“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 14 January 2022 00:00

Il tempo e lo spazio per l'arte. C.Re.S.Co. a Napoli

Written by 

La fretta è nemica dell’arte. La chiusura è nemica dell’arte. I limiti, le categorie, l’autoreferenzialità sono ostili all’arte. La creatività e il pensiero sull’arte necessitano di spazi, di aperture; di pluralità e alterità. Si fonda su questo ma soprattutto sperimenta questo il progetto avviato dal Tavolo delle idee di C.Re.S.Co. Lo Stato dell’Arte che dal 2018 crea uno spazio dedicato al confronto tra artisti; uno spazio protetto, tutelato dalla frenesia produttiva, dalle questioni meramente politiche ed economiche; anche, banalmente, dalla bulimia del fare quotidiano che riguarda un po’ tutti.

Quattro artisti e il racconto dei loro progetti in corso. Un testimone interessato (curatore o direttore di teatri e festival) che modera l’incontro. Un narratore che redige il diario (chi scrive, nello specifico). Attorno a un tavolo che, in questo ultimo incontro dell’anno era nella sede della Bellini Factory del Teatro Bellini di Napoli, ciascun artista ha aperto le porte del proprio mondo poetico e ha varcato quelle degli altri. In uno scambio pluridimensionale i racconti di ciascuno hanno fatto emergere questioni specifiche ma anche temi comuni, urgenze, dubbi: tutto messo in campo con onestà e con schiettezza.
Per la due giorni (22 e 23 novembre 2021) che mi ha visto ingaggiata nel ruolo di narratrice, gli artisti invitati sono stati: Nello Calabrò, “drammaturgo” (e avremo modo di spiegare il virgolettato) della Compagnia Zappalà Danza; Marco Lorenzi, fondatore, regista e drammaturgo de Il Mulino di Amleto, Giuseppe Stellato, scenografo della compagnia stabilemobile di Latella; Pier Lorenzo Pisano drammaturgo, regista e scrittore. A moderare il tavolo Settimio Pisano, curatore e direttore del festival Primavera dei Teatri di Castrovillari. Ed erano presenti anche, in rappresentanza del Tavolo delle idee, Simone Pacini e Dario Rea (Putéca Celidònia) nonché Ester Tatangelo e Antonella Iallorenzi, coordinatrici del Tavolo delle idee assieme a Elena Lamberti.
“Lo Stato dell’Arte è un incontro che ci teniamo a difendere nella sua parte poetica. La forza di C.Re.S.Co. è di essere un processo politico-poetico e il Tavolo delle idee difende proprio il secondo aspetto. È difficile non lasciarsi prendere dalle questioni politiche, economiche e istituzionali, ma ciò che si chiede agli artisti è proprio di focalizzarsi solo sulle loro poetiche, di non uscire da quel binario”. 
Questa la precisa e categorica regola del gioco con la quale le coordinatrici danno inizio all’incontro.


