“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 23 November 2021 00:00

Nani sulle spalle dei giganti. Rileggendo Čechov e Ibsen

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Teatro Bellini. Sala piccola. Una scena vuota attende l’inizio di La tragedia è finita, Platonov di Liv Ferracchiati. Solo un vogatore in legno all’angolo sinistro del proscenio, fuori dal quadrato dell’azione, sul quale se ne sta lui, ugualmente in attesa, a vogare. Entra Platonov (Riccardo Goretti) sulla sua voce fuori campo, evidentemente ubriaco, barcollando: “Ho ventisette anni e a trenta sarò identico, non prevedo cambiamenti”.

È il primo quadro. Una a una giungono quattro donne, le “sue” quattro donne: Grekova, giovane proprietaria terriera (Francesca Fatichenti), Sof’ja, sua vecchia fiamma (Petra Valentini), Anna Petrovna “la generalessa” (Matilde Vigna), Saša sua moglie (Alice Spisa). Restano come isolate l’una dall’altra, a volte si soffermano a guardarsi come vedendo un fantasma, ma è solo con Platonov che interagiscono. Ciascuna nel proprio modo, ciascuna come imprigionata nella bolla del proprio ruolo, nel proprio profilo: l’adolescente invaghita e un po’ piagnucolosa, l’amante aggressiva e appassionata, la vamp erotica e seduttrice, la moglie puritana tradita, offesa, distrutta. Ma sono tutte lì per lo stesso motivo, per amore e per rabbia verso quell’amletico Dongiovanni o dongiovannesco Amleto: un ossimoro vivente, apatia e passione irrefrenabile, nichilismo e slanci volitivi, apollineo e dionisiaco. “Un uomo perduto, senza rimedio” che nella rivoltella calata dalla graticcia e impugnata da Sof’ja troverà la sua fine. Colpo di pistola. Calano le luci sul quadrato della scena...

“Adesso basta però, parliamo di me” s’intromette Ferracchiati, qui il Lettore.
 È da questo punto che si dipana la trama della lettura che il drammaturgo e regista ha fatto dell’opera giovanile di Čechov.
Letteralmente una lettura: il nastro della vicenda si riavvolge per sciogliersi dal suo principio esattamente come se le pagine scritte scorressero sotto gli occhi e nella mente del Lettore, ossia accogliendo in sé le suggestioni che egli ne riceve, sovrapponendosi a esse, in un rizomatoso andirivieni di richiami, echi, refrain. I personaggi allora – bravi, centrati, credibilmente appassionati i cinque interpreti –, sono animati non solo dal loro vissuto, ma si accendono anche di quel particolare cortocircuito, intellettivo, immaginifico, emotivo, che si innesca quando ciò che si legge entra in qualche modo a far parte della vita reale; anzi, meglio, quando ci si rende conto che parla proprio della vita che stiamo (o non stiamo) vivendo, di quella che avremmo voluto vivere, di ciò che non abbiamo il coraggio di fare e degli errori nei quali, irriducibilmente, continuiamo a cadere.
“Perché non viviamo come avremmo potuto?”.
Il nucleo del testo cechoviano – un’opera immensa e irrapresentabile che l’autore scrisse da giovanissimo, ma che contiene in nuce tutta la drammaturgia della maturità –, quella amara constatazione di vivere un’esistenza solo in potenza, sollecita gli inserti drammaturgici, personalissimi, di Ferracchiati: racconti e considerazioni puntellati di una godibile ironia ma anche di una cultura fine e sofisticata, che vanno a intrecciarsi alla drammaturgia originale la quale non è mai tradita ma, anzi, costantemente richiamata da frasi, parole: il lungo inverno, il caldo soffocante, “sono in fondo ad un pantano”, “dammi una vita nuova”...
Tutto ciò – assieme all’elegante e intelligente disegno luci di Emiliano Austeri 
e all’atmosfera sonora realizzata da Giacomo Agnifili – riempie uno spazio scenico che si decodifica sempre più chiaramente come quello che sta tra chi legge e la pagina, e che progressivamente si rimpicciolisce. Prima relegato fuori dal quadrato dell’azione a commentare o osservare la scena, il Lettore le si avvicina, passo dopo passo – “se fai un passo tutto potrebbe accadere” – entra a farne parte; i personaggi, prima solo osservati, istaurano con lui un rapporto più intimo, familiare, le sue parole diventano le loro e viceversa; le persone della sua vita si sovrappongono a quelle figure che, vive e concrete, sono balzate fuori dalla pagina. Pagina che diventa consistenza stessa delle quattro donne che, in abiti di carta (bellissimi i costumi di Francesca Pieroni), circondano ora un Lettore la cui identità arriva a confondersi con quella di Platonov. A lui, allora – in una versione originale e poetica della lezione pirandelliana – chiedono una “vita nuova”, quella che l’immaginazione può creare: “Dammi una vita nuova. Immaginami ancora. Fammi vivere un’altra vita”. Ma all’energia distruttiva e autodistruttiva di Platonov il Lettore si ribella – “Inizialmente volevo rileggere meglio, ma poi... io credo di essere qui per dirvi addio” – e, come per una catarsi attivata dalla lettura, sarà la sua mano quella che lo ucciderà, assieme ai dubbi, al nichilismo, all’inerzia.
Una maniera originale e intelligente quella che Liv Ferracchiati ha scelto per incontrare Čechov. Un incontro consapevole e studiato ma, allo stesso tempo, intimo e personalissimo, che racconta di una paura che è proprio sua ma che tanti riconoscono come familiare:

