“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 25 August 2017 00:00

Teatro e consenso in Campania

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Un uomo è seduto in un carrello per la spesa, vestito in total white, con colletto alla coreana. Accovacciato all'interno – dunque egli stesso oggetto già selezionato e incarrellato da qualcun altro (l'amministrazione cittadina) – si fa spingere da una quindicina tra ragazze e ragazzi che gli fanno da coro e da serventi. È in questo modo che traversa il reparto di un supermercato (un non-luogo, per usare la definizione di Marc Augè) che probabilmente fa parte di un centro commerciale (altro non-luogo): sulla sinistra s'intravedono gli scaffali dedicati all'alimentazione bio (la naturalezza presunta mutata in offerta industrializzata) mentre a destra si distendono i banconi che contengono i surgelati: cibo la cui freschezza è stata sospesa perché riviva alla bisogna.

L'uomo sorride, di conseguenza (in un vincolo di subordinazione edulcorato col falso divertimento da spot) sorridono i giovani che lo attorniano. Lo scivolamento di gruppo – che avviene a favore di telecamera – è caratterizzato da due azioni coincidenti: alla reiterazione musicale (il ritornello di Ma la notte no di Renzo Arbore) viene infatti associata la reiterazione gestuale: l'uomo – ricevuto da un ragazzo o una ragazza un quadretto-immagine recante il primo piano di un personaggio famoso e dunque immediatamente riconoscibile (un cantante, un attore o un'attrice, Gigi Marzullo, un comico televisivo) – afferra il quadretto, lo mostra per qualche secondo poi lo depone nel carrello, facendone cumulo ai suoi piedi. Così il gruppo, dal fondo del corridoio, si avvia verso la cassa, lì dove il cantante, l'attore e l'attrice, Gigi Marzullo e il comico televisivo di cui si è fatto spesa verranno certificati in quanto prodotti e cioè definitivamente acquistati in cambio di denaro contante o carta di credito. Nel mezzo un solo intervento parlato: “Benevento Città Spettacolo: ce n'è per tutti i gusti. 25-31 agosto, tutta un'altra storia” dice l'uomo, prima di aggiungere con cadenza dialettale perché l'invito alla partecipazione abbia toni pseudo-popolareschi, “manchi solo tu”.
L'uomo è Renato Giordano, i ragazzi e le ragazze sono figuranti assoldati per lo spot promozionale, la pubblicità serve ad annunciare la ventisettesima edizione del festival sannitico: la seconda diretta dallo stesso Giordano.
Superfluo aggiungere che quest'operazione di marketing ha generato corsivi di riviste online e quotidiani cartacei, contro-spot in forma parodica, commenti ironici e prese di posizione contraddistinte dall'indignazione o dalla rabbia. D'altronde è facile mettere in relazione oppositiva il concetto stesso di festival – di per sé manifestazione finalizzata a generare o alimentare la vocazione culturale e artistica del luogo in cui accade – con il supermercato, che è posto standard e neutrale, dunque privo di caratteristiche storico-identitarie, nel quale non sussiste vincolo relazionale reciproco (tutto si limita al rapporto tra domanda e offerta) e in cui la collettività viene sfrangiata dall'individualismo da consumer: uomini e donne valgono in quanto acquirenti; la libertà di scelta viene influenzata e perciò limitata dalle offerte promozionali; i percorsi (fisici e mentali) sono incanalati secondo direttive prestabilite; il senso di comunità è ridotto al riconoscersi mentre si cammina, si sosta, si compra, si riprende a camminare. Superfluo aggiungere che l'esaltata mercificazione dell'artigianato artistico, la propensione alla quantificazione solo riempitiva e la commercialità grandi-marche cui rimanda lo spot hanno favorito l'ostilità ulteriore verso le scelte di Giordano, verso quest'edizione di Benevento Città Spettacolo.