Il primo a prendere la parola è Nello Calabrò che oramai da vent’anni collabora con Roberto Zappalà alla drammaturgia delle sue composizioni coreografiche. Un ruolo che, ci tiene a precisare, non è quello di semplice drammaturgo, né genericamente di drammaturgo di danza, bensì, specificamente di drammaturgo della Compagnia di danza Zappalà.
E infatti parte essenziale del suo intervento, propedeutica alla descrizione del lavoro in corso, è stata l’apertura ai processi creativi che nel tempo ha messo a punto assieme al coreografo e che, pur non costituendo un vero e proprio metodo, rappresentano modalità specifiche della loro collaborazione. Il lavoro segue, infatti, delle fasi costanti che Calabrò definisce ricerca, archivio, relazioni. Nella prima viene delimitato un campo di ricerca all’interno del quale raccogliere idee e sollecitazioni che, il più delle volte, provengono da immagini. Calabrò ha infatti una formazione cinematografica (sterminata, ci teniamo a precisare) e ha trovato con Zappalà, pure appassionato di cinema, un linguaggio comune con il quale dialogare. Ma in questa fase di ricerca a orientare è spesso ciò che viene scartato: “Più scartiamo, più capiamo che ci stiamo focalizzando su qualcosa di preciso” – spiega – “e alla fine ciò che mettiamo da parte ha la stessa importanza di quello che rimane”. Si passa, poi, all’archivio: una raccolta di materiali figurativi e citazioni letterarie (e anche in questo Calabrò ha una preparazione immensa) apparentemente prive di coerenza e interconnessione. Tutto ciò che può sembrare interessante per il lavoro, insomma, viene “archiviato”. Infine, c’è la relazione, la razionalizzazione dell’archivio che si consegna il primo giorno di prove ai danzatori, i quali, da quel momento, diventano coprotagonisti del processo creativo.
Questi elementi sono emersi con chiarezza durante il racconto del lavoro in corso che ha il modestissimo titolo di Kristo. “Appena l’ho sentito ho detto: Oh Cristo!” scherza Calabrò, svelando però subito l’estrema difficoltà di affrontare la figura di Cristo. Nella fase di ricerca è stato fondamentale l’apporto concettuale di un corto del regista scozzese di animazione Norman McLaren Neighbours (1952). Proprio rispetto a questo è stato possibile cogliere l’importanza degli scarti. Il video, infatti, era stato inizialmente scelto per fare da cornice allo spettacolo, idea poi messa da parte. Tuttavia, proprio grazie alle sue sollecitazioni, è stato possibile comprendere l’obiettivo del lavoro: non trattare la figura storica di Cristo ma inserirla nella contemporaneità, dare un’idea del mondo contemporaneo all’interno del quale questa figura agisce. Continuando con gli spunti di ambito cinematografico, Atto di primavera (1963) diretto da Manoel de Oliveira e Pilato e gli altri (1972) diretto da Andrzej Wajda hanno ulteriormente definito i connotati di Kristo: nel primo, il tema della rappresentazione sacra ha delineato l’idea di lavorare non su una persona reale bensì su quello che potrebbe essere il personaggio di uno spettacolo; dall’altro la scena di un San Matteo che non sa cosa scrivere rispetto a Gesù, ha fatto emergere il fondamentale concetto dell’indecidibilità della figura di Cristo. “Abbiamo dato al nostro personaggio il nome di Kristo, con la K” – racconta Calabrò – “perché in alcuni Paesi è un nome comune. Non volevamo essere totalmente cristologici perché, chiedendoci quale sia il nostro Cristo, alla fine ci siamo risposti che non lo sappiamo”. E proprio questo è emerso come dato fondamentale del progetto: le molteplici possibilità incarnate dal personaggio – un pazzo che si crede Cristo, un attore che fa Cristo, Cristo che è impazzito – che nella performance saranno di volta in volta preponderanti.
Tale molteplicità risulta fondamentale rispetto al testo in quanto un’altra convinzione è di non voler usare le parole del Vangelo. La drammaturgia sarà un collage di molteplici citazioni in una corrispondenza tra la molteplicità del personaggio e quella degli autori che gli offrono le parole. “Le persone all’interno di una persona sono tante persone”, questa citazione dello scrittore e filosofo maliano Hampâté Bâ è stata fondamentale, ci racconta Calabrò, proprio per indirizzarlo verso questa visione iniziando a creare un archivio di citazioni provenienti dagli ambiti più disparati – cinema, poesia, letteratura, filosofia, scienza – al quale poi sarà necessario dare una forma di discorso unitario, consequenziale ma anche credibilmente pronunciato dal personaggio. Una forma, viene precisato, di drammaturgia per la danza per cui la maggior parte delle cose il performer la dirà danzando, in una azione continua che si dovrà accompagnare alla parola. È stata allora scelta una figura ibrida, un attore/danzatore – Massimo Trombetta – che non ha la completa preparazione di un danzatore ma che, provenendo dalle arti marziali, possiede comunque una buona qualità di movimento. Questo perché l’interesse, in Kristo, non è ne verso la danza né verso la parola ma nel rapporto che si crea tra le due.
Affrontare la questione della parola ha messo in luce altri aspetti specifici del lavoro della Compagnia Zappalà. Come detto, la creazione scaturisce da suggestioni per lo più visive, immagini che Roberto Zappalà vede (e alle quali pare rimanga molto affezionato) e alle quali Calabrò cerca poi di “adeguarsi”, giustificandole drammaturgicamente in un confronto periodico tra i due che permetta di far convergere tutto coerentemente sulla scena e che procede “dal gratuito al razionale e dal razionale al gratuito”. Un lavorio teso a dar vita a una parola che faccia parte della danza e che dalla danza risulti necessariamente modificata, il cui senso diventa specifico in quell’unione.
Su stimolo di Settimio Pisano e di Ester Tatangelo si sono aperte poi delle parentesi sull’utilizzo del suono e degli oggetti di scena.
In Kristo ci sarà un tappeto sonoro live al quale si aggiungerà l’oratorio di Haydn Le sette ultime parole di Cristo in croce. “Roberto tende spesso a imbastardire la musica, a non rispettarla mai totalmente, per questo interventi live elettronici disturberanno il classico”, ci spiega Calabrò che ricorda anche l’esperienza del lavoro sulla Nona di Beethoven per mettere in luce questo particolare rapporto che il coreografo ha con la musica, specialmente classica. Rispetto agli oggetti di scena, quelli di Kristo andranno a definire un ambiente quotidiano, familiare che trasfiguri alcuni dei momenti iconici della storia di Gesù: l’ultima cena, gli apostoli, il calvario. Con tali oggetti il performer dovrà instaurare una relazione assolutamente fattiva, giocando sul loro essere e, al contempo, non essere ciò che sono in un rispecchiamento della pluralità della figura in scena. Lungo tutto il racconto c’è stato un dato a più riprese rimarcato da Calabrò, ossia la totale fiducia reciproca instauratasi tra lui e Roberto Zappalà: “Dal nostro lavoro emerge che le idee nascono insieme, i movimenti nascono da un apparato concettuale ma anche viceversa. È un tipo di creazione maieutica, ognuno fa nascere qualcosa dall’altro. Dopo vent’anni di collaborazione, al di là della nascita di un’amicizia, c’è una comunicazione quasi telepatica, ci si comprende subito. I nostri sono mondi che si confrontano. Una cosa che si è sviluppata nel corso degli anni. In Roberto e nella moglie Maria ho trovato due tra le persone più umanamente corrette e professionali che abbia mai conosciuto”.
Una chiusa che ha dato una spontanea e sentita sfumatura umana alla descrizione del cammino professionale e creativo del duo del quale è emersa come caratteristica identitaria una forte immediatezza dell’ispirazione e una specificità del processo creativo garantita tanto proprio dalla profonda conoscenza delle reciproche indoli artistiche.


