“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 06 June 2015 00:00

Giuseppe e la Madonna

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Nella sala Fringe di Castel Sant’Elmo, sotto un’imponente volta tufacea, un uomo solo gira in tondo a piedi nudi sul palco spoglio con un’espressione quasi catatonica, claudicante. Il pubblico entra nella sala, getta uno sguardo a lui, alla madonna di gesso che non arriva al metro di altezza, messa al centro, verso il fondo palco. Quasi non badando a lui, prende posto, continua a chiacchierare mentre l’uomo, in pantaloni verdi e camicia bianca, continua a girare.

Il borbottio cessa solo con due brevi note musicali e il buio in sala spinge l’uomo a interrompere il suo moto perpetuo e a dirigersi verso la statua, accogliendola tra le braccia pronunciando una frase sibillina e accorata: ”Non è vero che si muore sul colpo. Si piange un bel po’ prima di morire”.
Il cambio di luci e la statua che viene portata al limitare del proscenio, segnano un netto passaggio tra questo momento, di cui ci si dimenticherà fino a farlo emergere alla memoria alla fine, e il successivo in cui, con piglio vivace e ironico, l’uomo presenta se stesso e la sua vita. Si chiama Giuseppe Rossi, fa il rappresentante di articoli religiosi e porta sulla scena a sinistra un servomuto su cui poggia una giacca dello stesso colore dei pantaloni, che alla base ha tre piccole madonnine come quella più grande, poi a destra collocherà una sedia e un grosso catino lì dove inizialmente si trovava la statua della madonna. Tutti gli oggetti sono bianchi come la sua valigetta ventiquattrore con la quale svolge il suo lavoro. Tutto bianco candido, puro come la castità.
La sua storia inizia nel 2000, proclamato Anno Santo e momento di grande successo negli affari anche di cuore perché è l’anno in cui ha conosciuto Maria. La storia del suo lavoro, del suo incontro con la ragazza e suo cugino Gabriele, del loro fidanzamento è condotto con un dosaggio equilibrato di pause, ammiccamenti, ironie, iperboli dove il sorriso che scaturisce per alcune situazioni si trasforma in riso vero e proprio. Il momento drammatico si presenta quando i due vorranno carnalmente consumare il loro amore, ma Giuseppe, nel momento più importante, si accorgerà di essere impotente perché, come in un’apparizione mistica, davanti a lui c’è la statua della Madonna del Sacro Cuore con le braccia aperte come se lo volesse abbracciare. Le luci illuminano la statua che sembra animarsi proiettando un’ombra enorme sulla parete di fronte al pubblico che si compenetra nel dramma di Giuseppe, il quale racconta con lo sguardo espressivo, più che con l’intonazione della voce, una défaillance umiliante.
Sembrerebbe una storia banale questa di Giuseppe Rossi, fatta di un’infanzia ed adolescenza vissuta tra nonno, genitori tradizionali, fallimenti e sogni infranti così comuni, invece si ispessisce di episodio in episodio in questa storia d’amore dove i personaggi sono quelli di una sacra famiglia anomala: c’è lui, Giuseppe, Maria e il cugino Gabriele che la mette incinta (forse proprio grazie ad un espediente folle di Giuseppe), ma il padre putativo è disposto lo stesso a contrarre matrimonio fingendosi ignaro della gravidanza, sperando così di risolvere il problema della sua impotenza e tramando un finale diverso a quel matrimonio. La svolta è nell’incontro con la thailandese Dogmai, che significa fiore, una pornostar che gli amici gli offrono alla festa di addio al celibato. Giuseppe con lei non è impotente al punto di sognare una vita diversa lontano dal quel mondo meschino in cui è sempre vissuto. Si svela, allora la personalità dell’uomo, complessa, folle, dove il sentimento di riscatto, di rivalsa, di vendetta lo fa muovere fino al finale sorprendente che in fondo tale non è, perché solo allora ci si ricorda della frase iniziale e il cerchio si chiude, la storia finisce e l’uomo rimane solo sul palco, dopo una doccia nel catino che non è riuscito a purificarlo.
La scena indubbiamente di spessore comico e realizzata con sicura maestria da Gianluca Cesale è quella del giorno del matrimonio, cerimonia religiosa e rinfresco allegato, narrata attraverso frasi sincopate, ritmate, accennate che nell’insieme rendono perfettamente l’atmosfera di una cerimonia vuota, tradizionale fin nel dettaglio, riassumendo in modo esilarante l’apoteosi della falsità e del vuoto. Si fosse rimasti su questo piano, il testo avrebbe avuto più qualità, invece sembra un po’ forzata la lettura dell’impotenza sessuale di Giuseppe come simbolica di una condizione esistenziale che schiaccia e asservisce l’individuo. Il testo, dunque, pur presentando spunti originali in una trama di per sé di poco spessore, è stato reso potente sulla scena grazie all’interpretazione di Cesale, che attraverso anche solo gesti accennati e sguardi furtivi, diventava vittima e carnefice, angelo e demone, santo e dannato. Nel complesso, uno spettacolo godibilissimo ed apprezzato dal pubblico di questa edizione del Fringe.

 

 

 

Fringe E45
Un uomo a metà
di Giampaolo G. Rugo
regia Roberto Bonaventura
con Gianluca Cesale
ideazione luci Roberto Bonaventura
elementi scenici e costumi Francesca Cannavò
amministrazione e organizzazione Marilisa Busà
produzione Compagnia Bonaventura/Cesale, Il Castello di Sancio Panza, Fondazione Campania dei Festival
lingua italiano
durata 1h
Napoli, Castel Sant’Elmo – Sala Fringe, 4 giugno2015
in scena 4 e 5 giugno 2015

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