“All’origine di tutto c’è

la mia paura di non vivere abbastanza,
di sprecarla questa vita,
c’è il mio orrore per la noia,
per la forma vuota,
per il vivere vite che non vorremmo,
la sensazione che stare su un orlo sia l’unico modo”.


Teatro Mercadante. Una ricca e splendida scena accoglie Casa di bambola nella regia di Filippo Dini, che ha debuttato al Teatro Carignano di Torino lo scorso 4 ottobre. Un salotto borghese arredato di tutto punto, illuminato da due finestroni laterali dai quali filtrerà una luce fedele allo scorrere delle ore della giornata. Alle spalle del salotto, sulla destra, un ingresso, sulla sinistra, lo studio di Torvald; ai lati – nelle quinte – altre stanze non visibili ma dalle quali giungeranno le voci dei personaggi. Un vero e proprio appartamento incastonato in un palcoscenico (un’opera d’arte scenica firmata da Laura Benzi). Al centro un albero che si innalza fino al lucernario aperto nel mezzo della torre scenica: l’albero dell’Eden ci suggerisce e il prologo in cui le voci fuori campo di marito e moglie recitano la creazione di Adamo ed Eva e la cacciata dal Paradiso terrestre; ma anche un sontuoso albero di Natale – davvero spettacolare quando si illumina – che denota l’ambientazione del dramma di Ibsen ma che, assieme al presepe che è sulla destra della stanza e alla voce di Lina Sastri che canta Era de maggio, aggiunge un tocco decisamente partenopeo – e anche un po’ eduardiano – alla piéce (del resto a Capri Ibsen concluse la stesura di Casa di bambola).
Indizi di un’intenzione a rileggere personalmente il testo ibseniano sono disseminati lungo tutta la rappresentazione che ne segue fedelmente lo sviluppo, portando alle estreme conseguenze la centralità della protagonista. Nora sembra essere la casa stessa, che resta nel buio quando lei è assente, che riverbera della luce dei suoi costumi, che lei abita in ogni angolo, occupandone tutto lo spazio; guarda dalle finestre il mondo esterno, i figli che giocano con la neve, ne è come imprigionata, fa per uscire ma resta inchiodata lì da ciò che accade. Così è l’evoluzione del suo personaggio a dare struttura all’avvicendarsi degli atti: dalla (apparente) spensierata frivolezza, qui declinata in una quasi maniacale frenesia, di una ragazzina vestita di rosa che si dondola sull’altalena tirata giù dall’albero; alla più matura fermezza di una moglie in tailleur verde che affronta le conseguenze delle sue scelte; fino alla stanca ma risoluta consapevolezza di una donna disillusa nella sua fede nel “meraviglioso” e finalmente decisa a rivendicare sé stessa.         
Ed è lei il perno attorno al quale ruotano i personaggi: questa bambola del focolare che possono vestire e mettere in posa come fosse un manichino, che li immobilizza danzando in una forsennata ed estatica tarantella (i due momenti, questi, più potenti dello spettacolo); che cercano di sedurre, di manipolare, di violentare persino, in una decisa esplicitazione dei riferimenti erotici e sessuali del testo.
In questo universo popolato di uomini maschilisti, egoisti o violenti – Torvald, il marito di Karsten, Krogstad, il marito della tenera e materna balia, persino – la Nora della bravissima ed eclettica Deniz Özdoğan assume tonalità moderne e fortemente drammatiche: fiera fin dall’inizio del proprio sacrificio, ne porta il peso con una sorta di eroismo che si oppone al senso comune, perfino alla legge, in una eco tragica dell’Antigone sofoclea. Una grandezza che, chi le sta intorno, accecato e volutamente confuso dal suo fascino naïf, non riesce a cogliere. Per primo Torvald (lo stesso Dini), meno duro del Torvald di Ibsen, è più precisamente cieco, distratto, incapace di comprendere la complessità della donna che ha accanto. È geloso di “tutta quella bellezza che è sua”, innamorato certo, ma della donna-bambina che può controllare, proteggere e indirizzare, non di quella ferma e ormai matura che lo abbandona per “educare” sé stessa.
La modernità del testo di Ibsen, che fece scalpore fin dalla sua prima apparizione, è accolta e maneggiata con estrema cura, con l’intento evidentemente sincero di esplicitarne la portata e la capacità di raccontare ancora oggi le dinamiche disfunzionali che spesso si istaurano tra uomo e donna.
 E tuttavia, in questa operazione che appare quasi filologica, la lettura personale di Dini si manifesta più come una serie di segni scenici – di grande impatto, certo – che come una reale “riappropriazione” del testo originale. Il motivo biblico offerto come sagace spunto all’inizio della rappresentazione è poi relegato alla presenza dell’albero a centro scena; il fascino straniante di alcune scelte registiche si limita a singole scene che, come parentesi, faticano a integrarsi strutturalmente alla trama e a toni rappresentativi carichi di enfasi drammatica; il finale cadenza su una nota di compassione nei confronti del marito abbandonato che nulla, durante il corso della rappresentazione, aveva preparato e fatto maturare.
C’è insomma tutto Ibsen in questa Casa di bambola, riportato sulla scena con l’eleganza del vero teatro di prosa. Ma delle intenzioni di offrirne una lettura personale – che evidentemente hanno mosso il progetto – si colgono solo segni isolati o, comunque, limitati al piano estetico. Viene, allora, da riflettere sulle modalità con le quali il contemporaneo si accosta ai grandi classici. In alcuni casi l’incontro può diventare una sfida che, se vinta, pur nel rispetto e nella riconoscenza verso il modello, dà vita a un’opera del tutto nuova, animata da necessità moderne, da una sensibilità che vuole e sa incontrare il presente; da stimoli intellettivi ed emotivi che spesso bastano a riempire la scena; perché forse solo in uno spazio vuoto possono farsi carne e voce e gesti negli attori.
Quando la fiamma di tale audacia resta, invece, flebile, la portentosa bellezza di una scena, la bravura degli interpreti, la fascinazione di un testo che non conosce tempo si compongono in un’esperienza senza alcun dubbio esaltante ma che non riesce fino in fondo a smuovere il pensiero, a toccare il vissuto, a diventare, in qualche modo, vera. Ed è la stessa relazione tra i partecipanti al “gioco” del teatro a provare quanto questa differenza possa essere incisiva, quanto la sinergia generata da un confronto vivo e dinamico con un testo sia capace di creare uno spazio di reale condivisione tra regista e attori, tra gli attori in scena e, soprattutto, tra la scena e la platea. Uno spazio nel quale ciò che avviene è il risultato proprio della circolazione di quel flusso energetico che è specifico del teatro e che perde di vigore quando resta invece autoreferenzialmente bloccato sulla scena.
“Siamo nani sulle spalle dei giganti” sentenziava Bernardo di Chartres per rimarcare la dipendenza che sempre i moderni subiranno rispetto ai Padri. Ma forse è proprio dall’altezza di quelle spalle che l’arte può guardare oltre o più a fondo nel suo tempo; è da quella prospettiva che, con i piedi ben saldi sull’eredità dei grandi Maestri, può sfruttare il vantaggio di una visuale più ampia e cogliere l’occasione di rifare davvero i classici, accogliendone e allo stesso tempo rifondandone il senso. Per rifondare e alimentare incessantemente il rito del teatro.