A seguire Marco Lorenzi che, in deroga alla regola di presentare un lavoro in corso, ci ha parlato di un progetto concluso, anzi, bruscamente interrotto: Cantiere Ibsen. Una decisione appropriata poiché la poetica che stava dietro il Cantiere è risultata assai affine ai fondamenti ideologici che sono alla base di Lo Stato dell’Arte. “Più che una creazione, il Cantiere Ibsen è stata una reazione che ha partorito un claim: Art Needs Time. È stato uno strumento per interrogarsi sulle dinamiche della creatività. Ed è stata una reazione specifica, mirata a una situazione personale che stavo vivendo”. Lorenzi ha raccontato di come nel 2019 la commissione di un lavoro per un grande teatro, con tutte le deadline e le restrizioni temporali che ciò comporta, gli avesse fatto nascere un senso di profonda insofferenza, di frustrazione e di insoddisfazione portandolo a interrogarsi sul ruolo che un artista, oggi, ha nel mondo che lo circonda. “Con il Mulino abbiamo deciso di provare a fare qualcosa di pratico. Poiché” – ci dice – “sulla bilancia ci sono la produttività e la creatività e al momento il piatto della produttività è più pesante, abbiamo deciso di mettere in atto una provocazione forte per ribaltare la situazione: un’iniziativa slegata da qualsiasi esito performativo. Nessuno spettacolo, nessuna produzione: era solo un cantiere di ricerca per indagare come si possa stimolare la creatività”. Al centro della discussione il tempo della ricerca per interrogarsi su come funziona la creatività, per individuare nuove modalità di messa in scena, svincolati dai pattern e dagli schemi che si riproducono quando si è costretti a ritmi serrati.         
“Un atto politico” lo definisce Lorenzi in un’accezione certamente etimologica, ossia come rivolto a una pòlis, a una comunità. E infatti, proprio per essere effettivamente politico, il progetto si è aperto ad altri artisti tramite una call, indirizzata sia all’Italia che all’Europa, che intercettasse il medesimo sentimento di frustrazione e la stessa voglia di “rivoluzione”. Delle centosettantacinque candidature, sono stati scelti cinquanta artisti che si sono poi distribuiti in cinque finestre di circa una settimana l’una, ospitate da vari spazi di Torino. Una proposta – va sottolineato – gratuita per i partecipanti, nel contesto di un progetto privo di qualsiasi finanziamento. Perché Ibsen? La risposta di Lorenzi aggiunge un altro e prezioso dato riguardo al progetto ma anche sull’attitudine della Compagnia: “Abbiamo scelto Ibsen perché era totalmente fuori dagli orizzonti della Compagnia. Io stesso lo conoscevo molto poco, lo consideravo polveroso, superato, non volevo approcciarmi agli altri sapendo già qualcosa in più, ma rispettando il patto di intraprendere un viaggio di conoscenza insieme. E inoltre per l’attore contemporaneo è interessante confrontarsi con una drammaturgia di quel tipo, per riconsegnare un mondo che non è quotidiano”.
Ogni finestra era dunque dedicata a un’opera di Ibsen, il cui approfondimento si arricchiva tramite focus con ospiti e tramite la presenza di testimoni e di spettatori al fine di scongiurare il rischio di una forma di autonarrazzione, priva di apertura all’esterno. Al centro di tutto questo la convinta visione di un teatro come prodotto di una comunità, come arte della comunità per eccellenza. Un assunto dal quale deriva tutta la poetica del Mulino: “Il nostro lavoro non nasce mai da un impulso solo estetico ma dalla problematizzazione del reale. Siamo sicuri di vivere nel migliore dei mondi possibili? Come avremmo potuto essere diversi? Le nostre scelte estetiche cercano sempre di farsi espressione di queste domande da condividere poi con l’Altro, con il pubblico. È un tipo di teatro che può scegliere come materiale Festen, Čechov, Goldoni... qualsiasi cosa aiuti a determinarci in questa domanda. Penso che a chi fa arte debba essere richiesto un punto di vista sul mondo che ci circonda. E il teatro, dico spesso, è un gruppo di esseri umani che si ritrova di fronte ad altri esserti umani per chiedersi insieme cosa vuole dire essere umani”. Tutti gli aspetti del lavoro in sala – del quale abbiamo avuto un assaggio con la visone dei trailer della terza e della quarta sessione – erano dunque finalizzati alla costruzione di questa collettività e all’affondo dentro il reale: il training fisico per rendere il corpo sensibile all’esistenza e alla vicinanza dell’altro; i momenti ludici per costruire un ambiente in cui al centro ci fosse il piacere; lo studio del testo approfondito grazie al confronto e agli stimoli reciproci; le improvvisazioni di gruppo.
Significativo è stato il racconto della conclusione del Cantiere e centrali le riflessioni che ne sono scaturite. La pandemia ha bloccato il progetto, in modo brusco e traumatico – racconta Lorenzi. Ma proprio questo ha reso più insistente un interrogativo che la Compagnia si stava già ponendo: “Ci siamo resi conto che può essere davvero potente generare un’inversione di tendenza per la quale gli attori si prendono cura del loro essere umani e artisti prima di essere esecutori e produttori, ma poi? Cosa resterà di questa esperienza senza una messa in scena? Come può essere raccontata agli altri e in che tipo di dialettica può porsi rispetto al contesto socio-economico in cui il teatro e l’arte si trovano immersi?”.


