“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 09 July 2018 00:00

Abandoned discotheque

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Tempi confusi i nostri, dove le classifiche (sento ancora parlare di ‘dischi di platino’, ma probabilmente si tratta del numero di download regolarmente acquistati) vedono ai primi posti − coadiuvati dai nuovi indicatori del successo (le visualizzazioni) − interpreti di un universo sociale e semantico distante anni luce dalla facile (e un po’ ruffiana) melodia italiana da talent, personaggi che la vulgata vuole provenire dalle periferie anonime e degradate delle metropoli (i famigerati ‘palazzi’) da cui sono ascesi alla ribalta mediatica delle platee di massa. Beninteso, sempre dell’italica traduzione di una scena americana si tratta, e in ciò anche i riferimenti culturali (oltreché meramente testuali) esprimono un universo codificato costituito da ben precisi elementi: il sentimento di rivalsa sociale, l’autoesaltazione e l’attacco dei ‘rivali’, i riferimenti alle droghe e il conseguente aspetto positivo del loro uso, l’ostentazione delle griffe più costose, gli appellattivi dispregiativi e sessisti verso le donne (tranne la mamma, cui si compra una casa quando ci si è fatti i soldi), i soliti richiami alla sottocultura gangsta declamati con toni minacciosi e sguardi torvi.