Il 5 agosto Giordano ha rilasciato un'intervista ad Anteprima 24h. Dopo aver alluso a coloro che hanno la “memoria corta” – che avrebbero usato il festival per proporre “spettacolini teatrali elitari” e che adesso polemizzano muovendo “critiche gratuite e preconcette” per “invidia e livore” – il direttore artistico difende lo spot: “A me piace e mi diverte” – afferma – “Lo abbiamo girato in un supermercato perché oggi è il fulcro della vita quotidiana. Ci si trova di tutto, dal pane al vino” aggiunge, “e si sta pure freschi”. Difende poi Renzo Arbore, usato come colonna sonora – lo definisce “intellettuale per eccellenza” e “uomo-spettacolo vivente” –; ricorda le proprie origini (“Io vengo dai rioni popolari”), presupposto necessario perché la manifestazione sia partecipata (ne deriva, infatti, che “so cosa vuole la gente”); rivendica meriti artistici (i suoi spettacoli, ricorda, vanno “all'Eliseo e non nei teatrini off romani”); riesce nell'impresa di  tenere nella stessa frase Ugo Gregoretti (che ideò Benevento Città Spettacolo nel 1980) e Carlo Conti (è infatti la pubblicità del Festival di Sanremo, nella quale il presentatore “fa cantare tutti”, ad averlo ispirato). Infine dichiara il proprio obiettivo: fare della rassegna “un punto di incontro dove trovi tutti e di tutto”.
È per questo che i sette giorni di Benevento Città Spettacolo prevedono i balli latinoamericani e la tammurriata di Peppe Barra, la sfilata d'auto d'epoca e la lettura della Divina Commedia, il concerto-omaggio a Pino Daniele, una tappa di Miss Mondo Italia condotta da Barbara Chiappini, la presentazione dell'ennesimo romanzo di Maurizio De Giovanni, il live di Radio Ibiza, il tango e i canti gregoriani, le laude, le scritture sacre in forma di reading. E ancora: la discussione del volume Sorella Morte, scritto dal Monsignor Vincenzo Paglia, e il Tropp Street Food, l'assolo al pianoforte di Peppino Di Capri, il rap di Clementino, il concerto dell'Orchestra Italiana e le visite turistiche, l'assaggio delle pizze sannitiche, lo scorrere della falanghina. E il teatro? Il monologo di Giobbe Covatta, il musical tratto da La famiglia Addams e Alice oltre lo spreco, che la compagnia I Maccheroni Amari metterà in scena per “sensibilizzare sulle tematiche ambientali”; Callas d'Incanto, con Debora Caprioglio; Lucio incontra Lucio, in cui Sebastiano Somma porrà assieme Dalla e Battisti; Sandro Pertini: un Partigiano Presidente con Daniela Poggi. Non mancano i classici (due riscritture di Romeo e Giulietta: la prima dello stesso Giordano mentre Donatella Loffredo ne proporrà una versione “contemporanea” facendone la storia di “due famiglie di camorristi”) né può mancare lo spettacolo delle urgenze del presente: la migrazione (Lampedusa); il rapporto padri-figli (Esperanto), la violenza di genere (Voci di donne). “Un cartellone di qualità” – ha dichiarato l'assessore alla Cultura del Comune di Benevento Oberdan Picucci – che “chiude una ricca stagione di eventi”; “una sagra” l'ha definita il sindaco Clemente Mastella dando al termine un'accezione positiva, che sarà in grado di piacere anche “agli pseudo intellettuali beneventani”.
Vale davvero la pena, a entrambi, ricordare che Benevento Città Spettacolo usufruisce di fondi pubblici e che il loro impiego è finalizzato a sostenere il rischio artistico e non la produzione d'intrattenimento, che la Regione finanzia il festival con centocinquantamila euro perché sia occasione per una crescita intellettuale e civile della collettività e che tale finanziamento serve a sostenere spettacoli che abbiano ambizioni d'arte, permettendo agli artisti coinvolti di lavorare al riparo dai compromessi del mercato? E vale la pena anche ricordargli che Benevento è detta “la città dei teatri chiusi” (per le molte sale che hanno porte serrate o saracinesche abbassate durante l'anno), che il Teatro Comunale – che nel 2016 ha ricevuto un milione dal Ministero – è chiuso e che pure il Teatro Massimo, che è di proprietà privata, ora rischia di diventare un insieme di autorimesse, sale commerciali, abitazioni private?
