di una scrittura. Poi ad alta voce scandisce bene un nome: “Kaspar Hauser!”. Così ha inizio uno degli spettacoli più belli presentati in questa edizione del Napoli Teatro Festival.

Wednesday, 25 June 2014 00:00

Appunti sul Vanja di Tuminas

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(primo appunto)
Rimas Tuminas comprende che in Čechov chi parla parla mentre chi ascolta non ascolta. Comprende che ogni frase è destinata a evaporare, a sfumare, a ridursi in un pulviscolo verbale. Comprende che mentre Vanja blatera Sof’ja non presta attenzione; che mentre Astrov disserta Elena pensa ad altro; che mentre Marija ciancica tutti gli altri sbuffano, sognano, vagheggiano illudendosi coi giochi o giocando con le illusioni. Per questo genera, in dialoghi fittizi, dei monologhi effettivi.

Tuesday, 24 June 2014 00:00

La danza è necessaria

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Vietato ballare è uno spettacolo nato da un paradosso ed un’utopia che trascina dietro di sé altre utopie, emblemi di concetti universali che sembra debbano ancora trovare il giusto riscontro nella realtà. Perché mai esiste un divieto del genere, si chiede la regista Alessia Siniscalchi? Eppure nel condominio della sede del suo collettivo italo-francese a Torino esiste un cartello con tale enunciazione, proprio in un luogo dove si fa arte a trecentosessanta gradi. Fantasticando su ciò, sei anni fa, ad Alessia nacque l’idea di uno spettacolo.

Tuesday, 24 June 2014 00:00

Un ordito che soffoca

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La scenografia non c’è, solo il nero palco del Teatro Nuovo. Unica eccezione lo scheletro di una testa di animale messa in alto sulla parete di fondo, quasi un trofeo che forse annuncia una scarnificazione. Il dramma è interamente proiettato sulla scena dai singoli attori con il dialogo, con la gestualità e con i costumi. Inizia con degli attori a centro scena gettati a terra e Cristina Donadio e Lalla Esposito che si posizionano ai lati del proscenio. Sono vestite come delle nobildonne ricche e ingioiellate ed iniziano ad esprimersi come l’abito lascia intendere per poi, d’un tratto, scivolare con una cadenza plebea in un dialogo in napoletano dove si parla del “padrone in carcere, lui… un signore!”.

Monday, 23 June 2014 00:00

Gabbiano Gran Varietà: uno scempio

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Ogni rilettura è un tradimento. E ogni rilettura che non tradisca è mera filologia. Riproporre, tradire, sperimentare. A teatro ogni messinscena che si rimette in scena è un cimento, un esperimento, una prova; può essere una violazione o una filiazione naturale dell’opera originale; l’importante è che quel ne sortisce sia stilisticamente e sostanzialmente coerente con se stesso, ovvero risponda ad un disegno in cui sia riconoscibile sì la mano di chi mette mano, ottemperante o meno che sia al plot originario. Ma è anche fondamentale che quella mano che mette mano per riproporre, tradire, sperimentare sappia quel che faccia, sia guidata dal ben dell’intelletto: tradisca pure, rifaccia, squinterni l’originale, purché da quell’originale tradito rifatto e squinternato venga fuori qualcosa che abbia un senso e una ragione.

Sunday, 22 June 2014 00:00

La vita, la morte e il teatro

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(proviamo a ragionare)
Sul palco del San Ferdinando vediamo due quinte che non sembrano pareti di un interno ma che – dichiaratamente – restano palese materiale di scena per il teatro: se ne vedono le basi di legname, la loro dimensione è ridotta rispetto allo spazio complessivo e, le porte che contengono, non sono porte per davvero quanto un richiamo (metaforico) al presunto tema dell’opera (la morte): hanno perciò la forma di una bara.

