“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 09 February 2017 00:00

Dell'Amleto di Iodice, del malessere di Napoli

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Per Jan Kott mettere in scena l'Amleto, nella sua integrità, è impossibile. Non è tanto una questione di durata, sei ore circa, quanto d'ampiezza di significati – di vastità dell'opera. Capita perciò non solo che si debba tagliare, scorciare, eliminare scene o battute, luoghi o personaggi, ma – ancora di più – che un regista o un interprete debba accontentarsi di rappresentare, nel perimetro limitato di questo palcoscenico, “uno soltanto degli Amleti” contenuti nell'Amleto. Sia chiaro: sarà sempre e comunque più povero e modesto di quello shakespeariano – lo sbircio dato a un panorama troppo vasto per essere contenuto da un qualsiasi sguardo umano – ma può essere almeno, ci avverte Kott fiducioso, “un Amleto arricchito della nostra contemporaneità” e se ciò è possibile è perché si tratta di un testo che non puoi limitarti a rappresentare, aderendogli come il volto aderisce ad una maschera, ma t'impone una riflessione epidermica e della coscienza, una messa in gioco di te stesso fisica e morale, una partecipazione maggiore di quella imposta da qualsiasi altra drammaturgia che appartiene al grande canone del Teatro.

Non a caso “molte generazioni vi hanno trovato se stesse” in questo dramma, secoli interi sono finiti per appartenergli, le nazioni più diverse sono state chiamate “Danimarca” e uomini e donne, anziani e adolescenti, attori al primo ruolo da protagonista o veterani con decenni di mestiere hanno creduto e fatto credere, per la durata dello spettacolo, di essere-e-non essere il principe danese. Dalla vocazione al martirio intimo e sentimentale del Romanticismo all'odore di bruciato prodotto dai bombardamenti durante la Seconda Guerra Mondiale: “La genialità dell'Amleto”, continua Kott, forse “consiste proprio nel fatto che ci si può vedere riflessi come dentro uno specchio”. Io sono Amleto, la corte è la mia famiglia, il castello la mia casa; il Seicento è il 2017, Elsinore è questa città, la Danimarca è il mio Paese. Quei dubbi, quei dolori, quella solitudine, quel senso di schifo sono i miei.
Ma se l'Amleto è uno specchio, ci dice Ludwig Börne, si tratta non di uno specchio convesso ma concavo: perché restituisce di sé e del mondo un'immagine distorta e, soprattutto, perché richiede a chi lo interpreta di riempirlo di contenuti nuovi ed ulteriori. Io, la mia famiglia, la mia casa, il 2017, questa città, questo Paese e i miei dubbi, i miei dolori, la mia solitudine, il mio senso di schifo devono contribuire alla resa dell'Amleto. Conseguenze? Una in particolare: un buon Amleto, dice Kott, è quello che riesce ad essere al tempo stesso il più shakesperariano e il più contemporaneo possibile. “Soltanto con questo metro”  – aggiunge – “possiamo giudicarne le varie messe in scena: chiederci, cioè, quanto c'è in esse di Shakespeare e quanto c'è di noi”, del nostro tempo, di questo pezzo di mondo in cui viviamo.


La prima immagine di Mal'essere è in realtà una premessa allo spettacolo: un gruppo, vestito a lutto, se ne sta intorno a quella che scopriremo essere la bara di Re Amleto. Ne viene celebrato il funerale, un quarto d'ora prima che la messinscena abbia inizio. Il pubblico entra, bisbiglia, si dirige al posto, siede, bisbiglia ancora mentre sul palco sta avvenendo il rito. Questo momento serve a mostrare quanto poco tempo separi la sepoltura del Re dall'unione tra sua moglie e suo fratello. In più, azzardo un calcolo: Mal'essere dura un'ora e quarantacinque; aggiungendo questi quindici minuti di presenza preventiva giungiamo al tempo teatrale dichiarato dal principe danese: mio padre, dice a Ofelia, è morto da due ore e guarda l'aria gioconda che ha mia madre.