Credo invece sia più interessante cercare di comprendere se il caso-Benevento sia un riflesso (locale) di un fenomeno (regionale): se, cioè, quel che sta avvenendo nel Sannio dica qualcosa di quel che sta avvenendo in Campania.


In Per tutti i gusti. La cultura nell'età dei consumi Bauman scrive che l'amministrazione politica della cultura e la pratica artistica sono destinate alla coesistenza e allo scontro, alla convivenza e all'antagonismo: simili a una moglie e un marito che non sono in grado di vivere separati ma che trascorrono ogni giorno a litigare, necessitano – disprezzandosi – l'una dell'altra. La politica, infatti, ha per tempo l'urgenza immediata o un futuro che coincide con la prossima scadenza elettorale mentre ha per interesse il controllo quanto più pacificato possibile del “generale”; la pratica artistica è invece “rivendicazione del particolare” (uno sguardo parziale e soggettivo sul mondo), mira alla durata nel tempo (che coincide con la durata nel cuore e nell'animo di chi assiste a uno spettacolo), non svolge funzione di servizio a favore di un partito, non bada alla conferma dell'esistente ma lo analizza e lo critica – anche in modo conflittuale – scovandone le ombre, le violenze, i significati rimossi. Per la politica dunque gli artisti “sono inutili” all'amministrazione quotidiana, per gli artisti invece i politici sono “dannosi” alla pratica concreta dell'arte eppure – ricorda Bauman – “gli antagonisti hanno bisogno l'uno dell'altro” e in particolar modo l'arte necessita di un sistema di riferimento senza il quale ogni vocazione – qualsiasi opera – è destinata a stancarsi, a svanire o a non essere compiutamente realizzata: anche l'opera più integra, se non vuole inaridire o ridursi a essere osservata e apprezzata da un'accolita ristretta di seguaci, ha la necessità di un contesto nel quale e rispetto al quale esercitare la propria influenza.
Ragionare su come un'amministrazione mette in pratica politiche culturali significa parteggiare dunque per l'arte e per gli artisti, a maggior ragione per coloro che sono privi di sostegno e per i quali le possibilità di crescita, maturazione e affermazione poetica sono più difficili. Questo perché discutere di fondi e di sistema culturale significa discutere non tanto di cifre e di bilanci quanto di opportunità che mancano e che invece sono necessarie: significa introdurre il tema della formazione professionale, rivendicare il valore del tempo dedicato allo studio e l'importanza della prova e dell'errore compositivo, indurre alla nascita di spazi in aggiunta a quelli esistenti affinché sia diversificato e favorito l'incontro tra chi compie un tentativo artistico e parti di cittadinanza, porre la questione che il lavoro sia regolarmente retribuito; significa – in ultima analisi – discutere di pluralismo e di libertà nella misura in cui un sistema culturale sviluppato riduce i privilegi e stimola il decentramento e l'eterogeneità; determina la coesistenza osmotica di strutture e di soggetti diversi ponendoli in contatto; promuove l'innovazione e la creatività; agevola la coesistenza generazionale e la trasmissione dei saperi; alimenta lo sviluppo delle potenzialità personali; riconosce valore all'immateriale; induce alla consapevolezza diffusa favorendo una messa in discussione politica del politico attraverso la convivenza di voci differenti, che danno la vita a lessici differenti.
Oggi tuttavia – sottolinea Bauman – sta avvenendo qualcosa di diverso: le istituzioni della nostra democrazia rappresentativa (loro siamo noi, occorrerebbe ricordarselo) si occupano sempre più spesso dell'arte e degli artisti non secondo parametri politici, più o meno discutibili, ma economici: nella mediazione tra amministrazione e arte sono cioè intervenuti “criteri manageriali” che sostengono le necessità della politica inducendola ad assumere comportamenti di mercato per cui un Comune o una Regione pensano, pianificano e finanziano il proprio sistema culturale badando a “l'immediatezza del consumo, della gratificazione e del profitto”. Simile a Jago che sussurra la colpa di Desdemona all'orecchio di Otello, il mercato influenza dispoticamente la visione della politica, rischiando di provocare la condanna a morte dell'arte.