Sono, questi due rettangoli, elementi destinati a una platea; sono arredo simbolico; sono soglie interne a un palcoscenico che rimane un palcoscenico e – almeno per chi scrive – hanno due funzioni opposte, differenti ma in stretta relazione. Occorre dunque analizzarle separatamente per tentare di capire le ragioni della scenografia e, attraverso queste, il senso posibile di Dolore sotto chiave.

(la quinta di sinistra)
La quinta di sinistra ha un telefono, unico mezzo effettivo di contatto con l’esterno, strumento di relazione con ciò che vive lontano e fuori scena. Da qui entra Lucia, dando inizio all’opera. Cammina lentamente, si avvicina alla tavola centrale, l'apparecchia come deve: tovaglia, bicchieri, posate, piatti. Lucia sembra svolgere una funzione quotidiana ma, in realtà, compie un gesto pre-rituale ovvero attua e concretizza la premessa perché, il rito che deve accadere, accada veramente. Scriviamo perciò che Lucia completa e perfeziona l’allestimento; conduce in palco gli oggetti che servono per lo sviluppo della trama; permette a Rocco di trovare ciò che gli occorre perché compia i gesti successivi (esempio: rompere un piatto gettandolo per terra). Per intenderci: se Lucia non apparecchiasse la tavola, Dolore sotto chiave non potrebbe esistere e non potrebbero esistere Rocco, Elena e utto ciò a cui assistiamo.
Sempre da sinistra entra Rocco. Indossa una giacca imbiancata sulle spalle: come se non venisse davvero da una piazza o da una strada ma da un retro-palco impolverato, da un vecchio magazzino di costumi, da un’attrezzeria nascosta e laterale. Rocco ha in mano una lettera ovvero ha in mano un testo scritto e – questo testo – definisce natura e condizione del personaggio, influenza i suoi comportamenti, determina anche la maniera in cui l’opera finisce, in cui lo spettacolo si chiude. La lettera, quindi, è un foglio della trama, è un’indicazione di ruolo, è un destino già segnato.
La porta di sinistra è la soglia che, varcata, permette l’esistenza, il mostrarsi e l'apparire e – se è un luogo di provenienza – diventa soprattutto il limite che separa assenza e presenza sull’assito: venendo da un retro che è il retro del teatro si percorre un corridoio, si passa da fuori a dentro, si passeggia fino ad arrivare al rettangolo in legname, lo si supera aprendo la porta, ci si affaccia giungendo al centro dello spazio. Da sinistra si giunge fino alla platea, allo sguardo degli astanti, al pubblico: da sinistra si arriva a teatro, si arriva al teatro.
Dunque, passato questo limite, comincia la vita ma la vita – in Dolore sotto chiave – è una recita, un’interpretazione, una menzogna.
Perciò: “Ma chi ti ha messo al mondo?”. Risposta implicita: l’autore.
Perciò: “Sono riuscita a nasconderti la verità”. Ovvero: ti ho mostrato una finzione.
Perciò: “Ma tu sei falso, tu sei un ipocrita”, cioè: sei un attore.
Perciò: “E cominciò la farsa”; “Hai recitato questa buffa e triste commedia”; “L’hai recitata bene la farsa. Tu e tutti gli altri: il portiere, sua moglie, i vicini…”.

