“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 06 February 2017 00:00

Il testamento di un artista drammatico

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“Qui facciamo teatro, qui non siamo noi stessi!”
(Thomas Bernhard)

 

Minetti, “Ritratto di un artista da vecchio”, è l'atto d'accusa di un artista indignato, una resa dei conti filosofica e un'arma a lunga gittata idonea a colpire una moltitudine di bersagli; Minetti è l'ultima maschera dell'attore, tenuta in serbo per l'ultimo spettacolo, ed è la più terrificante che sia mai stata fatta.
In quest'opera Thomas Bernhard, con la coerenza di un cecchino ossessionato dalle sue vittime, poggia il suo sguardo greve sul teatro e il suo pubblico, sineddoche di una società condannata all'eterna ottusità. È al teatro, infatti, che spetta rappresentare il mondo con le sue intrinseche menzogne, è, quindi, al teatro che spetta mostrare “la più reale delle realtà” attraverso l'arte e l'artificiosità.

Questa coesistenza di verità e artificio fa del teatro il luogo dove 'l'innaturale' diventa la cosa 'più naturale del mondo'. Anche per descrivere i suoi romanzi, Bernhard ricorre al teatro, luogo in cui più risiede il vero: "Bisogna immaginare di essere a teatro, aprendo la prima pagina si alza un sipario, compare il titolo, buio totale – a poco a poco dal fondo, dal buio escono le parole, le lentamente si trasformano in avvenimenti di natura esteriore e interiore, particolarmente evidenti proprio grazie alla loro artificiosità” (Der Italiener). Sulla ribalta la vita si cristallizza diventa perfetta e disumana come la scienza; è quindi necessario comprendere il perché di questo attacco diretto al teatro e, soprattutto, al suo pubblico: “Contro il pubblico, contro, contro, contro, sempre e soltanto contro”.
Minetti, attore drammatico (il testo è dedicato all'attore tedesco Bernhard Minetti), entra in scena come attore/personaggio, questa identità non viene meno se l'attore che interpreta Minetti è in sintonia perfetta con l'idea di attore di Bernhard e, annullando sé stesso, lascia trasparire Minetti. Eros Pagni, in quest'ora e venti minuti, non è il noto attore e doppiatore italiano, ma solo Minetti, in tutta la sua illuminata follia, ma è anche Minetti, che dopo trent'anni di assenza dalla scena, torna a King Lear, “l'opera drammatica più importante della letteratura universale”, e intimo personaggio col quale si confondono i confini, e i pensieri dell'uno diventano anche quelli dell'altro. Infine, Eros Pagni, è lo stesso Thomas Bernhard che parla attraverso Minetti, che parla attraverso Re Lear. Un gioco di identificazioni, scatole cinesi e metafore che mira a svelare l'essenza dell'arte drammatica e il ruolo dell'attore.
Lo spazio è circoscritto, siamo in un albergo di Ostenda, Minetti arriva dal gelo e al suo ingresso nel luogo da cui manca da trent'anni (il medesimo tempo della sua assenza dalla scena), osserva e rileva i sostanziali cambiamenti; stupore e nostalgia accompagnano la sua prima battuta “Come è cambiato, come cambia lentamente... Completamente cambiato, il cambiamento è progressivo. È tutto solo una questione di tempo”. Questa hall, che è anche un/il Teatro, è lo spazio dei ricordi e dell'attesa, i gesti e le frasi sembrano ripetersi avvoltolandosi sulle medesime parole, in un labirinto senza senso e fine, la cui l'unica svolta possibile sembra essere un'uscita da quella scena nell'attesa di una morte gelida.
Tempesta e gelo sono una costante nei testi di Bernhard, ma in questo caso l'atmosfera gelida (esterna ed interna) richiama un'altra tempesta. La pazzia di Lear coincide con la tempesta e lo sconvolgimento della natura, il temporale che raggela le ossa del re è una proiezione della sua follia. Ma è grazie alla follia che Lear diventa uomo tra gli uomini e giunge alla radice della natura, alla vera chiarezza, all'uomo in sé. Tolto l'inutile (corona, scorta e vesti regali) non resta altro che l'uomo. L'uomo inadulterato deve liberarsi dagli orpelli: “Via, via, ciarpame preso in prestito! Vieni, sbottonami qui”. Grazie alla follia Lear raggiunge la saggezza e la consapevolezza, ma il cambiamento non è immediato, come Minetti afferma nella sua prima battuta “il cambiamento è progressivo. È tutto solo una questione di tempo”. Minetti sembra riferirsi alla hall dell'albergo, ma anche al teatro e, soprattutto, a sé stesso. Lear non accetta subito il cambiamento e combatte il suo lento digradare verso la pazzia. Quando il buffone (il Fool, il Matto) gli insinua il dubbio della follia, reagisce con sdegno: “Mi dai del matto, ragazzo?”, ottenendo però conferme: “Ogni altro titolo l'hai buttato via; con quello ci sei nato” e 'rassicurazioni': “Adesso sei uno zero senza cifra davanti; ora sto meglio io rispetto a te. Io sono un matto, mentre tu sei niente”. Il buffone vuole dire a Lear che adesso non è più un re, ma non è ancora un uomo. Lo diventerà più avanti, quando, accettando la pazzia, accoglierà la sua natura umana. Nel momento esatto (siamo nel terzo atto del Re Lear) in cui il re riconosce la propria pazzia avverte anche il freddo della tempesta che infuria dal di fuori e dal di dentro: “Comincia a darmi di volta il cervello. Vieni ragazzo mio. Come ti senti? Hai freddo? Ho freddo anch'io”.