Non a caso scrive Bauman che “ciò che è in gioco è il senso stesso dell'amministrare l'arte e le conseguenze che se ne vogliono ottenere”, di più: è in gioco “la sopravvivenza delle arti nella forma in cui esse sono esistite a partire dall'epoca in cui le pareti della grotta di Altamira sono state ricoperte di pittura”. Questo perché “il mercato dei consumi promuove il ricambio rapido con il più breve intervallo di tempo possibile tra uso e smaltimento”, mira alla mutazione degli spettatori in clienti ai quali proporre la rapida “sostituzione dei beni” generando un consumismo accumulativo, basato su una richiesta indotta (voglio vedere ciò che già conosco, alla stessa maniera per la quale compro sempre la medesima marca di dentifricio, soprattutto se pubblicizzato e in offerta) e finalizzato alla rimozione frettolosa (se un prodotto durasse, infatti, non potrebbe essere sostituito). “La logica di questo dominio” del mercato conduce la politica, afferma Bauman, “a compensare la mancanza di criteri estetici di qualità con la moltiplicazione delle offerte, gli scaffali ben ripieni o, per dirla semplicemente, con dispendiosi esagerazioni e scarti in eccesso”.
La politica culturale, insomma, sta diventando definitivamente “industria dei consumi” e possiamo facilmente notarlo dando un'occhiata alla ripetitività dei titoli e dei nomi e all'aumento dei costi delle stagioni dei Teatri Nazionali, alla pervasività della pratica dello scambio tra gli spettacoli, alle strategie comunicative e di vendita degli abbonamenti e dei biglietti, offerti in pacchetti-convenienza con aggiunta di sconto speciale: non importa la qualità di ciò che vedrai, importa invece che tu possa vedere molto spendendo sempre di meno. Ancora: tutto questo lo possiamo notare dando un'occhiata a chi un'istituzione elargisce i suoi fondi e per quali finalità.
La mia sensazione è che in Campania la Regione favorisca prevalentemente i grandi centri e che – attraverso le Fondazioni, le Società e le Associazioni di cui fa parte – stia alimentando una crescente politica degli eventi. “I grandi eventi” ha affermato infatti De Luca, costituiscono uno degli assi della politica culturale (gli altri sono: “la cultura popolare”, “le strutture” e l'apertura di uno “show-room” a Milano che proponga “tutte le eccellenze che abbiamo in Campania”: il “turismo”,  di  nuovo gli “eventi”, i “prodotti agroalimentari”). In ciò non c'è alcuna sorpresa. Bauman spiega infatti che l'evento è la formula-avvenimento perfetta per l'attività consumistica della cultura poiché appaga una moltitudine eterogenea, permette la realizzazione e l'annuncio del sold out preventivo, determina nel tempo abitudine e fidelizzazione, permette l'uso di prodotti di largo consumo, induce alla distrazione socio-politica e ha una data di scadenza ravvicinata: “Chi progetta un evento o chi vi opera può rimuovere dai propri calcoli qualsiasi preoccupazione a lungo termine” – scrive Bauman – permettendosi nel contempo di guadagnare a stretto giro “credibilità e prestigio” grazie alla quantità di partecipazione ottenuta. Questo determina la riduzione o l'abbandono del rischio artistico e la scelta della commercialità della proposta – l'impiego, ad esempio, di celebrità “famose per il fatto di essere famose” per dirla con Daniel Boorstin –, adeguatamente accompagnata non da riflessioni poetiche ma dal rimbombo comunicativo: l'evento, spiega ancora Bauman, viene “strombazzato in pompa magna” attraverso un “baccanale mediatico di pubblicità e promozione” di cui stanno diventando complici consapevoli anche quei quotidiani o quelle riviste che hanno abbandonato ogni reale funzione critica per darsi un ruolo puramente divulgativo.
