“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Alessandro Toppi

La colpevole sparizione della signorina Y

La trama
È la vigilia di Natale e, nel "cantuccio di un Caffè per signore", s’incontrano due donne; una (la signorina Y) siede d’avanti a una bottiglia di birra semivuota e legge un giornale illustrato mentre l’altra (la signora X) – in “costume invernale” – porta infilato al braccio un cestino giapponese. La signorina Y e la signora X sono due attrici.
Tra loro inizia un dialogo che si rivela un monologo: “Ma perché non dici nulla? Da quando sono arrivata qui non hai aperto bocca. Hai lasciato parlare soltanto me. Seduta qui, con i tuoi occhi hai succhiato tutti i miei pensieri, come si sfila la seta da un bozzolo” dirà la signora X ad un punto di una trama in cui, gli eventi del passato, determinano improperi, accuse e nuove consapevolezze presenti.

Neapel, Naples, Napoli

Nel caso di Napoli, come in quello di Palermo,
viene prima la città e poi i suoi abitanti. Prima
lei, poi noi.
            
(da un colloquio avuto con Emma Dante)

 
Voi napoletani dite sempre “Napoli, Napoli, Napoli”.
              
(da un colloquio avuto con Pippo Delbono)

 


Occorrerebbero occhi stranieri per comprendere Il velo di Davide Iodice, per capire fino in fondo questo workshop diventato visione e apparso sul palco del Teatro San Ferdinando. Occorrerebbero occhi stranieri ed occorrerebbe non conoscere così bene – come invece conosco – gli odori che abitano le strade di Napoli, occorrerebbe non essere già abituati al sottofondo sonoro che mi accompagna a ogni passo: rumorosità mediterranea che rende le voci dei versi e che fa, dei versi, una continua cantilena sussultante. Occorrerebbe non essere abituato agli occhi degli altri, così prossimi e insistenti da accentuare la mia solitudine; occorrerebbe non essere abituato alla ruggine dei cancelli delle chiese, ai colori sciatti delle mura, alle vecchie finestre di legno scrostato da cui pendono lenzuola o panari e da cui vengono altre voci ancora, nuovi versi in aggiunta.

Il becchino di Shakespeare

"L'assenza degli estinti è identica
alla loro presenza di un tempo".
(John Berger)


Gli Amleto
Per Peter Brook Amleto non soffre di nevrastenia né di ossessioni: è un essere aperto, brillante, che veste bene, che legge tanto, che si interessa di filosofia e di religione, che ha senso dell’humour e una passione per una fanciulla delicata, diafana, leggera e che porta il nome di Ofelia. A questo ragazzo – simile a tutti i ragazzi – accade una sventura non provocata da lui stesso, in seguito alla quale s’accorge quale marciume sia la sua casa, quanto sia falsa sua madre e che necessità vi sia di fare pulizia, facendo giustizia.

Appunti su La Ballata dei Lenna

De La Ballata dei Lenna e del loro Cantare all’amore mi colpì – un anno fa – la caratterizzazione morale, figurale e gestuale dei personaggi, capaci d'essere emblemi e metafore, caricature e figure tuttavia veritiere; mi colpì l’uso dei fari e dei neon, impiegati come strumento di proiezione, sottolineatura visiva del dettato verbale o come mezzo per scavare il volto o parte del volto, realizzando così una continua mascherata carnale; mi colpì la natura ambivalente della trama, intenta ad accentuare il contrasto tra sorella e sorella e, contemporaneamente, a definire una delicatissima storia di attenzione e di affetti. Quella favola, dolce e cattiva ad un tempo, aveva anche limiti di scrittura, certi momenti di composizione che mi parvero troppo facili per ideazione, qualche superficialità momentanea nel fare scena coi luoghi comuni: mancanze riscattate dalla capacità di stare in palco per più di un’ora realizzando un’attenda gestione dello spazio (tra movimenti in sincrono, scene in ribalta e controscene sul fondo, partiture a due con il terzo attore/la terza attrice a fare da spettatore interno). Interessante mi sembrò anche la definizione dell’ambiente di recita: un perimetro rettangolare con delle scalette che servivano a dare la dimensione dell’anfratto interrato, della tana più che di una casa vera e propria.

La recita di Salvatore

Letizia nasce a Palermo, il sei gennaio del millenovecentosessantatré: il giorno di Santa Raffaella, che “ha inventato il Sacro Cuore di Gesù”. Quel sei gennaio fa caldo, sembra estate, si suda: “È il sei gennaio più caldissimo della storia di Palermo”. D’intorno i parenti e, tra i parenti, zia Rita, intelligente perché legge – a dispetto degli altri – e legge Grand Hotel e quando qualcuno ha un problema, un quesito, una questione seria e gravosa zia Rita apre Grand Hotel e, letta una frase a caso, la interpreta facendone consiglio, risposta o soluzione.