(la quinta di destra)
Il rettangolo di destra ha la stessa forma, le stesse caratteristiche (fatta eccezione per il telefono). In questo caso la sua funzione è stabilita dalla trama: porterebbe in una stanza in cui dovrebbe riposare un terzo personaggio – Elena, moglie di Rocco – ridotta ormai allo stremo e, per la quale, ogni visita, rumore ed emozione, potrebbe esserle fatale. In realtà scopriamo presto che Elena è morta e che Lucia nasconde al fratello la sua fine. Ma, allora, la quinta di destra non porta al terzo personaggio ma alla Morte in quanto Morte. Azzardiamo perciò scriverdo che – mentre da sinistra si genera la vita – da destra si accede all’oltretomba, all’inesistenza, alla sparizione. A questo punto: se certamente le due porte sono soglie che portano alla nascita e alla morte va detto che – nascita e morte – vanno intese teatralmente: da un lato ci si avvia alla possibilità di manifestarsi in quanto attori, ruoli e personaggi; dall’altro questa possibilità sfuma, termina, si annulla.
Se, come abbiamo già scritto, la vita di Dolore sotto chiave è una recita allora ciò che si offre è teatro ed è il teatro – quindi – che si frappone tra la vita e la morte, al centro del palco del San Ferdinando.
Inoltre: non è forse il presente il tempo del teatro? Ed allora finché si sta in ribalta (prolungando l’attimo presente) si continua a esistere. Così da un lato (oltre la porta di sinistra) abbiamo il prima, ovvero ciò che precede la trama e la sua realizzazione pratica (ed infatti Rocco racconta la sua storia amore stando a sinistra); dall’altro (al di là della porta di destra) abbiamo il dopo, ovvero ciò che segue (ed infatti da destra verrà l'atto che chiude lo spettacolo).
Possiamo perciò  sintetizzare così:
− sinistra: nel retro c’è il passato, la sua soglia porta al presente, il presente è il compimento della recita.
− destra: oltre c’è il futuro, la sua soglia porta al buio e ciò che contiene è il nero che segue alla recita quando la recita è finita.
E in mezzo? In mezzo c’è l’adesso del teatro, che dura fin quando può durare. Il teatro vive infatti opponendosi alla morte ma muore della sua stessa vita: si sbriciola progressivamente, col procedere delle battute; si sfalda, si consuma, si riduce finendo a causa del suo darsi. Somiglia − per fare un paragone − a una candela, che vive per bruciare e che brucia fino a morire.
Il teatro è come una candela. 


(la candela, il prologo e la novella)
C’è questa candela, che apre e chiude Dolore sotto chiave diventandone segno evidente, simbolo effettivo. Portata in palco quando Lucia non è ancora entrata, non ha apparecchiato e non ha detto ancora una battuta, viene poi spenta da un soffio, provocando il buio e – con il buio – la fine dello spettacolo.
Chi porta (all'inizio) e spegne (alla fine) la candela? Un personaggio in aggiunta che – nei confronti del pubblico – svolge il ruolo di nocchiero, di banditore e portatore della visione. È in fondo questo personaggio che anticipa l’opera, annunciandone a suo modo temi evidenti e temi più nascosti, in una sorta di prologo poetico detto in endecasillabi napoletani.
Ma il testo da dove è tratto? È l’ampio frammento iniziale di una novella pirandelliana: I pensionati della memoria. E allora da I pensionati della memoria leggiamo: “A me tutti i morti che accompagno al camposanto, mi ritornano indietro. Fanno finta di esser morti, dentro la cassa. O forse veramente sono morti per sé. Ma non per me, vi prego di credere!”.
Vi leggiamo ancora che i morti “se ne rivengono meco, tutti, a casa mia. Ho la casa piena”; che “ma che morti! Sono tutti vivi. Vivi, come me, come voi; più di prima”; che però sono “disillusi” ovvero hanno compreso quanto sia fasulla la realtà mentre non è altro che una finzione: “un’illusione”, appunto.
Vi leggiamo infine: “Ahimé, c’è forse altra realtà fuori di questa illusione? E che cos’altro è dunque la morte se non la disillusione totale?”.
Per Pirandello i morti sono dunque disillusi perché la vita è un’illusione ovvero un insieme di bugie, una mascherata, una pantomima. Ne segue che – fin quando non si muore – possiamo continuare ad ingannare, ad ingannarci, ad essere ingannati. Come capita a teatro, finché il sipario non è chiuso.
Naturalmente ne I pensionati della memoria è facile vedere anche la conferma dei temi più cari a Pirandello: basta pensare all'immagine delle figure che penetrano in casa chiedendo di essere inserite in una commedia, perché possano vivere davvero la propria storia, la propria vita, il proprio strazio (il pensiero va a Personaggi, La tragedia di un personaggio, Colloqui coi personaggi; racconti da cui deriva Sei personaggi in cerca d’autore). E infatti – continuando con la novella – ancora vi leggiamo che i morti  “possono aver la consolazione di viver sempre, finché vivo io. E se n’approfittano! V’assicuro che se n’approfittano”. Qui, a parlare è direttamente Pirandello ossia il creatore, l’autore, il drammaturgo: i morti mi entrano in casa, mi chiedono di andare in scena, io acconsento con gran fatica permettendo loro di (ri)vivere, attraverso la scrittura. Essi così (ri)vivono: finché io scrivo, finché “vivo io”.
È questa tipologia di pirandellismo a cui Eduardo De Filippo s'ispira quando compone Dolore sotto chiave.
Allora questo becchino che dice il prologo, che porta la candela permettendo l’apertura del sipario, che soffia sul moccolo, imponendo la conclusione di Dolore sotto chiave è un rimando all'autore e – se è l'autore (Pirandello, De Filippo, De Filippo che guarda a Pirandello) – Lucia e Rocco sono due personaggi, la loro stanza è una scenografia e la loro vita non è che una trama “recitata bene”.
Come da copione.