Dunque: grandi epicentri produttivi e offerta dalla riconoscibilità immediata e dall'attrattività sicura per ottenere la presenza “di massa”. Scopo finale? Non la crescita culturale, politica e civile della comunità di riferimento ma la creazione (poi rivendicabile) di consenso massificato, numericamente testimoniabile. 


Nell'ambito della programmazione dei fondi europei nel 2016 sono giunte in Campania risorse per un miliardo e settecentotrentadue milioni di euro, buone per finanziare quelli che vengono definiti “Programmi Regionali Complementari”. Di tali risorse la Regione ha deciso di impiegare ottantadue milioni per un “Piano Operativo” dedicati ai “Beni e le Attività Culturali”; di questi ottantadue milioni in particolare sessantatre sono andati alle attività: trentaquattro complessivi hanno riguardato direttamente il teatro. I soggetti finanziati sono nove: Teatro San Carlo, Ravello Festival, Fondazione Campania dei Festival, Teatro Verdi di Salerno, Teatro Trianon, Teatro Stabile di Napoli, Teatro Gesualdo di Avellino, Teatro Comunale di Caserta, Teatro Massimo di Benevento. Cifre variabili (dagli undici milioni dati al San Carlo ai 510.000 euro offerti ai teatri di Avellino, Caserta e Benevento), impiegate per sostenere il ripristino strutturale degli edifici e le attività amministrative e artistiche annuali di questi centri produttivi – che offrono al turista alto-borghese di Ravello il concerto strumentale al tramonto e “al popolo di Forcella” il ritorno in auge della sceneggiata – dei quali la Regione risulta spesso socio principale.
Ancora. In Campania – dal 15 giugno 2007 – è in vigore la Legge n.6 che “disciplina gli interventi regionali di promozione dello spettacolo”. La Legge afferma di promuovere “la drammaturgia e la creazione contemporanee”, di garantire “le sperimentazioni, la ricerca, il rinnovo del linguaggio”, di puntare “alla valorizzazione delle differenze” e a una “equilibrata distribuzione dell'offerta culturale”, al “ricambio generazionale e all'integrazione dei linguaggi”, a uno “sviluppo armonico” del sistema complessivo. Nella Legge – articolo 3 – si dice inoltre che la Regione ha l'obbligo di “favorire il coordinamento dei soggetti coinvolti, il pluralismo e l'accrescimento della qualità”, di “sostenere la produzione di spettacoli finalizzati alla ricerca di nuove forme di comunicazione artistica”, di “favorire il costante rinnovamento della scena” e di “promuovere la sperimentazione di nuove tecniche e nuovi stili”; di “avvicinare nuovo pubblico” e di attuare il “riequilibrio territoriale dell'offerta”. Tuttavia la Legge ha usufruito di un rifinanziamento aumentato (da nove a quindici milioni di euro) senza aver subito preventivamente una messa in discussione e le modifiche necessarie: inadatta al panorama teatrale odierno – assente ogni confronto tra rappresentanti delle istituzioni, artisti e operatori – si limita a sostenere i soggetti già sostenuti in passato, dotandoli di cifre accresciute in proporzione per cui la Legge amplia ulteriormente il divario economico tra di essi, acuendo determinati privilegi e radicalizzando le rendite di posizione. Si tratta di due esempi, utili per comprendere come la Regione Campania stia governando l'economia della cultura. Per comprenderlo ancora meglio basti aggiungere che le Società o le Fondazioni attraverso cui – direttamente o in forma delegata – pianifica, organizza, (co)produce e fa circolare il teatro sono due:
1 – Il Teatro Pubblico Campano, cui affida (e permette) di fatto il decentramento regionale, che è diretto fin dalla sua fondazione (31 ottobre 1983) da Alfredo Balsamo e che – smentendo gli obiettivi che lo Statuto dichiara e a cui lo obbligherebbero i cospicui contributi che riceve – si limita alla pratica distributiva, tipica delle agenzie private, privilegiando tra l'altro la vendibilità dell'offerta attraverso la realizzazione di cartelloni incentrati principalmente sul cantattore famoso, sul comico televisivo, sulla commercialità da palcoscenico. Così soldi pubblici sono utilizzati per fare cassa; così ventuno sale, che spesso sono l'unico avamposto in territori altrimenti privi di offerta culturale, vedono alternarsi Biagio Izzo o Serena Autieri, Massimo Ranieri o Carlo Buccirosso, Sabrina Ferilli, Maria Amelia Monti, Alessandro Preziosi, Vincenzo Salemme: nomi perfetti perché sia richiesto un contributo ulteriore ai Comuni interessati (ospitare la celebrità costa), perché sia certo già in prevendita il pieno di sala e sia possibile poi dichiarare a mezzo stampa il successo della stagione teatrale appena trascorsa.
