“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 29 August 2017 00:00

Teatro di realtà (e di Bombagiò)

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Fine stagione all’insegna di tematiche fortemente legate all’esperienza del reale, declinato sia nella dimensione collettiva che personale, quella presentata dal teatro Binario 7 di Monza.

La rassegna “Teatro + Tempo Presente” (che costituisce il cartellone “principale” della stagione) e quella denominata “I Venerdì del Binario” (produzioni tutte nuove e destinate dal prossimo anno alla seconda sala teatrale) si sono concluse con due lavori espressione di un'urgenza testimoniale per eventi che ci toccano nel pubblico come nel privato: di denunciare − in un caso − la degenerazione del sistema dell’informazione, il mutamento ontologico della sua ragion d’essere, la ormai pressoché totale dipendenza dalla ricerca dell’audience per assicurarsi il mantenimento del profitto; di rendere pubblica − nell’altro − una storia nascosta per anni nelle scatole dei ricordi che giacciono in ogni famiglia, una vita sottaciuta per tanto tempo e che, per volontà del destino e dell’autore, torna a farsi narrazione ed espediente di pratica teatrale.
Nel primo esempio, La Compagnia Teatro Binario 7/La Danza Immobile di Monza ha presentato Uno che conoscevo − l’ultimo lavoro del direttore, drammaturgo e regista Corrado Accordino − che ha debuttato nel gennaio di quest’anno al Teatro Libero di Milano. La scena che si presenta è quella di una redazione di un telegiornale, con due scrivanie poste una di fronte all’altra e altre due ai due lati estremi del proscenio (e rivolte verso il pubblico), con un appendiabiti sul fondo. Parte la sigla del TG. In scena ci sono: Riccardo, ansioso, che teme la presenza di nuovi arrivi; Chiara, intenta a farsi la manicure; Valentina, che propone le notizie da mandare in onda. Poi entra la nuova stagista, Veronica, dall’aria timida e remissiva. Primo suo compito in redazione? Portare il caffè. Riccardo sceglie le notizie da leggere, Veronica premurosamente gli porge la tazzina. Nel frattempo Chiara ha scambiato la fiction sul papa per verità, scatenando battutine comiche (Riccardo insinua che beva troppo). I tre sono preoccupati perché gli ascolti sono bassi. Chiara teme che il suo posto possa addirittura saltare, mentre secondo Valentina potrebbe saltare il posto di Riccardo.
Veronica si mostra sin troppo gentile ed umile, anche se alcune sue dichiarazioni rivelano una preparazione e una capacità di osservazione non comuni. La fine della giornata lavorativa è sottolineata da una delle tante musiche da notiziario che segnano, come moderni araldi, il tempo “forte” delle novità cui prestare la massima attenzione. Una giornata in redazione, o un suo significativo segmento, che si apre e si chiude come un quadro di una stessa scena: a volte la cesura è tra due giornate consecutive, altre tra due settimane. Man mano che il tempo passa, i caratteri e le storie dei personaggi si delineano con maggiore precisione e anche i loro vissuti, i loro trascorsi, le loro ansie e debolezze. Veronica sembra rimanere vittima dell’indifferenza, se non del disprezzo, che le dimostrano gli altri tre, chiusa in un atteggiamento di curiosa e umile deferenza che lascia trasparire una purezza di fondo autentica, la stessa che informa l’idea che ha del mestiere di giornalista, per lei basato sulla massima obiettività e il massimo rispetto per i “fatti” (ed il minimo ricorso alle “opinioni”).