(lo spettacolo)
Col prologo, dunque, si tenta di relazionare De Filippo a Pirandello (è pirandelliana una parte della produzione di Eduardo De Filippo; è pirandelliano questo Dolore sotto chiave, che evoca – per fantasia di situazione e metateatralità allusiva – altre scritture dello stesso Pirandello: si pensi alle novelle La trappola, Sgombero o La camera in attesa da cui l’autore siciliano trae La vita che ti diedi) ma, ciò che vediamo in palco, è una resa corretta e detta bene ma certamente non innovativa del testo di Eduardo.
Saponaro rispetta il dettato mutandolo solo parzialmente: aggiunge qualche battuta per evidenziarne alcuni aspetti impliciti (la gelosia possibile di Lucia per l’amore tra Rocco ed Elena) mentre taglia qualche frase ma eccesso; cancella alcuni personaggi secondari (la signora Paola) e di altri accorpa le battute (il fotografo Musella, lo scultore Tremoli) assegnandole a una figura sola (il professor Ricciuti).
Inoltre: di Dolore sotto chiave Saponaro ricorda che fu scritto come radiodramma e lo ricorda facendone riascoltare – inizialmente – brevi estratti d'annata; gioca con lo spazio (per cui si può ritornare da una stanza passando dove dovrebbe esserci una parete); induce all'accensione di un faro con l'utilizzo di una frase (a fondoscena, quando Rocco dice: "Apri la finestra, luce, luce!"); sottolinea la valenza metateatrale attraverso incisi ad hoc (“Mangiavi in fretta e scappavi da lei” diventa, ad esempio, “Non ti interessavi più al teatro, mangiavi in fretta e scappavi da lei”); stabilisce una relazione diretta con gli astanti spingendo − il dialogo che Lucia e Rocco hanno con il “Signore” − in ribalta e in piena luce: perché questo “Signore” coincida con il pubblico.
E se un dubbio forte rimane sulla scelta di far interpretare a un attore maschile la figura femminile (l’unica ragione che riusciamo a immaginare è la mascolinizzazione di Lucia, figura dominante della casa; se non si vuole risalire alle separazioni pre-spettacolo senza le quali avremmo visto in palco Cristiana Minasi) va sottolineato il tono bigotto ma con accenno da recitazione evidente con cui la stessa Lucia declama la preghiera finale (“Madonna mia, datemi la forza di vivere…”): come si preparasse già ad un nuovo ruolo (quello di zia), in vista di un'ipocrisia successiva.
Sia chiaro tuttavia che, i suddetti, sono  brevi segni re-interpretativi del testo eduardiano, offerti in uno spettacolo che si mostra consueto, controllato, tradizionalmente pseudo-eduardiano e che nel quale la recitazione si limita al buon riporto ma che non osa (come pure avrebbe potuto) con l'innovazione ulteriore. Pirandelliana l'origine insomma, poco pirandelliana ne è stata la resa: si potrebbe riassumere così.
Dolore sotto chiave, per il resto, si conferma un buon gioco da palcoscenico, in cui De Filippo contrappone la recita effettuata (quella di Lucia: “Elena deve vivere. La terrò in vita io”) alle recite mancate. Dice infatti Rocco: “Il dolore era mio lo capisci, e lo avrei sofferto tutto, tutto intero: fino in fondo. Mi sarei disperato, mi sarei strappato i capelli, avrei passato notti intere a piangere…”; poi così conclude: “Adesso come faccio a piangere? Dimmi tu come faccio? Non ne sento né la disposizione né la voglia”. Ovvero: ora mi è impossibile recitare ciò che avrei dovuto recitare allora e che non potrò recitare più. Quello spettacolo, insomma, non può essere questo spettacolo (questo è il motivo, ad esempio, per il quale Rocco rifiuta la solidarietà del professor Ricciuti: perché è giunta quando non è più tempo, quando non ci sono più le condizioni).
Naturalmente – come accade spesso con De Filippo – la finzione specchia il vero ed il vero contiene la finzione per cui Dolore sotto chiave ironizza molto con la propensione umana e naturale alla doppiezza, all’impostura, all'ipocrisia; propensione per la quale le parole sono un artifizio, una costruzione, un'invenzione accomodata. Ma − questo aspetto − non è che una variante ennesima del concetto eduardiano per cui “Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri, nella vita, recitano male”: è (brutto) teatro il nostro quotidiano; è (brutto) teatro il nostro "parlare tanto per parlare"; è (brutto) teatro questo teatro che insceniamo con tutti, tutti i giorni, in tutte le occasioni.
È (brutto) teatro che soltanto l'arte del Teatro smaschera contrapponendo − alla menzogna della verità − la verità della menzogna.