2 – La Fondazione Campania dei Festival che, senza che nessuno in merito avanzasse dubbi o ponesse domande, ha mutato funzioni e finalità: nata nel 2007 per organizzare e gestire il Napoli Teatro Festival Italia è adesso “un'istituzione di ampio respiro che durante l'arco dell'intero anno produce, promuove e amministra un articolato sistema di progetti”. Alla Fondazione Campania dei Festival è toccata, ad esempio, l'organizzazione del Word Urban Forum e  del Premio Le Maschere, affiancare il Verdi di Salerno e il San Carlo di Napoli o decidere come utilizzare, attraverso un protocollo d'intesa, i 510.000 euro che la Regione ha destinato al Gesualdo di Avellino (teatro in crisi amministrativa, tra denunce alla Corte dei Conti e alla Procura e un aggiramento del Codice degli Appalti che sarebbe avvenuto non mettendo a gara servizi quali l'accoglienza e la biglietteria, i tecnici di palcoscenico, il responsabile della sicurezza e la comunicazione ma finanziando, per essi, direttamente il Teatro Pubblico Campano con cinquantamila euro; quello stesso Teatro Pubblico Campano cui si deve – di fatto – la programmazione passata). Sempre alla Fondazione si deve l'organizzazione del Festival Viviani, della manifestazione Totò: l'arte e l'umanità e della rassegna Dramma Antico alle Terme di Baia, che si è inopinatamente sovrapposta al Pompeii Teatrum Mundi organizzato tra giugno e luglio dallo Stabile di Napoli, con replica talora dei medesimi titoli e delle medesime produzioni.
Quel che sta avvenendo in Campania dunque – analizzando i flussi di denaro, valutando l'impiego dei fondi pubblici e i cartelloni allestiti dai direttori artistici, che sono gli ultimi delegati del potere politico che li ha nominati – è la moltiplicazione di una spettacolarità iperfinanziata che impiega le risorse ingigantendo gli allestimenti, ampliando i cast, pagando a caro prezzo la celebrità dei soliti noti oppure offrendo una programmazione quantitativamente esagerata a una platea di clienti potenziali, che viene attratta dalla riconoscibilità del titolo o dell'attore protagonista, dall'eccezionalità dell'avvenimento o da uno sbigliettamento a prezzi favorevoli perché ne derivi a scatola chiusa e indipendentemente dalla qualità effettiva della proposta una fruizione maggioritaria, cosicché il successo (cioè il valore) della manifestazione o del programma sia sancito dal numero di presenze ottenute:  “Devo riempire i teatri” mi dice non a caso Alfredo Balsamo in un incontro tenutosi anni fa al Bellini (ragione per la quale nel circuito che dirige non trovano spazio giovani compagnie e la danza, di cui si è dichiarato “incompetente”); “vi hanno preso parte ottantamila spettatori” ricorda a fine Napoli Teatro Festival Italia (la cui parte più interessante è stata non a caso quella meno notiziabile: i laboratori) Ruggero Cappuccio, rivendicando in questo modo la pacificazione territoriale ottenuta dopo gli scarsi risultati prodotti da De Fusco e Dragone; “abbiamo stabilito un nuovo record di presenze, abbonati e incassi” ribadisce – anno dopo anno – in qualità di direttore dello Stabile a sua volta Luca De Fusco; “Un'estate da Re chiude il sipario con un bilancio entusiasmante: tredicimila presenze, undici appuntamenti, oltre cinquecento tra musicisti orchestrali e cantanti si sono alternati sul palcoscenico allestito nella Reggia di Caserta” annuncia invece la Scabec, cioè la società in house alla Regione nella quale – secondo i progetti di Vincenzo De Luca – dovranno convergere ventinove Fondazioni culturali, in modo che le arti siano definitivamente messe in relazione con le bellezze paesaggistico-archeologiche e servano all'aumento dei flussi turistici: “La Regione Campania sta lavorando per creare un circuito di eventi e di offerte culturali tutto l'anno che siano utili ad arricchire l'offerta turistica e siano quindi strumento per gli operatori nella costruzione di pacchetti e proposte” ha dichiarato, non a caso, Nicola Oddati – membro del CdA di Scabec – l'8 marzo 2017 all'ITB di Berlino; d'altronde “la cultura” – ha ribadito di recente Vincenzo De Luca – “può essere un volano straordinario per valorizzare fino in fondo il patrimonio storico-artistico immenso che abbiamo” (nel segno della congiunzione tra turismo e teatro un dettaglio ulteriore: a gennaio 2017 è stato nominato presidente di Scabec Antonio Bottiglieri, che risulta ancora parte anche del Consiglio di amministrazione della Fondazione Campania dei Festival).