Da questi stimoli Settimio Pisano ha aperto il dibattito chiedendo a Lorenzi quali risultati pensa siano stati raggiunti rispetto alla provocazione politica del progetto, al desiderio di riequilibrare la bilancia della creatività e della produttività.
“Di certo gli obiettivi a priori” – confessa Lorenzi – “erano molto naïf e il progetto ha avuto davvero poca capacità di modificazione rispetto a ciò che ci circonda. Da questo punto di vista forse è stato un fallimento anche considerando che, dopo ciò che abbiamo attraversato, tutto è rimasto invariato. Ma, da un punto di vista più verticale, dentro di noi è rimasta la consapevolezza che un’alternativa c’è, complicatissima da affermare, ma c’è. E non vogliamo arrenderci di fronte all’evidenza che tutto è stato molto bello ma possiamo praticarlo solo tra noi artisti in sala prove e non si trasforma mai in un modello per tutti. E allora” – continua – “mi chiedo e vi chiedo: avrebbe ancora senso fare una cosa del genere? Dopo che neanche la pandemia ci ha mutato, ha senso portare avanti questo tipo di progetti o dobbiamo rassegnarci al fatto che resti solo una rivoluzione incompiuta che non avrà mai un’incidenza vera e propria?”.
La spassionata “confessione” di Lorenzi ha generato a catena varie altre riflessioni. Antonella Iallorenzi ha evidenziato come le modalità del Cantiere possano essere accostate a quelle delle residenze artistiche che si configurano, spesso, come percorsi di pura ricerca svincolati da qualsiasi progettualità. Esperienze, ha sottolineato Settimio Pisano, nate proprio dalla discussione sulla necessità di dare un tempo all’arte, tutelandola dalla foga della produttività. Ma proprio rispetto alla necessità di creare e tutelare un tempo per la ricerca, Ester Tatangelo ha messo sul tavolo uno spunto interessante e, per certi versi, in “controtendenza” facendo notare come lo spazio che gli artisti riescono a ritagliarsi per la ricerca e il confronto sia il frutto di una strategia carbonara e quindi fuori dal sistema. Uno spazio che andrebbe assolutamente sostenuto economicamente preservandone allo stesso tempo, però, proprio la natura sotterranea dalla “messa a sistema” per scongiurare che una pratica preziosa entri a far parte di una sorta di “merchandising del cibo a chilometro zero in cui tutto viene commercializzato”. D’altro canto, ritornando all’apertura del processo creativo allo spettatore, Simone Pacini ha posto un altro interrogativo pregnante: esiste uno spettatore che gode nel vedere la costruzione di uno spettacolo? E quale rapporto può avere con la fase della creazione?
La risposta di Lorenzi ha, ancora una volta, aperto una finestra sulla poetica del Mulino: “Se le prove in sala sono sensibili alla presenza di un elemento che determina un cambiamento, allora si crea una piccola incrinatura, si apre un varco che può essere prezioso. Di certo lo spettatore rimane tale e il suo livello di ingerenza non deve andare oltre, però secondo me la sua presenza cambia l’equilibrio dello spazio. L’esposizione della fragilità delle prove richiede coraggio” – continua – “ma l’incontro con lo spettatore è fondamentale anche alla costruzione di una grammatica comune, di un dizionario condiviso. Solo in questo modo si può aspirare a un teatro complesso, nel quale i sensi e i simboli si stratificano”. Una mission, quella di un teatro capace di complessità e problematizzazione del reale, che certamente è identitaria del Mulino di Amleto e che, nelle pur diverse varianti della messa in scena, ne definisce lo stato dell’arte.