“Chi c' sta lloc?”, “Chi è?”, “Chi cazz' si tu?”. Voci nel buio cingono gli spettatori: sono Bernardo, Francesco, Orazio che così fanno dell'intero San Ferdinando il castello di Elsinore, collocandoci dentro e durante la prima notte dell'Amleto. Questo avviene mentre dal centro del proscenio uno specchio, manovrato da un interprete, intercettando un faro ne rimanda il riflesso al pubblico. Perché? L'Amleto è un'opera-specchio, nella quale siamo destinati a riconoscerci, certo, ed è trama che da secoli funziona come “specchio dei costumi”; ma è anche un testo che fa del teatro metafora evidente, rimando continuo, materia concreta di sé e oggetto di discussione, strumento drammaturgico essenziale. Gli spettri, l'incarnazione delle apparenze, il suggeritore che funge da talpa, la carretta degli attori, i consigli sulla recitazione (tono, gesti, postura), l'inciso che rimanda ai giovani che strillano sui palchi londinesi, la tragedia allestita nella tragedia, le battute in aggiunta, la falsità evidente della menzogna che diventa mezzo buono a smascherare la menzogna della bontà di madre e zio, regina e re, e degli amici, di Ofelia, dei consiglieri, della corte.
Il teatro, dunque, inteso come trucco, abbaglio, mestiere, artigianato.
Ebbene: qual è il suo scopo, secondo Amleto? “Reggere lo specchio alla natura” così mostrando “alla virtù il suo vero volto, al vizio la sua vera immagine, all'età e al corpo dell'epoca la sua forma come un calco”. Lo specchio che rimanda il riflesso del faro è dunque anche una dichiarazione registica: la (meta)teatralità dell'opera diventa teatralità evidente nello spettacolo.
Infatti: gli interpreti che fungono da servi di scena; un lampadario che pende da un'asta e che viene introdotto da un attore perché faccia da interno seicentesco; il doubling shakespeariano; il coinvolgimento delle scalette anteriori d'accesso al palco, del retroscena e dei corridoi laterali; l'apertura delle botole; l'affaccio continuo al golfo mistico; l'uso del fermo-immagine e dello slow motion; la presenza di pupi, finti animali e bambole (“presterei la mia voce a te ed al tuo amante se potessi vederne le marionette trastullarsi”); l'attrezzatura a vista; Amleto che innalza un boccascena di luminarie per farne teatro nel teatro; la panca interna introdotta perché Re, Regina e Ofelia assistano alla Tragedia di Gonzago; l'epicità derivante dall'uso della musica e delle canzoni; gli attori che, terminata la parte, stazionano su una panca laterale rimandando sia ad una delle caratteristiche dell'opera (ci si spia di continuo nell'Amleto, non c'è dunque mai solitudine e tutto ciò che avviene presuppone l'esistenza di spettatori interni) sia svelando che ciò a cui stiamo assistendo è una recita: lo è quella inscenata da Gertrude, Polonio, Claudio, Ofelia per Amleto; lo è quella resa a noi da Angela, Paolo, Marco, Veronica. Non a caso l'Amleto di Luigi Credendino rivolge solo alcune delle sue battute “dentro” mentre offre spesso frasi e sguardo al vuoto (“tu che volgi l'occhio nel vuoto” leggo nell'Amleto) per poi estraniarsi dal contesto di cui fa parte sedendo in proscenio, a sinistra, con le gambe che gli pendono dal palco: così sta – con la testa e la schiena, le braccia, il petto e le mani – ai margini della falsità costituita dalla trama, dalla recita e dal suo spettacolo.
Dell'Amleto di Shakespeare c'è il bianco dell'abito di Ofelia: simbolo di innocenza verginale; emblema del fatto che lei è l'unica che “non conosce l'oscuro”; rimando al suo sudario, chiaro “come neve di montagna”. Di Ofelia c'è d'immediato il destino tragico (giace sepolta nel velo matrimoniale di Gertrude), il legame fraterno con Laerte (che, per metafora, diventa un passo di danza), la sudditanza a Polonio, padre-padrone che ne stupra l'intimo perquisendola ogni sera, tenendola per un orecchio (“confida tutto al mio orecchio” fa dire d'altronde Shakespeare a Polonio), stringendole la mascella in pugno come farebbe un violentatore con la sua vittima. C'è di Ofelia la dolcezza infantile, la propensione al gioco (per questo, durante la Tragedia di Gonzago, sparge sui capelli di Amleto – che le poggia il capo sulle gambe – un pugno di coriandoli, così rendendo la battuta “siate allegro, mio signore”); c'è il senso di vergogna quando viene imbellettata e usata come esca per smascherare la follia dell'innamorato (basta notare come Veronica D'Elia, ossessivamente, tira giù l'orlo del vestito che le hanno imposto prima di lasciarla come a un angolo di strada gli sfruttatori lasciano le prostitute e d'altronde è “la faccia della puttana” che viene evocata in questa scena); c'è di Ofelia la pazzia – vera, in contrapposizione a quella recitata da Amleto – che la coglie prima del suicidio: siede perciò anch'ella in proscenio, sguardo in basso al golfo mistico, ma sulla destra e quindi al lato opposto rispetto a quello destinato al principe danese.