Conseguenze di tutto ciò?
Ne segnalo solo alcune: la politica, che ha perso la prossimità fisica con la piazza, sfrutta a suo vantaggio la prossimità fisica tra attori e spettatori rendendola strumento di relazione propagandistica; del teatro la politica sfrutta anche la sua consistenza effimera, la sua vita breve, usandola per l'allestimento di un continuo carpe diem caotico, gratuito o a basso prezzo; inoltre i cartelloni vengono improntati senza considerare bisogni e vocazioni effettive del territorio e della cittadinanza (esempio: possibile che Salerno, da cui i giovani artisti emigrano, che ha il Ghirelli chiuso da quasi due anni e in cui manca una progettualità stabilizzata sul teatro under locale e italiano abbia come priorità la realizzazione, al Teatro Verdi, di una stagione lirica che costa tre milioni di euro, forniti annualmente dalla Regione?).
Ancora.
Il teatro non ha più valore in sé ma viene considerato invece importante solo se posto al servizio di interessi ulteriori, di natura amministrativo-finanziaria e mediatico-elettorale; il metro valutativo che lo riguarda non ha più a che fare con le poetiche che esprime ma con gli utili che garantisce, siano essi la fila di presenti all'evento gratis o l'incasso conteggiato al botteghino; il tempo delle prove e dello studio è tempo perso mentre la rilevanza dei tentativi e degli errori è nulla nel momento in cui conta solo il prodotto finito, da esporre allo sciame dei clienti; l'azzardo compositivo non è consentito o viene edulcorato tramite garanzie preventive: un classico della tradizione o un titolo best seller, riscritto dal giallista in voga e firmato da un ex-regista di grido, magari con protagonista un nome televisivo.
Resa superflua qualsiasi analisi qualitativa – quanto peso e quale ampiezza hanno ormai le recensioni degli spettacoli, a fronte del peso e dell'ampiezza che invece hanno interviste promozionali e articoli di presentazione? – un novero ristrettissimo di direttori artistici (liberati anche dal contropotere interno esercitato un tempo da CdA formati da personalità forti, dotate di competenze specifiche) interpretano il proprio ruolo favorendo l'acquisizione di consenso ai politici, dai quali deriva il ruolo che hanno assunto, decidendo quali spettacoli produrre, quali mettere in abbonamento o in programmazione, quali distribuire o scambiare in un circuito che sembra amplissimo ma che in realtà è sempre più chiuso ed elitario: così – ad esempio – il Teatro Pubblico Campano di Alfredo Balsamo proporrà il prossimo spettacolo di Luca De Fusco, che a sua volta produrrà e ospiterà il prossimo spettacolo di Ruggero Cappuccio, che a sua volta ha trovato il modo di affidare la curatela di importanti sezioni del Napoli Teatro Festival Italia ad attori che sono nella compagnia stabile che interpreta le regie di De Fusco. Il tutto con il consenso implicito (quando non con l'induzione esplicita) della Regione, dei Comuni interessati e del Ministero e – perdurante – un ritardo pluriannuale nei pagamenti che riguarda l'intero settore, per cui mentre da un lato si mettono a bilancio cifre esorbitanti o la Regione dichiara la generosità del proprio interventismo economico (così smentendo l'esistenza di una crisi finanziaria), dall'altro invece operatori e artisti faticano a riscuotere il dovuto per il lavoro che hanno effettuato mesi o anni prima.