Uno di pregi degli incontri promossi dal tavolo di Lo Stato dell’Arte è quello di promuovere un confronto che si fa ancor più stimolante quando i punti di vista provengono da differenti campi della creatività. Così, dopo la prospettiva da dramaturg di Calabrò e quella “di compagnia” di Lorenzi, abbiamo avuto l’occasione di affacciarci alla dimensione creativa di Giuseppe Stellato, scenografo di stabilemobile ma che, da qualche anno, porta avanti un progetto personale di stampo più performativo, incentrato sul rapporto uomo-macchina. Un itinerario che ha proceduto lungo tre tappe interconnesse ma ciascuna focalizzata su uno specifico oggetto posto in relazione con un performer: una lavatrice in Oblò, un distributore automatico in Mind the Gap, un bancomat in ATM. “Nella trilogia” – racconta Stellato – “lavorare sul rapporto uomo-macchina è stato un po’ un pretesto per porre delle domande su quello che ci accade intorno, sulla nostra percezione della società e del mondo. Ma è stata anche un’occasione per scoprire un linguaggio che mi interessa approfondire”. Un linguaggio senza testo, fatto di immagini e azioni semplici, nel quale il performer in scena, che non è un vero attore (Domenico Riso, anche collaboratore negli allestimenti), si relaziona alla macchina ma, allo stesso tempo, diventa il primo spettatore della installazione che rimane.
“Chiuso quel cerchio mi si sono aperte nuove immagini sulle quali meditavo da po’ e l’invito a questo tavolo mi è servito per riunire le idee mettendole a fuoco”. Confermando che l’incontro con altri artisti costituisce davvero un incentivo alla creatività e un ausilio per definirne i contorni, Stellato spiega che il progetto in corso costituirà uno step successivo rispetto alla trilogia poiché al centro dell’attenzione ci sarà un oggetto che è allo stesso tempo un luogo: il baggage claim dell’aeroporto. L’ispirazione è arrivata dal un libro dello scrittore pakistano Mohsin Hamid, Exit Western, o meglio: da una sua specifica immagine, quella di luoghi/porte capaci di trasportare in un’altra parte del mondo per scappare da una guerra in atto. Un pungolo all’immaginazione che si è spostata verso l’idea del nastro trasportatore (Bozzetti) con le diverse sfaccettature che ne possono essere esplorate: le due bocche di cui una sputa fuori oggetti e l’altra li risucchia; il senso di loop; il rimando a tante altre immagini come la cassa del supermercato, la catena di montaggio, il tapis roulant. Tutte declinazioni di un “viaggio” verso e da non-luoghi, ma anche elementi che Stellato sente come legati da un minimo comune denominatore che probabilmente sarà il filo conduttore della ricerca: il senso del tempo, quello che le macchine (almeno così ci hanno detto) ci fanno risparmiare ma che poi si perde, spesso inutilizzato o impiegato con altro fare. “Tutto questo mi è servito anche a interrogarmi sul mio processo creativo che spesso procede cercando ispirazione da cose totalmente diverse tra le quali poi cerco di creare una connessione”. E in questo momento del lavoro la sua “scrivania mentale” contiene tante immagini apparentemente non legate tra loro ma che in qualche modo riportano a questo oggetto-luogo del quale sta continuando ad approfondirne i possibili sensi. Un aggregato di significati che sta prendendo forma anche grazie ai particolari che differenziano questo lavoro dalla trilogia. In questa era l’oggetto a definire lo spazio: in Oblò la lavatrice raccontava l’intimità casalinga; il distributore di Mind the Gap, invece, la dimensione pubblica; ATM rappresentava una sintesi, con un oggetto tipico dei luoghi pubblici ma che contiene informazioni private. Nel progetto attuale, invece, sebbene si definisca comunque la dialettica tra un dentro e un fuori, la prospettiva, – e Stellato lo ribadisce a più riprese – è quella di un oggetto che determina uno spazio che però non è un vero luogo ma una sorta di limbo. E, inoltre, il fondamentale dualismo tra macchina e uomo subirà un’ulteriore evoluzione dettata da una “necessità”, ci dice, a indicare una urgenza dell’ispirazione che si percepisce forte nell’indole creativa di Stellato. Tale bisogno sarà quello di accogliere un’altra figura in scena che accenda un secondo obiettivo dietro la macchina, su chi la aziona, chi la progetta determinando una nuova dicotomia macchina-collettività.
Un terzo elemento rispetto al quale Stellato “sente” di dover operare una evoluzione è il rapporto con lo spettatore; una trasformazione che, già in ATM era stata avviata con il pubblico che, dopo il finale sospeso della performance, poteva scegliere di rimanere a osservare un video proiettato sul bancomat/installazione. Ed è proprio verso una modalità fruitiva di questo tipo che il percorso creativo dello scenografo si sta indirizzando, vagliando la possibilità di un pubblico che circoli liberamente nello spazio proprio come viaggiatori in attesa del proprio bagaglio.
A riprova della natura “porosa” della sua ispirazione, Stellato ha raccontato che un tassello rilevante per la definizione del lavoro lo ha fornito un’esperienza estranea al progetto, avuta in occasione del Festival di Mefite a Santa’Agapito (Isernia): la commissione di un’installazione realizzata con elementi naturali, alla quale ha risposto con un’opera di land art fatta di massi e pietre e rappresentante la spia del surriscaldamento dell’automobile. “Ho realizzato un’opera di land art ma riproducendo un simbolo che fa parte del linguaggio delle macchine, come se la Terra, non sapendo più come dirci che si sta surriscaldando, utilizzi un simbolo che forse ci è più familiare”. Come in un domino, il tassello ne ha smossi altri generando, a catena, idee e poi immagini della natura che si “riappropria” dei luoghi creati dall’uomo. “Questo mi ha fatto riflettere: è vero, noi stiamo distruggendo la Terra ma alla fine saremo noi a soccombere. È una suggestione che non so ancora come collocare, è una direzione che mi interessa ma non so dove mi porterà”.