Ancora.
C'è dell'Amleto di Shakespeare la propensione oltre-limite che Gertrude manifesta per l'ostentazione ipocrita, tant'è che ogni suo gesto o parola avviene secondo gli stilemi della sceneggiata: le lacrime, la mano passata e ripassata sul fondo d'erba che fa da tappeto in palcoscenico, il senso di colpa espresso, il tono della voce. Che la sceneggiata sia il registro con cui è stato concepito il personaggio lo conferma, tra l'altro, l'“addio cara madre” detto da Amleto, rimando a Lacrime napulitane. C'è dell'Amleto la vocazione di Polonio all'osservazione indebita (dimostrata subito: durante il matrimonio tra Gertrude e Claudio, Polonio infatti spia Amleto, seduto in proscenio) e il suo favore alla partenza di Laerte (la mano tesa a reggergli il soprabito); il desiderio ossessivo di Potere che appartiene a Claudio, rappresentato dal trono su cui siede all'inizio di Mal'essere; l'ipocrisia di Guildenstern, che alla parola “verità” accennata dal principe volge lo sguardo altrove.
L'ingresso di Amleto dalla quinta di sinistra, libro in mano, senza guardare (volutamente) Re e Regina; il teschio di Yorick che il giovane ha stampato sulla maglietta (ricordo di chi per lui fu secondo padre, esempio e mito) mentre Ofelia porta sulla veste una rosa ricamata (rimando forse alla "bella rosa di questo Stato" che per lei è Amleto); il pantalone del principe caduto alle ginocchia poiché è con “le giarrettiere giù alle caviglie” che lui si mostra d'improvviso a Ofelia. Il cuore-ciondolo che quest'ultima vuole ridargli (“ho dei vostri ricordi che da tempo desideravo restituirvi”) e che ne mostra la natura acerba, il carattere ancora fanciullesco (“parli come una ragazza in erba” le imputa il padre: così quasi anticipando il suo destino, che è quello di finire sotto l'erba); il Polonio-attore in gioventù nella parte di Giulio Cesare, che presagisce la pugnalata che riceverà dal principe (così Iodice sostituisce il riferimento a Roscio contenuto nel testo di Shakespeare); l'arazzo dietro cui lo spione si nasconde, che coincide – bella immagine dello spettacolo – con la vestaglia di Gertrude (posizione complice tra la Regina e il consigliere che determina l'errore di Amleto, convinto d'avere ucciso Claudio) prima che il drappo diventi pozza di sangue e tappeto nel quale il cadavere viene arrotolato a calci.
Perché domina un sole rosso nella messinscena della Tragedia di Gonzago? Perché è una falsità, lo dice Amleto con la sua poesia, che “le stelle siano fuoco” tant'è che è giusto dubitarne; perché è rossa la vergogna (“vergogna, dov'è il tuo rossore?” chiede Amleto) e perché, aggiungo, il rosso è segno di falsità giacché della madre dice il principe: “Prima che il sale delle più false lacrime avesse smesso di segnarle di rosso i suoi occhi stropicciati, si è sposata”. Perché la bara funge da tavola per il banchetto? Perché in questo modo viene resa la vicinanza cronologica – quasi una coincidenza – tra funerale e matrimonio: “Le carni arrostite” per l'uno, dice infatti Amleto, “hanno rifornito, fredde, le tavole” dell'altro. E perché in questo banchetto ci si ciba di mele? Perché questi “sono i frutti del mio crimine” afferma Claudio.