 

 

 

Napoli Teatro Festival Italia
Dolore sotto chiave
di Eduardo De Filippo
regia Francesco Saponaro
con Tony Laudadio, Luciano Saltarelli, Giampiero Schiano
scene e costumi Lino Fiorito
luci Cesare Accetta
suono Daghi Rondanini
assistente alla regia Giovanni Merano
produzione Fondazione Campania dei Festival, Napoli Teatro Festival Italia, Teatri Uniti
in collaborazione con Università della Calabria
lingua italiano e napoletano
durata 50'
Napoli, Teatro San Ferdinando, 19 giugno 2014
in scena 19 e 20 giugno 2014

 

Friday, 20 June 2014 00:00

Il dramma delle brave persone

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All’apertura del sipario la scenografia si presenta subito essenziale, composta in modo da rappresentare i tre ambienti in cui si svolge la storia. Siamo a Southie, sobborgo povero di Boston che l’autore del testo, David Lindsay-Abaire, conosce bene per esservi cresciuto. Le prime due scene si svolgono in questo quartiere dove tutto parla di stenti, di sopravvivenza, un posto da cui è difficile andar via, dove tutti sperano di trovare la fortuna con il Bingo.

Saturday, 21 June 2014 00:00

Un caffè "ridotto"

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Il Ridotto del Teatro Mercadante si trasforma – o almenno tenta di farlo − in un angolo intimo e raccolto, simile ad un caffè letterario, ed ospita, per questa edizione del Festival, un ciclo di letture, affidate a più voci che facciano vivere su palco la scrittura di Irène Némirovsky, scrittrice ebrea della prima metà del Novecento, ucraina di nascita, francese d'adozione, anche se mai la Francia le riconobbe legittima cittadinanza.