La particolarità del funzionamento creativo di Giuseppe Stellato ha stimolato diverse riflessioni. Marco Lorenzi ha sottolineato come il nastro trasportatore sia un oggetto/luogo fortemente scenico che catalizza lo sguardo di un pubblico in attesa che accada qualcosa, l’evento drammaturgico, e ha trovato altrettanto interessante la messa in campo di una dicotomia ampliata macchina-collettività la quale darebbe la possibilità di utilizzare proprio il pubblico come risorsa scenica. Particolarmente affascinante – e divertente – è stata l’intuizione di Simone Pacini che ha fatto riflettere sul fatto che davanti al ritiro bagagli di un aeroporto è possibile rintracciare una immensa varietà di sentimenti umani: l’attesa, ovviamente, e la paura e l’ansia (oddio, mi hanno perso il bagaglio!); l’invidia (lui l’ha preso e io no); la sfiducia (e se me lo rubano?); il rimpianto (e se fosse già passato e avessi perso l’occasione?). Un luogo dell’imprevedibile che, secondo Nello Calabrò, potrebbe trovare nella suspense un colore drammaturgico interessante.

E proprio rispetto al lavoro di drammaturgia che sta dietro le performance/installazioni di Stellato – condotto assieme alla dramaturg Linda Dalisi – Settimio Pisano ha sollevato una questione che ha animato particolarmente il dibattito: la capacità dell’arte contemporanea di veicolare senso. “Non so se il pubblico ha la percezione chiara del mio lavoro concettuale ma non so se mi interessa. Il pubblico” – confessa Stellato – “a volte mi restituisce sensazioni e letture che io non avevo preso neppure in considerazione: per me questa è una cosa bellissima”. L’idea di un’arte che non imponga il proprio senso ma sia aperta alle percezioni dello spettatore è stata ampiamente condivisa ma ci si è anche chiesto se una tale posizione non rischi, a volte, di risultare respingente, costringendo lo spettatore alla tipica frustrazione del “non ho capito cosa vuol dire”. Come ha evidenziato Marco Lorenzi, di fronte all’arte, il cervello cerca delle connessioni, per cui ogni segno lasciato in scena è necessario a significare. In quest'opera di collocazione dei segni scenici la pratica di Giuseppe Stellato è risultata minuziosa, quasi chirurgica. Una precisione che, però, assieme al procedere pluridirezionale della sua ispirazione, definisce una dimensione creativa stratificata che conserva la formazione nell’ambito dell’arte contemporanea, poi coniugata alla pratica teatrale e scenica. Una posizione, perciò, ibrida e in quanto tale portatrice di una stimolante complessità.