Lo spettro del Re, scheletro che mostra le interiora e che sembra visualizzare il racconto che della propria morte fa il vecchio sovrano: “Un'improvvisa tigna” narra “incortecciò di un'immonda e schifosa crosta tutto il mio corpo liscio”. Il ballo tra Claudio e Gertrude, che è anche un rapporto sessuale lussurioso. Il “qui non ci saranno altri matrimoni” che riduce Ofelia a una crisalide nel bozzo mentre impedisce a Gertrude il lancio del bouquet. I movimenti circolari e in senso antiorario, che richiamano il desiderio amletico di poter andare indietro nel tempo. Il brindisi tra Amleto e gli amici, effettuato con una Ceres – che è una birra danese (la tiene tra le mani anche Claudio) – mentre ai becchini tocca una Peroni, più economica e dunque popolare. I becchini stessi, interpretati da chi recita anche la parte di Rosencranz e Guildersten poiché a quest'ultimi, nell'opera di Shakespeare, tocca il compito di dover scovare e seppellire il corpo di Polonio. I nove teschi posizionati in circolo, e che indicano la pluralità di morti che infesta la tragedia, accompagnati dal crescente odore dell'incenso, che invade la platea. Tra questi nove, quello di Yorick, adagiato su un fazzoletto rosso (il cuore), segno dell'affetto che per lui portava Amleto.
Infine. Questo prato d'erba vera – qualcuno in platea mormora “prato all'inglese” – che diventa metafora d'una terra che si insozza, si fa “lurido porcile” al pari di “un giardino non sarchiato che va in seme” finché “cose marce e volgari lo posseggono completamente”, lasciando che da esso emerga un malodore che rende il cielo “un'immonda e pestilenziale congregazione di vapori”.
Brandelli di pagine di giornali, fazzoletti di stoffa, bottiglie vuote e crani, pezzi di carta stropicciati, lembi di buste della spazzatura trascinate dalle pale e dalle scarpe dei becchini; gli avanzi di un panino, la cenere di un libro in fiamme, una pistola, un carrello della spesa.
Una discarica.
Abusiva.


Amleto, che sempre mi fa tremare i polsi e che sta nella mia carne come una spina conficcata e nel profondo, o come qualcosa che cresce continuamente all'interno e che prima o poi verrà fuori” mi disse tempo fa Davide Iodice, intervistandolo per Hystrio. “Per me” – continuò – “l'Amleto è una questione di maturità: significa sentire il cuore e la testa libera dai condizionamenti” nel momento in cui ho deciso di metterlo in scena: libertà anche “dalle grandi lezioni e dalle interpretazioni del passato”.
Per Iodice Amleto è stato per anni una dannazione, ha agito come uno spettro di ritorno: come un fantasma quest'opera si è mostrata e si è lasciata contemplare, prima di indurre il regista a dire: non è il momento. Assistendo a Mal'essere mi chiedo: cos'è che ha convinto ora Iodice a metterlo in scena? E davvero si può parlare solo e soltanto di una messinscena dell'Amleto di William Shakespeare?
L'elenco di riferimenti che ho scritto dà conto certamente di una traduzione visiva dell'opera, che coniuga la successione dei momenti della trama in una galleria dalla forza pittorica: l'opera avviene così per quadri, suggestioni e immagini. Sono, nello specifico, trentaquattro i “movimenti” con cui Iodice rende parte dei cinque atti originali: dall'“ouverture” della cerimonia funebre all'epilogo che Orazio/Peppe Sica rivolge al pubblico – “che vulite verè ancora?” – prima che i quattro rapper che fino ad allora hanno interpretato le guardie del castello e gli amici del principe intonino il loro cordoglio hip hop: Ofelia vive.
Le recensioni che fino a questo momento hanno riguardato Mal'essere, pur divergendo nel giudizio, su un punto concordano: Iodice mette in scena l'Amleto. Difficile smentire il dato, me ne rendo conto. Tuttavia io ho una sensazione ulteriore e differente: Davide Iodice non usa cantanti e attori per mettere in scena il dramma shakespeariano, dandone la sua versione; Iodice invece realizza il processo inverso: usa il dramma shakespeariano per dire qualcos'altro, usufruendo di cantanti e attori. E d'altronde penso: se il suo scopo fosse stato la perfezione formale dello spettacolo – se il suo fine fosse stato realizzare un Amleto esteticamente impeccabile e maturo – perché affidarsi a dei non-attori (i rapper) e a degli interpreti così giovani, alcuni dei quali alla loro prima vera esperienza su un palcoscenico tanto importante? Non è una (nuova) confezione del dramma il suo vero obiettivo, mi dico mentre rifletto: l'Amleto per lui non è la meta ma un mezzo. Già, ma il mezzo per raccontare cosa?