Riccardo si pone agli antipodi di questa etica del lavoro, è un personaggio che esemplifica chiaramente la deriva che il mestiere di giornalista ha raggiunto. Partito con lo steso sacro fuoco deontologico a inizio di carriera, il giovane e puro paladino dell’obiettività è inevitabilmente sceso a compromessi con gli ingranaggi della macchina dell’informazione, con i reali interessi che sottendono qualsiasi azienda, inclusa quella della comunicazione, ossia quelli economici: “... Tu vuoi ‘servire la verità’. Ma la verità esige onestà, è l’uso del pensiero che va modellato... stronzate! Noi raccontiamo la verità, ma vogliamo fare spettacolo solo perché ci ascoltino!”.
Chiara è la giornalista che compare in video, il volto telegenico e presentabile dell’inferno che è la redazione, anzi tutte le redazioni di tutti i tg del mondo, fucine impegnate a scegliere notizie e a forgiarle in un certo modo, ad elaborare strategie di fascinazione e di sopravvivenza, impregnate dei sulfurei vapori dell’inganno, della maldicenza, del sospetto... “Siamo noi che mettiamo le notizie giù in questo modo”. “Noi creiamo reazioni a catena”. “Non importa ciò che succederà o meno, ma che creiamo attenzione”. Questa è la “legge dell’attenzione” che vale per ogni argomento, per il meteo come per una bomba. Prima di andare in onda, esercita i muscoli del viso per assumere la “faccia giusta”. Valentina non compare in video ma è la più attiva nel ricercare le notizie, nel monitorare le aperture di quotidiani e notiziari. È quella meno propensa agli scatti d’ira e ai deliri da protagonismo, cerca di mediare tra le varie posizioni, sembra volere solo il bene dell’azienda ed essere avulsa da raggiri e complotti. Sembra...
Una rappresentazione crossmediale, in cui la contemporaneità dei grandi avvenimenti è il tramite che lega gli universi della televisione e del teatro rivisti in una semplice ma inedita modalità: non si tratta più banalmente di adeguare gli spazi e gli sguardi teatrali alla moltiplicazione dei punti di vista offerta dal medium televisivo, non è più il teatro in tv (ovvio...) ma il “dietro le quinte” di una redazione che viene esposta alla ribalta, ciò che i telespettatori non vedranno mai: il “non-luogo” (se non si vede, allora non c’è, non esiste...) in cui si elaborano strategie e condizionamenti. È il paradiso, la cabina di regia dove risiede il regista-demiurgo-Padre del Truman Show, ciò che viene analizzato seguendo una scansione temporale basata sui ritmi del lavoro: l’ingresso in redazione alla mattina, o negli ultimi minuti prima di lasciare le scrivanie la sera, un tempo dove le anonime e incalzanti note delle sigle irrompono a segnare l’ansia per rispettare gli orari e stare sempre sul pezzo, e che coprono le parole dei Nostri con felice intuizione registica, rumore che sommerge rumore, armonie che soverchiano rituali acrimònie.
Bravi gli attori, i cui nomi l’autore ha trasferito ai personaggi, per una maggiore aderenza ai ruoli, e la volontà di sviluppare personalità, atteggiamenti, maschere – assecondando le naturali inclinazioni degli interpreti – ha contribuito alla riuscita della scrittura dei dialoghi. Con un espediente tipicamente cinematografico, la pièce si apre con la lettura di una notizia straordinaria, la stessa che ne rappresenta l’epilogo, e il gioco del whodunnit lascia spazio per un’altra intersezione col medium cinema, lasciando nella platea quel pizzico di dubbio che rende tutto più avvincente.