Infine è stato il turno di Pier Lorenzo Pisano, affermatosi negli ultimi anni come uno dei nuovi e più interessanti drammaturghi italiani, con all’attivo residenze presso il New York Theatre Workshop e il Royal Court Theatre di Londra, la partecipazione a svariati progetti di promozione della drammaturgia nazionale e lavori pluripremiati e pluritradotti. Al tavolo, con una certa riservatezza, ci ha presentato il suo visionario progetto di riscrittura di un classico, il Giulio Cesare di Shakespeare; un lavoro che “tiene da parte, lavorandoci di tanto in tanto mentre fa altro”. Si tratta, in realtà, più di un rimaneggiamento concettuale dato che non è presente nella drammaturgia – già scritta – una sola riga del testo originale. Pisano, infatti, ha dato all’intera vicenda una personale lettura, intercettando tutta una serie di segni testuali e scenici che rimandano a quello che ha definito “un rituale di divinizzazione fallito”. Giulio Cesare vuole farsi dio, spiega, ma soprattutto nella prima parte del testo i suoi oppositori mettono in evidenza la sua natura umana, anche prosaicamente umana. Così, scegliendo di seguire questo filo tematico, Pisano ha costruito un percorso drammaturgico nel quale risuonano questioni centrali del contemporaneo ma anche dell’essere umano universalmente inteso. La prima parte è incentrata proprio sull’aspirazione fallimentare di un uomo che vuole essere un dio o, meglio, su un tema che da tale spinta emerge e che Pisano sente profondamente legato alla contemporaneità seppur da sempre appartenente all’uomo: la morte e il suo superamento. “Mi ha sempre affascinato che la prima storia giuntaci sia l’epopea di Gilgamesh, che racconta proprio un tentativo di sconfiggere la morte, una lotta contro la mancanza di significato della morte. Secondo me ha molto senso che sia proprio questa la prima storia dell’umanità, perché la narrazione è proprio un incasellare gli eventi in inizio, svolgimento e fine per dar loro un senso. Raccontare storie è una cosa che aiuta a sopravvivere”.
Su queste riflessioni si è innestata la constatazione dei vari tentativi che un certo tipo di (fanta)scienza sta facendo per trovare una “soluzione” alla morte e degli studi secondo i quali la morte verrà sconfitta entro il secolo. La Scala di Kardašëv, in particolare, classifica le civiltà in base alla quantità di energia che riescono a sfruttare del pianeta in cui vivono. Attualmente la nostra è al grado 0 ma in procinto di passare al grado 1, a partire dal quale le civiltà diventano immortali. Questo passaggio dà la misura della natura rizomatosa e “associativa” della creatività di Pisano il quale, sintetizzando tutte queste suggestioni – quelle provenienti dal testo e quelle innescatesi facendo agire la lettura nel contemporaneo – è giunto a un’immagine di Cesare come rappresentante della nostra civiltà, che sta per raggiungere l’immortalità ma che si autodistrugge a causa della sua incapacità di gestire tale potere (con il Covid, il surriscaldamento globale e via dicendo).
Sul piano scenico questa prima sezione, priva di parole, punterà sull’immagine e sul movimento. Ciascun performer avrà un proprio tipo di movimento, determinato, e per certi versi ostacolato, da costumi ispirati a divinità africane, primordiali e molti o ingombranti, una serie di movimenti che si comporranno in una sorta di coreografia sfociante in un fallimento. Nello specifico si tratterà di una mummificazione al contrario, durante la quale gli oggetti appartenenti alla vita del defunto, che nell’antica pratica venivano alternati alle bende, appariranno progressivamente, raccontando di Cesare ma anche del performer in scena. In un’ipotesi di finale tragicomica – e un tantino sadica – dietro al personaggio, rimasto nudo, apparirebbe una scritta: Cesare ascolta All You Need Is Love dei Beatles e ogni volta che c’è la parola love riflette sulla sua mortalità. “Sarebbe una cosa straziante” – racconta Pisano non poco divertito – “perché a ogni love il performer dovrà fermarsi e semplicemente pensare alla sua mortalità. Una riflessione in scena sul fatto che muori”. La seconda parte del lavoro, invece, è un testo del tutto originale che ha al centro Ottaviano, personaggio che, con una battuta in onore di Cesare, chiude il dramma shakespeariano. Una figura che, nell’ottica di Pisano, è invece riuscita a compiere l’impresa fallita da Cesare, diventando il primo imperatore della storia e, quindi, una sorta di divinità. E poiché il concetto di dio è qualcosa di fisso, Pisano ha voluto creare un’antitesi al movimento, un monologo scritto rivedendo le stesse fonti storiche di Shakespeare, che procede per associazioni libere partendo da Ottaviano fino ad arrivare ad Amazon. Un immenso arco temporale nel quale inserire l’ipotetico discorso di un essere umano che è riuscito a raggiungere l’immortalità.


Ipotetico perché proprio qui è emersa una criticità fondamentale. “Io ho scoperto qualcosa scrivendo questo monologo” confida Pisano: “Che non sono capace di scrivere le parole di una persona che non muore. Se non muori tutto dovrebbe smettere di funzionare; la stessa cultura, se è stata prodotta proprio per combattere la morte, dovrebbe smettere di funzionare. Quindi ci sarebbero anche forme di arte diverse che però io non riesco a immaginare davvero, perché è impossibile mettersi in quella condizione”.
Da questo incaglio dell’immaginazione l’incognita sulla figura che potrebbe interpretare un essere immortale rispetto alla quale tutti hanno avanzato ipotesi: un bambino, un’intelligenza artificiale, un personaggio alla Watchmen, un essere in continua metamorfosi... Una questione creativa ancora aperta e che, forse proprio per questo, ha dato il via a un dibattito piuttosto vivace, a tratti filosofico, intorno alla difficoltà per il teatro di essere “fantascientifico”, rappresentando l’immortalità. “Il teatro” – sostiene Pier Lorenzo Pisano – “ha un limite oggettivo che è quello di avere a che fare con esseri in carne e ossa, ed è difficile estraniarsi da questo. Ma penso anche che nessun genere possa raccontare davvero, con onestà, l’immortalità”. Ed è proprio questa frustrazione, secondo Lorenzi, il fulcro nel lavoro di Pisano: “La fantascienza di un certo livello offre all’essere umano l’opportunità di riflettere sui limiti dell’essere umano e qualcuno dice che sia l’ultimo grande genere in cui è possibile fare umanesimo e parlare di politica a grandi livelli. È uno strumento che serve per riflettere sulla nostra finitezza, quindi credo che la tua frustrazione sia proprio il cuore della cosa”. Ma un dato, evidenziato da Calabrò, è rimasto costante: lavorare sull’immortalità non può che farti affrontare la mortalità. E infatti Pisano ha poi specificato che il punto centrale del monologo non è tanto l’essere immortale quanto il fatto che, pur essendolo, il pensiero della morte e del dolore ritorna continuamente. L’idea della mortalità, benché dolorosa, non viene mai esclusa dalla nostra mente: “Il tallone ad Achille l’abbiamo dato comunque” ha detto Lorenzi benché “probabilmente” – ancora Calabrò – “è proprio il fatto di non accettare la nostra mortalità il problema”: l’ostinarsi a trovarle un rimedio come l’assurda criogenizzazione della testa del libro citato da Stellato, Essere una macchina del giornalista irlandese Mark O’Connell.