Thursday, 19 June 2014 00:00

Appunti sul Vanja di Savignone

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(una vecchia casa)
Marcelo Savignone riempie il palco di ciarpame: un tavolo, un divano, tre sedie, un mobiletto con sopra un orologio e un posacenere, un giradischi, un carrello a due piani e – su ogni piano –  un vassoio con bottiglie da liquore e bicchieri di misura differente. Ancora: un lampadario, un tavolino esagonale, una sedia a rotelle, un grosso baule dal cui orlo s’intravedono cuscini, una chitarra, un violino. A destra, con la testiera alla parete di fondo, piazza un letto su cui adagia un cane di cartone; nell’angolo sistema una panca, altre sedie le colloca a sinistra. Poi, nel mezzo, c’è una porta gialla.

Friday, 20 June 2014 00:00

Borrelli funesto demiurgo

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Tanto tuonò che piovve. Mentre il Napoli Teatro Festival annaspa, annega nella mediocrità media delle proprie proposte, un evento altro ha luogo nel ventre di Napoli; e vi ha luogo proprio nel giorno in cui, mentore un Giove Pluvio e Tonante come non mai, il Festival si ferma, messo in ginocchio dalla furia degli elementi, che devasta Pietrarsa, che paralizza una città, che ne allaga le viscere.

Wednesday, 18 June 2014 00:00

Lo sprint mancante

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Capita talvolta, nell’approcciare l’analisi di uno spettacolo, di ricorrere alla formula della comparazione; capita e può capitare quando la visione di uno spettacolo si presta al raffronto con una pietra di paragone che, più o meno illustre che sia, presenta dei punti di congruenza – o anche semplicemente degli spunti di incongruenza – tali che l’analisi comparativa possa soggiungere in aiuto alla riflessione.

Wednesday, 18 June 2014 00:00

Il puzzle dell'esistenza

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Prendete un puzzle completo che raffiguri un’anonima folla su un marciapiede di un’anonima città situata ovunque. Gettate il puzzle a terra, fatelo in mille o diecimila pezzi. Provate poi a ricomporlo, sagoma dopo sagoma. Una folla silenziosa si ricompone davanti ai vostri occhi. Così ha fatto Giuseppe Sollazzo con questa sua opera presentata per il Napoli Teatro Festival al Mercadante. Ha messo in scena trenta attori di varie nazionalità che interpretano personaggi che raccontano, solo attraverso il linguaggio gestuale, le loro storie fatte di attimi, di sogni, di ricordi, tutto così quotidiano ed effimero che potrebbe riproporsi di continuo su qualsiasi strada dell’esistenza.

Tuesday, 17 June 2014 00:00

Arte e Vita

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Il pubblico del festival gremisce la sala del Teatro Nuovo. Dovere sociale. Amici e parenti. Invitati di lusso. Qualcuno sillaba a fatica il titolo dello spettacolo. Fa caldo fuori, si agitano ventagli di ogni foggia e colore. Finalmente si apre il sipario e parte l’incanto. Peggy Guggenheim (Fiorella Rubino) arriva in scena dal fondo della platea. È Venezia, a casa sua, palazzo Venier dei Leoni, attende una troupe televisiva italiana per un’intervista. Veste un lungo camicione plissettato rosa champagne, con le maniche strette ai polsi e una macchia dietro. In braccio reca una serie di vestiti, di vari colori. Li racconta uno per uno. Balenciaga, Chanel, Vionnet. Ogni abito ha una storia, la sera in cui fu indossato, la persona con cui si trovava. “Io e Duchamp abbiamo ballato tutta la notte con questo vestito”. O la gonna lunga con cui era stata nello studio di un pittore, macchiandola del colore ancora fresco di una tela. “Mi offrii di andare a letto con il pittore se gli andava”. Si trattava di Pollock. Non aveva mai più lavato quella gonna.

il Pickwick

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