Tempi confusi anche per il settore più ‘adulto’ della musica cantata in italiano, anche se alla maggiore età anagrafica non corrisponde una maggiore profondità testuale o un’analoga profondità d’intenti e contenuti (e solo tra parentesi oso proferire la desueta ed anacronistica e vilipesa parola ‘impegno’): quello del ‘cantautore’, termine onnicomprensivo oggi, che annovera sempre più emuli di Rino Gaetano (e sempre meno di Vinicio Capossela), ma anche inventivi affabulatori che narrarano le precarietà dei trentenni con piglio ironico e leggero, sostituendo (o affiancando) alla chitarra acustica tappeti elettronici à la page, archi sintetici, tastiere eighties e primitive drum machine. A questi si aggiungono dj in vena di cantare, produttori dal riconoscibile tocco modaiolo, gruppi alla ricerca del facile tormentone estivo e del successo sanremese, ex-rapper saliti in cattedra, tutti identificabili sotto l’etichetta (discutibile quanto si vuole) di ‘itpop’.
E allora, si dirà, bisogna gioire per lo svecchiamento della nostra musica popolare, per l’aria fresca che emana da queste nuove produzioni, da questi arrangiamenti più in linea con il pop globale? Già, pop. Come se la texture di elettrica, basso e batteria non rientri più nelle aspirazioni musicali degli adolescenti, o più precisamente, come se il rock nella sua alchimia sonora non possa più sottendere alle urgenze espressive delle nuove generazioni. Però una scena di rock in italiano continua a perpetuarsi, al di là dei pochi nomi consolidati e conosciuti al grande pubblico (Afterhours, Marlene Kuntz, Il Teatro degli Orrori) e le etichette indipendenti seguitano a produrre band valide e professionali, alternative (nell’accezione più diretta del termine) a quanto ci gira intorno. Ne è un valido esempio il ritorno dei DON Rodriguez con il loro secondo disco La sostanza dei fatti (edito − dopo giusto tre anni dal precedente L’Indimenticane − sempre dalla label Dischi Soviet Studio). Risulta subito, dopo i primi ascolti, una differenza rispetto all’esordio: dove lì coesistevano dei tempi e dei registri diversi, qui le canzoni assumono un aspetto più omogeneo, i suoni si irrobustiscono, la struttura del cantato appare più coesa nella ripartizione di intro, strofe, ritornelli, coda. Di conseguenza i riferimenti musicali si definiscono meglio, e accanto alle ascendenze indie americane, si riconfermano quelle british (penso agli Ash e al loro tiro potente e melodico), mentre quelle italiane si limitano a qualche passaggio nel cantato.
Sotto l’aspetto testuale le liriche perdono il gusto per l’eccentricità e il nonsense dell’esordio, le parole si concentrano di più sul vissuto emozionale di un io narrante intento a descrivere ragionamenti sull’amore, sulla sua mancanza, sul suo ricordo, ma anche prese di coscienza di un’impasse personale e sociale (oltre a desideri di fuga da situazioni troppo statiche). Non mancano frasi fatte, richiami a modi di dire e citazioni di canzoni celebri, il tutto volontariamente decostruito e rimesso a posto per astenersi da qualsiasi tentazione di un discorso banale. E così l’insistenza su aggettivi, locuzioni, interiezioni, assonanze si presta bene alla perfetta aderenza delle parole ai ritmi e alle melodie, senza ridurre i testi a mero apparato di contorno, aderenza assicurata da un cantato modulato e fluido.
Ed è un chiaro esempio di una precisa attenzione al testo il consapevole contrasto tematico dell’opener Agosto, che nell’indie italiano è un mese che si presta bene a narrazioni di momenti vissuti ‘al chiuso’, (per dedicarsi a passioni solitarie, come canta Federico Fiumani nell’omonimo pezzo su Scenari immaginari, 1998), o a malinconie esistenziali più adatte all’inverno (stesso titolo per i Perturbazione, dal loro In circolo, 2002). Qui i Nostri chiedono venia proprio... al mese, sprecato a trascorrere il tempo tra libri e solipsismi (“invece ti ho lasciato andare / come fossi un mese qualunque / trentun giorni disperati / dentro un libro in fretta e furia / agosto saprai perdonare / tutto il caldo che ho sprecato...”). Una metafora dei nostri tempi meschini, torvi, piatti, senza più speranze né utopie segna il grido d’aiuto di Astronauti (“Base luna siamo immobili e senza regole / siamo immuni a tutti i sentimenti”, ed anche “base alpha siamo circondati e senza telefono / respiriamo piano anche se l’aria non ci manca / è forse la paura di esser soli nel vuoto cosmico...”) tra immagini vintage e scenari retrofuturistici seventies. A prevalere sono però tematiche più personali che social, dove i ricordi di ciò che è stato e di quello che avrebbe potuto essere (ma che non è) segnano lo scarto con un presente pieno di disillusioni e dubbi. Come sa bene il protagonista di Illogico, primo video estratto dall’album, di cui si dicono le testarde certezze (“lui ci crede ancora lei forse no / ed è per questo che non ha senso / soffermarsi sul momento / è illogico / è illogico... cosa ti aspettavi di trovare dopo tanto tempo? / a cosa hai rinunciato per rivivere questo momento?”). Ricordi che servono a scongiurare la precarietà, l’instabilità di un rapporto (Giorni, settimane in cui svaniscono le immagini di lei, “passate ad aspettare senza arte senza te / settimane intere a contare giorni lievi o meno / casomai non ti vedessi più”), o anche a carezzare un rimpianto senza cedere alle trappole della nostalgia (La primavera del ‘93, in cui “eppure mi convinsi / con il senno che ne seguì / che quello era il momento esatto / per non esser lì”). E forse ripensare agli entusiasmi degli inizi può ancora servire a recuperare le ragioni di un rapporto, come si canta in Leggero (“una parola non mi basta / vorrei davvero fossi più sincera / adesso questo non mi basta / vorrei tornassimo ad un tempo leggero / leggero leggero come non è stato più”), mentre la dimenticanza, segno opposto del ricordo, è sintomo di un’insofferenza non più dissimulabile, né giustificabile ricorrendo a banali motivazioni (in L’oblò dell’oblio ci si chiede “come ho fatto a dimenticarti?” anche se “poi mi sono ricordato che in Liguria / la scogliera è la più pericolosa al mondo che c’è / ho richiesto l’intervento della guardia di Ponente / guarda il sole è già dismesso immerso nel blu”). Un’ammissione di colpa può sussistere solo attribuendo la responsabilità all’estro compositivo, all’intuizione poetica, al demone che c’impedisce di fingere, che ci costringe ad esporci in prima persona e a sfidare così l’autocitazione (segno che il cantante è il responsabile principale delle liriche...), come quella che chiude Se tanto mi dà tanto (“amore non ho fatto niente / per cambiare le parole / sono nate in un momento / di purissima intuizione / amore non ho fatto niente / per fermare le parole / sono andate in un momento / di colpevole distrazione”).
Il prefinale è simpaticamente affidato al racconto paradossale di Una giornata come tante (asfalto basso) dove le coincidenze ottenute non sono sempre quelle sperate, prima dell’agognata fuga in un Brasile solare e accogliente, via da una provincia piovosa che costa caro, anche se poi non dovesse sempre splendere il sole... E i DON Rodriguez non possono certo dirsi esponenti di un rock urbano, forse sarebbe più giusto appellarli come alfieri di un rock sanamente di provincia (ricordo che le scene indie americane non sono nate nelle solite due o tre metropoli...), dato che il disco, fin dall’allusivo e goliardico titolo, narra dei sogni che nella provincia sembravano realizzarsi attorno ad una discoteca − nello specifico la storica New Fashion di Gurro (VB), in Valle Cannobina, oramai chiusa, il cui logo è stato riutilizzato nel cd come sincero omaggio.
Luogo anche di spaccio, intorno a cui ruotavano le illusioni di fuga (nel bene e nel male) della gioventù della Valle Cannobina e della Valle Vigezzo, ma anche ponte di lancio verso le utopie dell’adolescenza, porta attraverso cui fuggire a un destino periferico, stimolo per decidersi poi a provare in una cantina imbracciando chitarra, basso, batteria, pure se si canta in italiano... 

 

 


La sostanza dei fatti
DON Rodriguez
voce e chitarra
Alberto V Bontà
basso Frova
batteria Bovo 
produzione, registrazione, missaggio Ivan Antonio Rossi
etichetta Dischi Soviet Studio
distribuzione Audioglobe
anno 2018
tracklist: 1. Agosto; 2. Astronauti; 3. Giorni, settimane; 4. Illogico; 5. La primavera del ‘93; 6. Leggero; 7. L’oblò dell’oblio; 8. Se tanto mi dà tanto; 9. Una giornata come tante (asfalto basso); 10. Vado a vivere in Brasile

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