Torno all'ultima immagine che mi è rimasta in mente – la discarica – e ripenso ad altre parole che Iodice mi ha detto durante l'intervista: c'è un tema che da tempo gli occupa i pensieri ed è quello dei rifiuti; “il rifiuto” va inteso come un tentativo di “liberarsi di un peso, un ricordo, un'ossessione” – certamente – ma anche come la metafora di una marginalità sociale a cui Iodice ha sempre posto attenzione (non sono forse periferiche le discariche? Non viene nascosta negli angoli remoti di un quartiere l'immondizia? Non si continua, nei discorsi pubblici, a far finta che non esista pur esistendo ancora?) e sono anche il segno più evidente, nonostante giaccia in ombra, del marcio che sta avvelenando questa Regione. Inoltre: sono, i rifiuti, anche una questione generazionale: rimanenza del passato, vengono interrati nel presente, ammorbando di cancro il futuro: di una terra e dei suoi frutti, delle genti e dei suoi figli. “Il lavoro sui rifiuti” – mi disse – “porta in sé il tema della società, della collettività e della memoria”. E allora: l'Amleto serve a Iodice per dire della società campana. Di più: gli serve per dire di Napoli e dell'avvelenamento che continua nelle sue falde, sotto i ponti, lungo i fiumi, sotto le spiagge, nelle cave, a lato delle strade di raccordo, nel mezzo dei campi degli agricoltori. Ancora: l'Amleto è lo strumento che Iodice utilizza per farci vedere come i padri e le madri qui stiano uccidendo i propri figli; per farci vedere come qui avvenga il martirio della purezza; per farci rendere conto che qui, ed ogni giorno, l'onestà diventa sacrificio, la ribellione è un atto solitario e che l'innocenza è spesso vittima.
E d'altronde – tornando a Shakespeare – forse non esiste nell'Amleto una questione generazionale? Non sono Amleto figlio, Ofelia, Laerte e Fortebraccio gli interpreti di un destino deciso per loro dai genitori? Non sono costretti a una parte che non hanno voluto ed alla quale è impossibile sottrarsi? “Esaminiamo il copione.” – scrive Jan Kott – “L'Amleto è la storia di tre ragazzi e di una ragazza. I giovani sono coetanei, si chiamano Amleto, Laerte e Fortebraccio. La ragazza è più giovane di loro, si chiama Ofelia. Tutti e quattro vengono coinvolti in un cruento dramma politico e familiare” di cui non sono artefici ma l'oggetto, che non hanno contribuito ad alimentare ma da cui verranno divorati. Tre di questi infatti muoiono, finendo per essere cibo per i vermi: ricordi tra i ricordi, rifiuti tra i rifiuti.


Ciò che vediamo è dunque l'Amleto ma l'Amleto in Mal'essere non è che l'apparenza, “l'ornamento del dolore” per citare il principe danese; spettacolo per gli occhi che offre il ciclorama bianco che fa da fondale e che viene colorato indicando quand'è l'alba, quando il tramonto, quando suona la mezzanotte o il mezzogiorno; le figure poste in controluce, ombra scura di se stesse; il gioco scenico, mostrato in tutta evidenza, passaggio per passaggio perché sia assente la verisimiglianza. “Ma io non conosco sembra” dice anche il principe. Ed ecco la materia vera e viva di cui è fatto Mal'essere: non la traduzione del testo shakespeariano ma la sua riscrittura verbale, affidata a sei rapper di Napoli e del suo entroterra: ne viene una lingua bastarda, battente e collettiva che, basta leggerla, non risponde alle norme grammaticali del dialetto né alla corretta scrittura vernacolare (accenti, apostrofi, elisioni delle parole) ma che è suono adagiato in rima sulla pagina solo perché serve un copione allo spettacolo ma che nasce oralmente, oralmente vive e si consuma col suo stesso racconto.