La tragedia è finita. Platonov
di 
Liv Ferracchiati
con scene da Platonov
di 
Anton Čechov
con
Francesca Fatichenti, Liv Ferracchiati, Riccardo Goretti, Alice Spisa, Petra Valentini, Matilde Vigna
aiuto regia 
Anna Zanetti
drammaturgia di scena 
Greta Cappelletti
costumi 
Francesca Pieroni
ideazione e realizzazione costumi in carta e costumista assistente 
Lucia Menegazzo
luci 
Emiliano Austeri
suono 
Giacomo Agnifili 
lettore collaboratore 
Emilia Soldati
consulenza linguistica
 Tatiana Olear 
foto di scena 
Luca Del Pia
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
durata 1h 30’
Napoli, Piccolo Bellini, 5 novembre 2021
in scena dal 2 al 7 novembre 2021

 

Casa di bambola
di
Henrik Ibsen
regia Filippo Dini
con 
Filippo Dini, Deniz Özdoğan, Orietta Notari, Andrea Di Casa, Eva Cambiale, Fulvio Pepe
scene Laura Benzi
costumi 
Sandra Cardini
luci 
Pasquale Mari
musiche 
Arturo Annecchino
aiuto regia 
Carlo Orlando
foto di scena Luigi De Palma
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Bolzano
con il sostegno di Fondazione CRT
durata 2h 40’
Napoli, Teatro Mercadante, 10 novembre 2021
in scena dal 9 al 14 novembre 2021

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