E la teatralità diffusa, il rapporto con i luoghi e la comunità che li abita, la funzione formativa del palcoscenico, la crescita professionale di operatori, artigiani e artisti? E la residenza laboratoriale, la gestazione complicata di un lavoro, la duratura trasmissione dei saperi dai più esperti ai più acerbi, la messa in pratica del confronto tra registi, compagnie, drammaturghi e attori? E la produzione di bellezza, l'illusione di poter ancora incidere su chi ti guarda dalla platea, lasciandogli un segno che rimane come una piaga, una ferita, qualcosa che non passa? L'umano imperfetto che contraddistingue il teatro in quanto teatro; il culto della memoria che diventa poesia; l'evocazione e la rinascita di parole dimenticate o di un mondo rimosso; la disabitudine alla meraviglia, al fastidio o alla sorpresa imposta allo spettatore, che il giorno dopo tornerà a pensare a ciò che ha visto e vissuto, e l'intermittenza estetica nel quotidiano, la variazione imposta ai concetti di tempo e di luogo e la comprensione dell'altro, che avviene grazie al corpo esposto dell'attore; il valore della conoscenza e della complessità, la scoperta di un nuovo autore, l'importanza che appartiene alla sconfitta e al tentativo andato male; il bisogno che – da sempre – l'uomo ha di vedersi rappresentato e questa necessità dell'incontro ravvicinato e carnale, qui e ora, tra me e te, tra noi e voi. Povere cose, sembra dire la politica campana, lasciate alla cura di chi agisce in regime di difficoltà o di ardua autosufficienza finanziaria.
Tutto questo infatti è demandato sempre di più a una nuova generazione di operatori, a un'altra generazione di artisti, che – dal centro storico di Napoli ai luoghi periferici delle varie province campane – aprono spazi o rinnovano l'identità dei teatri che gestiscono, che passano i giorni a dipingere le pareti del foyer e a inchiodare il palco, che imbucano nelle cassette della posta il volantino con il programma di stagione o amministrano le risorse che hanno a disposizione generando opportunità di crescita collettiva; che investono denaro personale aggiungendovi sacrifici e rinunce, che operano scelte antieconomiche elaborando progetti altrimenti impensati dalle istituzioni o dai direttori artistici già citati, che si conquistano lo spettatore a uno a uno, che moltiplicano fatica e possibilità, desiderio creativo, le occasioni di coesistenza e di collaborazione; che aprono una sala più piccola in aggiunta alla sala principale, che organizzano incontri conoscitivi tra il pubblico e gli artisti, che investono decidendo di affiancare al palco una libreria teatrale; che scommettono sul testo ancora inedito, su una vocazione registica, sulla giovane compagnia che viene da fuori o su quella che abita in Campania e che prova lo spettacolo nel salotto di casa, nell'aula universitaria occupata.
Una generazione di trenta-quarantenni considerata residuale, ancora posta ai margini o che staziona fuori al sistema della produzione di eventi appena descritto; che ha avviato prassi e processi a cui sente di non poter mettere la parola fine e che battaglia nel quotidiano – anche sedendo costruttivamente a tavoli ai quali fa quasi schifo rimanere seduti – perché il cambiamento, lentissimo, si verifichi e che sente l'urgenza continua del fare, comunque e a dispetto di tutto.
Donne e uomini che rendono il paesaggio teatrale campano dinamico, più coraggioso, ancora discutibile in termini di qualità e contraddistinto da una vera biodiversità estetica: ben altro cioè dall'insieme rutilante di eventi preconfezionati cui qualcuno vorrebbe che definitivamente ci abituassimo.




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