Questa verbalità chiama alla luce figure che, nel loro mostrarsi, sono un rimando a Napoli: così nella voce rauca di Amleto, ad esempio, mi sembra di riconoscere il timbro anziano o tabagista degli abitanti del Dormitorio Pubblico, con cui Iodice ha lavorato, mentre nell'Ofelia impazzita intravedo Rosaria e Antonio 'O Barone, clochard morti tra il 2014 e il 2015: della prima l'isolamento fisico e l'angoscia che le riempiva gli occhi; del secondo il rapporto tra la follia e il tuffo (Antonio perse senno e salute proprio per un tuffo fatto, a diciassette anni, da Palazzo degli Spiriti a Posillipo), la coperta a quadroni colorata e il carrello per la spesa.
Sono fujenti i compagni di Amleto, lo dimostrano le fasce rosse in petto, e come un fujente porta l'asta col vessillo della Madonna così l'attore introduce in scena il lampadario; ha movenze tratte dalla tammurriata il ballo tra il re e la regina; il clown bianco, prima ancora che il fool shakespeariano, richiama le statue in porcellana di Capodimonte; lo scheletro di Re Amleto riprende le macchine anatomiche della Cappella di San Severo (e d'altro canto ricorre nell'Amleto l'espressione “macchina del corpo”); traducono in numeri della smorfia gli eventi accaduti i due becchini mentre un teschio viene carezzato e preso in cura secondo la prassi delle anime pezzentelle, di cui sono luogo di culto il Complesso del Purgatorio ad Arco e il Cimitero delle Fontanelle. E d'altronde noto: il Guildestern che fa anche il becchino e che insozza e scava, scava e insozza, è interpretato da Damiano Rossi, cioè dall'autore-attore di Pulcinella RAP, tra le più riuscite narrazioni teatrali dello smaltimento campano dei rifiuti e delle sue letali conseguenze, mentre Veronica D'Elia – prima di Ofelia – ha interpretato Lucia, anch'ella una vittima innocente, in Opera pezzentella di Mimmo Borrelli. Il prato che fa da tappeto non richiama dunque l'Inghilterra ma è uno scorcio della periferia vesuviana, questo palco non è un giardino ma un pezzo di quella terra, verde alla vista e marcia nel suo ventre, che si distende da Napoli verso la provincia; sul fondo s'erge un cartellone pubblicitario – bacheca sei per tre buona per i manifesti dei centri commerciali, dei locali notturni o dei parchi acquatici costruiti e gestiti dalla camorra – sul quale appaiono in sequenza lembi di manifesti strappati, la base d'alluminio ripulita ed un murale col nome di Ofelia: quest'ultimo mi ricorda l'opera che il Collettivo Fx ha dipinto a Piazza del Gesù per ricordare 'O Barone.
“Quello che mi interessa” – mi disse Iodice per Hystrio – “è una contemporaneità all'accadimento-tempo che lo contiene. Ecco perché occorre prendere coraggio con la scrittura autonoma, ecco perché bisogna studiare e comprendere le arti del presente, pur nella loro vaghezza o fatuità. Ecco perché è necessario intrecciare biografie e trame, memorie e visioni”. “M'interessa perciò il grido dei rapper, la loro ritmica; sono in qualche modo una paranza armata di parole” e m'interessa, aggiunse, “muovermi tra riscrittura e creazione originaria, visionarietà e testimonianza, narrazione e teatralità immediata”.
Così convivono, in questo spettacolo, la senzadimora del centro storico, il giovane attore che si sta formando in questi mesi alla Scuola delle Arti Sceniche ospitata al terzo piano dell'ex Asilo Filangieri, la ritmica del rap, le bambine morte di tumore, il palloncino bianco lanciato al cielo al loro funerale e questa terra che “par' nu cesso”, “na latrina”, in cui “e sciure, 'o viento, 'o mare pare ca fete a peste”.
Questo per me è il corpo vero e multiplo di Mal'essere, vestito con l'abito d'Amleto.