L’ultimo “Venerdì del Binario” ha visto sulla scena della sala grande un altro esempio di teatro che nasce sotto la forte spinta delle esperienze personali, familiari, che si fanno fonte d’ispirazione per lavori necessariamente originali. Originali, e non potrebbe essere altrimenti, data la singolarità del soggetto, anche per le soluzioni adottate, obbligatoriamente lontane da una semplice messa in scena dal taglio tradizionalmente cronachistico e sequenziale. Si tratta di Gianni, spettacolo che ha debuttato al Tearo Litta di Milano nel novembre 2015, dove si è aggiudicato il Premio Scenario per Ustica, prima di essere applaudito in qualità di vincitore al festival In-Box 2016 tenutosi a maggio dello scorso anno a Siena.
L’autrice e protagonista unica, Caroline Baglioni, nel 2004 ritrova a casa sua tre audiocassette incise da suo zio Gianni circa venti anni prima. Sono discorsi a se stesso, considerazioni ad alta voce, flusso di coscienza cristallizzato su nastro, pensieri solo apparentemente illogici, perché pregni di significato per chi li ha espressi, medium per comunicare a se stesso i disagi e le delusioni per un mondo che sembra non accorgersi di lui, per un’umanità sorda alle sue esigenze identitarie, alle sue richieste di amore.
Ne ha per tutti Gianni: vecchie conoscenze, donne, umanità in generale.
Gianni non riesce ad esorcizzare il nemico che lo prende e lo sovrasta, che torna ad avvinghiarlo quando sembra che sia andato via sconfitto, quella psicosi manico-depressiva che lo allontanerà per sempre da tutto e da tutti, che lo costringe ad una irrequietezza continua tra il dentro e il fuori, tra la consapevolezza di stare in sé e il borbottio nichilista e disarticolato. Un disagio che lo spinge ad interagire con l’amico Bombagiò, figura saggia che fornisce consigli e solidi punti di vista, la proiezione di un sé positivo e forte. E poi ci sono le canzoni, che Gianni ascolta sul giradischi di casa e che registra su cassette per sentirle in macchina, nei suoi viaggi in città dallo psichiatra, nelle sue divagazioni nel traffico.
Tutto questo memoriale si fa materia creativa viva e drammaturgica nelle parole e nelle scelte di Caroline Baglioni, canovaccio su cui imbastire un insieme coerente di segni scenici, peculiari e comunicativi.
La sua voce assume l’inflessione dialettale perugina per declamare le frasi, quelle stesse parole, incise sui nastri. In altri momenti l’autrice è semplice narratrice di eventi e ricordi personali, ma quando si fa tramite delle angosce dell’uomo ne assume gli sguardi obliqui, le posture irregolari, l’andatura incerta. Lei smette le sue scarpe, e in sottoveste lilla si mette ai piedi calzature sempre spaiate, prendendole a caso dal mucchio che si trascina in scena a inizio spettacolo, testimoni dell’essere sempre fuori misura, fuori forma, fuori norma.
Un delirio ossessivo, farneticante e doloroso, quello che l’interprete agita con la voce e il corpo, in una coreografia della mente cadenzata sui ritmi dei successi che si ascoltavano alla radio o col giradischi. Una colonna sonora che vede, accanto a brani noti dei Led Zeppelin, Sergio Caputo, Antonello Venditti, Renato Zero (e dalle registrazioni spunta la voce di Carolina bambina che intona L’immensità) anche tracce risalenti agli anni in cui la Nostra ha scoperto questa eredità testimoniale e ne ha fatto oggetto di rielaborazione drammatica, come quelle di Morgan, Coldplay, Afterhours. E se la presenza di No! Mamma, no! di Renato Zero sembra una scelta logica per il soggetto del testo, l’uso di Space Oddity come score per una danza di liberazione dell’anima si rivela funzionale ad un momento ad alto tasso di suggestione e poesia.

 

 

Uno che conoscevo
drammaturgia e regia
Corrado Accordino
con Riccardo Buffonini, Veronica Franzosi, Valentina Mandruzzato, Chiara Tomei
assistente alla regia Valentina Paiano
scene e costumi Maria Chiara Vitali
foto di scena Giulio Mazzi
produzione Compagnia Teatro Binario 7, La Danza Immobile
lingua italiano
durata 1h 20'
Monza, Teatro Binario 7, 7 maggio 2017
in scena dal 4 al 7 maggio 2017



Gianni
ispirato alla voce di Gianni Pampanini
di e con Caroline Baglioni
supervisione alla regia Michelangelo Bellani, C.L. Grugher
assistente alla regia Nicol Martini
luci Gianni Staropoli
suono Valerio Di Loreto
organizzazione Mariella Nanni
foto di scena Gloria Soverini
produzione La Società dello Spettacolo
lingua italiano
durata 1h 10'
Monza, Teatro Binario 7, 12 maggio 2017
in scena 12 maggio 2017 (data unica)

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