Per Bernahd la vita è disperazione in cui trovano appoggio le filosofie, e in cui tutto in ultima analisi è costretto alla Pazzia. È il fatale fraintendimento nella natura in cui ci siamo smarriti a causa della scienza. Siamo spaventati dalla chiarezza di cui all'improvviso è fatto il nostro mondo di scienza; sentiamo freddo in questa chiarezza; ma questa chiarezza l'abbiamo voluta e suscitata noi, non possiamo dunque lamentarci del freddo che ora impera, “con la chiarezza il freddo aumenta. Questa chiarezza e questo freddo d'ora in poi regneranno sovrani. La scienza della natura significherà per noi più alta chiarezza e un freddo molto più feroce di quanto possiamo immaginare. Tutto sarà chiaro, di una chiarezza sempre più alta e sempre più profonda, tutto sarà freddo, di un freddo sempre più terribile. Avremo in futuro l'impressione di una perpetua giornata, perennemente chiara e perennemente fredda” (T. Bernhard, I miei premi).
Minetti arriva dal gelo la notte di San Silvestro: “Una tempesta di neve a Ostenda è una mostruosità”, quindi reca con sé chiarezza e follia, il suo è il testamento di un grande attore che ha scelto come scopo dell'esistenza l'arte drammatica, è un pazzo che ha raggiunto la saggezza e la consapevolezza della pazzia. La scelta dell'arte drammatica come scopo dell'esistenza – “Ho fatto l'attore, un servitore assoluto della letteratura drammatica” – è una scelta coraggiosa che richiede autenticità: “Ho rinunciato ai giochi di prestigio per l'arte drammatica”, e va intrapresa senza temere il dileggio e la derisione, è una rottura dei ponti con tutto e con tutti: “Rotti i ponti con la materia signor mio a favore dell'arte drammatica”.
Con il laccio delle mutande che continua a slacciarsi Minetti/Pagni mostra le ferite spirituali di un mondo che pretende di essere divertito e di un teatro che sceglie di assecondarlo colpendo a morte l'arte drammatica. Questo concetto viene ripetuto e mostrato da tutte le prospettive a un uditorio distratto e inconsapevole (la signora in rosso stordita dall'alcol e il personale dell'albergo), mentre una pedana girevole continua, a sua volta, a cambiare la prospettiva del pubblico. Il monologo è interrotto solo dal viavai degli ospiti dell'hotel e da poco rassicuranti incursioni di giovani mascherati che sembrano usciti dalla mente di Kubrick. Nessuno pare prestare ascolto a quello che dice, se non per trarre quel po' di divertimento che si ricava dalle farneticazioni di un vecchio pazzo. Tuttavia, impercettibilmente, nell'ultima parte, qualcosa cambia; una ragazza originaria di Liegi figlia di un macchinista delle ferrovie con l'udito immerso nella sua musica giovanile e le mascelle allenate al chewing-gum, inizia ad ascoltare le parole di Minetti e, cosa ancora più stupefacente, sembra sempre più interessata e rapita da quello che l'anziano attore le sta raccontando. Ecco, nel crescente interesse di questa ragazza, che sembra più una scelta di regia di Marco Sciaccaluga che una volontà del testo, si può leggere non solo uno spiraglio di speranza che attenua l'inevitabile tragicità del finale, ma un chiaro richiamo al Lear di Shakespeare. Il testo del Bardo si chiude, infatti, sul motivo della speranza offerta dalla nuova generazione, e la muta empatia di questa ragazza ricorda, nei gesti, il congedo dal re del giovane Edgar.
Al termine della rappresentazione gli attori hanno salutato il pubblico indossando la maschera di Shakespeare, tutti tranne Pagni, che con indosso la maschera di Ensor, resta fino in fondo un grande Minetti e un grande Lear.

 

 

 

Minetti
di Thomas Bernhard
versione italiana Umberto Gandini
regia Marco Sciaccaluga
con Eros Pagni, Federica Granata, Marco Avogadro, Nicolò Giacalone, Giovanni Annaloro, Mario Cangiano, Marco De Gaudio, Roxana Doran, Daniela Duchi, Michele Maccaroni, Sarah Paone, Bruno Ricci, Francesco Cristiano Russo, Emanuele Vito
scene e costumi Catherine Rankl
musiche Andrea Nicolini
luci Sandro Sussi
foto di scena Bepi Caroli
produzione Teatro Stabile di Genova
lingua italiano
durata 1h 20'
Napoli, Teatro Mercadante, 4 febbraio 2017
in scena dal 31 gennaio al 5 febbraio 2017

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