Per due ore padri, madri e zii si amano, si odiano e si ammazzano, gestendo il tempo presente, questo regno, il castello e le terre tutte intorno. Nel nome della ricchezza – e dei benefici che ne derivano – sacrificano affetti, legami familiari, il proprio figlio, la figlia altrui. Per quanto ne abbondi la forma retorica non c'è senso vero di giustizia, non c'è alcun ordine morale, nessun freno inibitorio né si intravede prospettiva di futuro. Una generazione genitoriale di mal'esseri, insomma, si appropria del mondo cui appartiene per farne porcile, fogna, immondezzaio civile e materiale generando malessere. Nel nome del lucro, calcolabile al momento, chi è nato ieri sacrifica chi dovrebbe vivere domani. Depravazione, affarismo finalizzato solo al guadagno, delazione, silenzio complice, messa a servizio di se stesso per la realizzazione dell'abuso: ogni cosa trattata come niente, gli uomini e le donne rientrano nel conto. In queste due ore la terra inghiotte e vomita i suoi avanzi – sì, c'è del marcio nel Paese –, s'alza un tanfo putrido, il cielo s'appesta. Un giovane (il giornalista che autopubblica le sue denunce, il nuovo parroco locale, il politico non ancora infettato dalla cattiva politica; fate voi) tenta un atto di rivolta, usando la cultura come strumento di smascheramento. Fallisce, finendo a lato. Una ragazza muore, eliminata dagli eventi: non ne rimane che la memoria, ricordata dagli amici con una canzone rappata al cielo, in risposta alla messinscena ipocrita di un corteo funebre che ha nei presenti i suoi aguzzini. Un fiore reciso troppo presto – quante volte, leggendo la cronaca locale, abbiamo letto o usato quest'espressione. Accade ad Elsinore, accade a Napoli. Ofelia, sacrificata per la conservazione di un trono che è illegittimo; Annalisa, colpita da un proiettile vagante; Giulio e Sara, uccisi a cinque e sei anni da un tumore.
Per due ore abbiamo assistito a uno spettacolo, imperfetto com'è imperfetto ogni Amleto venuto dopo l'Amleto. I microfoni che fanno rimbombare o perdere certe frasi, alcune acerbità attorali e questa drammaturgia che è davvero molto interessante (meriterebbe un articolo a parte) ma che, a differenza di quella shakespeariana, pone tutti sullo stesso piano, assegnando ad ogni personaggio il medesimo registro lessicale. È stato uno spettacolo popolare, volutamente: com'era il teatro di Shakespeare, venduto un penny a posto. Alle mie spalle una cinquantina di ragazzi in età da liceo, annoiati inizialmente dalla prospettiva del pomeriggio da trascorrere in teatro, sono entrati in sintonia con la trama, hanno fatto più silenzio, si sono accucciati sulla poltrona ed hanno compreso la vicenda, accompagnando la canzone finale col battito ritmato delle mani prima di applaudire gli attori con entusiasmo. Qualcuno, tra gli spettatori più adulti, alla fine ha compiuto una smorfia di disapprovazione; molti tuttavia mi sono sembrati felicemente tramortiti da questo vortice di parole che suonano e di immagini che restano.
All'uscita piccoli crocicchi si formano e indugiano per commentare ancora mentre i bambini del quartiere fanno dello spiazzo antistante il teatro un campo di calcetto. Nell'aria fredda domina la loro voce. Trancia l'aria il Super Santos. "Scusate capo, scusate! Non l'ho fatto apposta. Palla...".
Domani la storia si replica. Al San Ferdinando; ad Elsinore, a Napoli.

 



Mal'essere
da Amleto
di William Shakespeare
ideazione, drammaturgia e regia Davide Iodice
riscrittura in napoletano di Gianni 'O Yank De Lisa, Pasquale Sir Fernandez, Alessandro Joel Caricchia, Paolo Sha One Romano, Ciro Op Rot Perrotta, Damiano Capatosta Rossi
con Luigi Credendino, Veronica D'Elia, Angela Garofalo, Marco Palumbo, Paolo Romano, Francesco Damiano Laezza, Salvatore Caruso, Damiano Rossi, Peppe Sica, Vincenzo Musto, Gianni De Lisa, Antonio Spezia
spazio scenico, maschere e pupazzi Tiziano Fario
costumi Daniela Salernitano
disegno luci Angelo Grieco, Davide Iodice
musiche composte ed eseguite dal vivo da Massimo Gargiulo
aiuto regia Michele Vitolini
foto di scena Pino Miraglia
produzione Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale
lingua napoletano, italiano, inglese
durata 1h 45'
Napoli, Teatro San Ferdinando, 2 febbraio 2017
in scena dal 1° al 12 febbraio 2017

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