La società (teatrale)

Premessa
Il demone dell'Io, che si insinua tra Noi e le norme economiche dell'Occidente, il conflitto tra Etica ed Economia, tra le utopie e i bisogni, tra le necessità che appartengono all'anima e quelle indotte da un sistema sociale basato su domanda ed offerta calcolata solo e soltanto in denaro. Tutto ciò è stato scritto da chi ha già recensito La società. Tento, dunque, una lettura diversa e del tutto basata su alcune fortissime suggestioni che lo spettacolo mi ha donato.
Dopo una notte insonne, trascorsa a rivedere mentalmente la messinscena, a risentirne alcune battute, passata a rileggere gli appunti presi in platea e cercando e ricercando un’altra interpretazione possibile, La società per me continua ad essere – ora, a mattino inoltrato – uno spettacolo che parla del teatro: delle sue miserie e dei suoi conflitti, delle sue incertezze e del suo destino, della sua programmazione, delle sue prospettive, della sua propensione alla commerciabilità e del fallimento delle sue illusioni culturali. Continua – La società – a dirmi che questo locale che un nipote e i suoi amici si trovano a dirigere per volontà di uno zio, con aggiunta della badante rumena in “quota di minoranza”, rimanda a un palco con davanti una platea, magari a uno di quegli spazi medio-piccoli in cui l’arte di scena viene messa in pratica da trenta-quarantenni che hanno idee, coraggio e ostinazione ma sanno che idee, coraggio e ostinazione non bastano e che – presto o tardi – verrà il momento di fare i conti con il vuoto della cassa. 

L'oblio esemplare di un critico

(un articolo)
Giorgio Strehler – il divo, il mostro sacro, l’artista che è sempre negli sguardi della gente, al centro del fragore degli applausi e delle polemiche – è un uomo solo e non importa che il teatro sia un lavoro collettivo, che sia un incontro, che sia l’arte corale per eccellenza: egli rimane un uomo solo. “Vivevo nel sotterraneo del Piccolo” – racconta – “fra la platea, a dirigere le prove, e il sottopalco, a dormire a strappi, magari sul rotolo d’un tappeto da scena o sul coperchio d’una cesta per i costumi. Facevamo sette-otto spettacoli per stagione, con venticinque giorni di prova per spettacolo; dunque provavamo sempre, la mattina, il pomeriggio, la notte dopo la chiusura dell’ultimo sipario. Era una vita assurda, tagliata dal mondo, solo artificio, immaginazione e mestiere”.

Identità (superficiali)

" Chi sei tu?"
"E questo chi è?"
"Chi sei tu? Di cosa vivi?"
"Ehi tu, lassù, chi sei?"
"Sono io, mi ricordi?".
Il tossico pestato dai poliziotti e il bambino che interroga gli animali (uno scarabeo, un verme, un topo); un uomo che ha perso la propria carta d’identità e una donna che sta per essere uccisa dal marito; l’amico che racconta l’amico, interrogandosi su chi sia diventato, e Baliani che dice di Baliani. Ancora: un bambino ebreo e la sua fuga dalla storia di famiglia, in pieno nazismo; il giovane kamikaze, che si prepara specchiandosi, prima di ridursi in poltiglia; l’Io frantumato nei suoi molti; un rospo e una fanciulla, alle prese col bacio e con una trasformazione che non avviene.

Appunti sul Vanja di Sepe

Simili a figure pirandelliane che, trovato l’autore, ristagnano in palco in attesa di cominciare la recita, i personaggi dello Zio Vanja di Pierpaolo Sepe emergono lentamente, immersi in una fredda luce iniziale. Creature del pensiero, immaginazioni cechoviane diventate figure eterne, appaiono in un ambiente semivuoto, teatrale nella sua nudità: le mura dell’edificio del Mercadante, col sistema di ventilazione a vista, i grossi tubi d’alluminio, un estintore, la porta nera che dà sul retro del teatro e verso l’esterno (quando è aperta s’intuiscono scale in muratura, un’inferriata, il frammento di un palazzo). Guardano la platea, piuttosto che guardarsi, non muovendosi ancora: c’è chi riposa, chi attende in piedi e sul fondo, chi sta in ginocchio, chi su una seggiola: tutti in attesa di compiere il primo gesto.

La voce di voci di Chiara Guidi

Assisto, in due giorni, a Relazione sulla verità retrograda della voce e a Tifone: non c’è modo, altrimenti, per cercare di comprendere il lavoro che svolge Chiara Guidi. Essere spettatore solo dell’uno o dell’altro appuntamento, infatti, genera una mancanza che inficia la valutazione e determina una parzialità d’analisi irrecuperabile e questo perché la Relazione è, di fatto, la teorizzazione di un metodo mentre Tifone è la messa in pratica esemplificativa del metodo stesso. Insomma: siamo al cospetto della condivisione di una tecnica che viene chiarita così come viene chiarita agli studenti dell’università o ai partecipanti di un laboratorio (Relazione) e della quale (Tifone) si dà poi una dimostrazione applicata.

il Pickwick

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