Il pensare libero di Pier Lorenzo Pisano, che ha espresso con schiettezza, dubbi e perplessità rispetto al proprio lavoro; la particolare natura ibrida dell’operare di Stellato tra teatro, performance e installazione contemporanea; la passione provocatoria del progetto di Lorenzi e del Mulino di Amleto; la enciclopedica e affascinante preparazione di Calabrò: le specificità di ciascun artista e di quattro progetti estremamente differenti tra loro hanno, a ogni sezione, alimentato un dialogo sempre dinamico, fertile, durante il quale ha predominato una generosità incondizionata, tanto nello “spogliarsi” mostrando non solo la propria dimensione creativa ma anche le fragilità, le crepe e i dubbi, quanto nell’offrire all’altro parte della propria esperienza per supportarne e incentivarne il lavoro.
Nel tirare le fila di questo incontro, allora, è ritornato con forza il tema del tempo, l'urgente necessità di avere il tempo per ricerca e lo studio ma anche quello per il confronto con gli altri artisti – e “tra artisti e programmatori”, ha sottolineato Settimio Pisano – grazie al quale “entra a far parte del tuo mondo qualcosa che era totalmente distante” (Calabrò), “scopri che negli altri ci sono le stesse perplessità, le stesse paure” (Stellato) e nel quale si può operare quella “bastardizzazione del linguaggio che è fondamentale per un’arte che voglia essere più complessa” (Lorenzi). Un'urgenza confermata anche durante il confronto aperto ad altri artisti e ai sostenitori campani di C.Re.S.Co., confronto che ha concluso la due giorni. E allora c’è da sperare che − a dispetto del sistema, delle politiche poco attente, a dispetto di ciò che di tragico sta sperimentando la nostra epoca − si moltiplichino occasioni come quella offerta da Lo Stato dell’Arte, perché il teatro possa trovare il suo tempo per farsi arma di resistenza, via per una più complessa e consapevole osservazione del reale, spazio in cui sperimentare l’apertura e il confronto. E, sempre, come da sempre, luogo dell’umano e della bellezza.






leggi anche:
Alessandro Toppi, Lo stato dell’arte. A Matera, undici ore a parlarsi (Il Pickwick, 12 settembre 2019)
Alessandro Toppi, Lo stato dell’arte. Scilla e Cariddi a Milano (Il Pickwick, 19 ottobre 2019)
Alessandro Toppi, Lo stato dell’arte. A Palermo. Disappartenenza e radici (Il Pickwick, 18 giugno 2020)
Alessandro Toppi, Lo stato dell’arte. A Rovigo, gli ultimi ritratti (Il Pickwick, 3 luglio 2020)
Simone Pacini, Lo stato dell’arte: con C.Re.S.Co. tra i boschi di Campsirago (Liminateatri, 1° agosto 2020)
Michele Di Donato, Lo Stato dell’Arte: la tappa di Castrovillari (Il Pickwick, 19 gennaio 2021)
Lucia Medri, La natura delle idee. Il teatro oltre la scena (Teatro e Critica, 4 ottobre 2021)
Renzo Francabandera, Riusciranno i nostri eroi? Lo Stato dell’Arte di CReSCo fa tappa a Spazio Matta (Pane e Acqua Culture, 30 ottobre 2021)





Lo Stato dell'Arte
a cura di C.Re.S.Co./Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea, Teatro Bellini
con Nello Calabrò (Compagnia Zappalà Danza), Marco Lorenzi (Il Mulino di Amleto), Pier Lorenzo Pisano, Michele Stellato (stabilemobile compagnia Antonio Latella)
testimone interessato Settimio Pisano (Primavera dei Teatri)
Napoli, Teatro Bellini, 22 e 23 novembre 2021

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook