“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 27 April 2014 00:00

Lo straziato paese del Moro di Venezia

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Ovviamente non è scelta a caso la tela che chiude la vista dello spettatore all'inizio dell'opera: col Giardino delle delizie Bosch raffigura un mondo – brulicante d'uomini e animali – al di là dei confini dello spazio e del tempo e del bene e del male: non è, il Giardino, il Paradiso perduto a causa del peccato di cui parlano le scritture cristiane, paradigma e modello d'ultraterrena felicità. È, invece, finzione narrativa, astratto pensiero di mai raggiunta felicità: così, l'idea d'effimera costruzione umana viene rafforzata dal gesto di Jago che strappa con un urlo il velo dipinto – come in Maugham fragile schermo d'illusione fatto di nulla e di nebbia – a dar inizio alla tempesta dei cuori. In verità, il particolare del Giardino raffigurato è la Torre dell'adulterio, e anche questo particolare può dar conto della misura insieme corposa e ironica della chiave di lettura adottata.

Comincia così, quest'Otello di Napoli, e prosegue con densi simbolismi che ad alcuni son sembrati a tratti un po' cervellotici e ricercati. In verità, al di là di contenuti eccessi – l'ossimoro non meravigli – ne risulta uno spettacolo visionario e coinvolgente, corrusco e ferrigno, supportato da una potente idea registica del tutto in linea con ciò che sul finire del secolo romantico il vecchio musico e il giovin poeta misero in scena, chiamando a supporto il Bardo: il tramonto, cioè, arrossato e sanguigno e poderoso, e insieme titanica epitome, del romanticismo e dei suoi ormai disillusi incanti, delle desuete sue magie. Muore, il romanticismo, nel duetto d'amore che sancisce la fine della certezza dell'amore – nientemeno – nella precarietà e nell'insicurezza ambigua dell'amarsi l'un per sventure e l'altra per pietà – e come dar torto al sottotesto agìto dai mimi che amorevolmente ammucchian cadaveri – mentre l'acuto esultante del grido di vittoria del guerriero si spegne e perde nella melodia spezzata e incerta e fragile del Dio mi potevi scagliar. Muore nell'ultimo concertato dell'Ottocento, estrema irriconoscibile incarnazione del maggior dei simboli belcantisti, che non più riesce a congelare il tempo e il veleno che lavora, all'ombra vigile ed ironica delle insegne pinte da Bosch, tra mimi e spiritelli e mostricciattoli che son lusinghe e contrasti e prodigiosi portenti di cuori alla deriva. Muore col tema del bacio – ché di vero tema si tratta – frantumato e spezzato nella sua avvolgente spira che trema e cerca e trova infine la luce, poc'anzi la fine. Qualche anno dopo i due artisti celebreranno l'alba della modernità con l'inaudito fascino alessandrino di Falstaff  – ancora dal Bardo – ma ci sarà tempo per questo: l'ora di Otello è questa: rutilante trionfante morente crepuscolo che la regia del tedesco Henning Brockhaus – ripresa da Valentina Escobar – ha sapientemente ed efficacemente rappresentato nell'incerto e fumoso e ambiguo abisso dell'anima messo in scena.
Insieme all'onesta regia piacciono le scene fosche e petrose ma flessibili ed aperte create da Nicola Rubertelli, come flessibile e aperta è la musica ormai del Maestro, non più costretta nelle belcantiste forme chiuse del passato, e tuttavia sempre caratterizzate dall'inconfondibile cifra sua. E così i costumi di Patricia Toffolutti, che rimandano a quell'indefinito tempo e spazio che è tempo e spazio del cuore e dell'anima: a qualche anno dalla prima di Otello un italico poeta dirà che è il mio cuore il paese più straziato. Ecco, credo che questa sia la cifra giusta per interpretare nel modo corretto Otello e questa regia: strazio dell'anima e dell'universo intero.
Accanto alla regia la direzione musicale e gli interpreti: Nicola Luisotti prosegue nel suo personale itinerario verdiano; così, dopo la passata Aida, tanto attenta musicalmente, quanto deludente dal punto di vista registico, Otello credo segni un punto di svolta importante – sempre lo è Otello – per il peso della messa in scena e per il cast, notevole sotto molti punti di vista. Lo attendiamo alle prove successive, al già previsto Trovatore delle prossima stagione e al delizioso Falstaff ronconiano, coprodotto e già visto al Petruzzelli ma al San Carlo non ancora annunciato. Della triade protagonista dell'opera è certamente Otello – cui Verdi volle sapientemente mantenere la titolarità – il personaggio che più rappresenta il senso struggente e nostalgico del congedo, attraverso l'accennata parabola che attraversa nel corso dell'opera. È ovvio, dunque, dato che non trattasi del solito ruolo da tenore d’opera romantica, che l'interprete richieda doti sia vocali che interpretative adeguate: per tale motivo è stato cavallo di battaglia di tanti superlativi interpreti nel corso degli anni. Pesava pertanto sulle ampie spalle di Marco Berti l'onere di cotanta eredità: alcuni hanno inteso contestare – ed è lor pieno diritto – la sua interpretazione: a noi è sembrata più che dignitosa, toccante soprattutto nei toni più bassi, mentre su quelli alti più soffriva, probabilmente, l'improponibile confronto con l'ingombrante passato. Che non impensieriva invece Lianna Harautounian – almeno in apparenza – che nel personaggio di Desdemona bella sembrava perfettamente in parte, senza sbavature esagerazioni timori; e l'onest'Jago di Roberto Frontali ci dava la piena misura di come insieme direzione musicale e regia si muovessero all'unisono alla difficile ricerca d'equilibrio, fra echi diabolici e minimalismi borghesi che delineano volta a volta le caratterizzazioni del personaggio. Alla fine uniamo con tutto il cuore il nostro applauso a quello dell'intero teatro.

 

 

 

 

Otello
di Giuseppe Verdi
libretto Arrigo Boito
direttore Nicola Luisotti
regia Henning Brockhaus (ripresa da Valentina Escobar)
con Marco Berti, Lianna Haroutounian, Roberto Frontali, Alessandro Liberatore, Seung Pil Choi, Ventceslav Anastasov, Anna Malavasi, Antonello Ceron
e con Orchestra, Coro e Coro di Voci Bianche del Teatro di San Carlo di Napoli
maestro del Coro Salvatore Caputo
maestro del Coro di Voci Bianche Stefania Rinaldi
scene Nicola Rubertelli
costumi Patricia Toffolutti
movimenti mimici Jean Méningue
luci Alessandro Carletti
produzione Fondazione Teatro di San Carlo di Napoli
coproduzione Teatro Massimo di Palermo
lingua italiano con sovratitoli in italiano
durata 3h e 30'
Napoli, Teatro di San Carlo, 24 aprile 2014
in scena dal 13 al 29 aprile 2014

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