“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Alessandro Toppi

Stando ai margini di un giardino di ciliegi

Nell'angolo destro anteriore c'è Bruna Di Virgilio, di chiaro vestita, col suo violoncello mentre – in quello opposto – si trova Mauro Lamantia: indossa un abito scuro, una camicia bianca, un cravattino nero. Sono lì e rappresentano – insieme – l'idea di partenza di Sicca, il fondamento del suo approccio al testo di Čechov, la certezza da cui deriva il suo lavoro: Il giardino dei ciliegi è una partitura di pensieri solitari, di fiati individuali; è una declamazione di sofferenze singole che si uniscono dando vita a una melodia complessiva, simile – per dirla con Ripellino – “a un valzer patetico”, “al pigolio emesso dall'armonica di un mendicante” o “agli accenti accasciati e depressi di un blues”.

L'agonia dei Lagonìa

Nato a cavallo di una tomba, è stato Samuel Beckett a dilatare il tempo dello spettacolo perché dilatasse il tempo di permanenza dei suoi personaggi: Vladimiro ed Estragone, Hamm e Clov, Winnie e Willie, Krapp e la sua voce registrata restano in scena fin quando è possibile restare in scena: per sopravvivere, fin quando è possibile sopravvivere. Non a caso afferma MacGrowan che “Beckett non si definirebbe né ottimista né pessimista; ciò che si sentirebbe di affermare è che la cosa più importante per l'umanità è sopravvivere”.

Il giocatore (perdente) di Valery Fokin

(note iniziali su scena, attori e drammaturgia)
In Liturgia zero Valery Fokin impone a centro palco una grande roulette con pilastro centrale ottagonale, contornato da dieci poltrone-caselle di ferro, sul retro la distinzione per numero, nelle quali fa sedere i personaggi dello spettacolo; buona la scelta quindi – per dirla con Giovanna Spendel, che de Il giocatore di Dostoeskij fu attenta studiosa – di “imperniare l'intero palcoscenico con la roulette” poiché “nel corso della narrazione” – continua la Spendel – “la stessa cittadina nella quale è ambientato il romanzo si trasforma ai nostri occhi in una grande roulette su cui girano le palline, mosse da una forza d'inerzia più inconscia che consapevole”.

Branciaroli o la disillusione di un attore

Per alcuni aspetti l'Enrico IV di Pirandello non è che il continuo (differente) dell'Amleto di Shakesperare.

Il Pirandello Times di Cappuccio

Basta che lei si mette a gridare in faccia
a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti
la prendono per pazza.
(Luigi Pirandello, Il berretto a sonagli)

 


Spaccanapoli Times non è drammaturgia nuova ma scrittura vecchia ed il suo tempo di appartenenza non è il 2015 ma il primo trentennio del Novecento. Questo perché il testo di Ruggero Cappuccio è un manifesto ricalco del teatro pirandelliano: nei temi, nella struttura dialogica, nella funzione assegnata ai personaggi e nelle relazioni che questi personaggi hanno tra di loro.

Il martirologio (accennato) di Tarkovskij

(premessa)
Salvatore Cantalupo allestisce negli angoli posteriori del palco di Sala Assoli due accenni d'interno – una scrivania con sopra una quindicina di libri divisi in due pile; un letto, con lenzuola, coperta, cuscino ed altri libri per terra, a portata di mano per la presunta lettura diurna o notturna. Nel mezzo traccia un solco materiale che ha funzione ideale, facendo cadere da un sacchetto della sabbia: argine, confine, soglia di separazione tra stanza e stanza, tra momento e momento ma – provo a comprendere – anche rimando alle parole: granelli che scorrono, si posano, costituendo la terra su cui l'uomo segna la sua presenza. Funzione metaforica ha pure il faro posteriore e centrale, rosso: divide la citazione dalla citazione seguente, un giorno da un giorno successivo.

Breve nota a partire dal volto di Franco Scaldati

La bellezza è degli sconfitti. Il futuro non è dei vincitori,
è di chi ha la capacità di vivere. E chi ha la capacità di
vivere, di essere totalmente se stesso, è inevitabilmente
sconfitto. Sono i vincitori che non esisteranno più. Questo
è il grande splendore dell'esistenza.
(Franco Scaldati)


In tempi disattenti e mediocri, l'individuo ha pur sempre

l'impressione di rimaner solo con le sue idee pure, e di non
sapere come farle valere. Ma, malgrado la resistenza che
ad esse oppone il linguaggio comune, e malgrado l'eclettismo
cui esso costringe, bisogna pur fidare che le idee, se ci sono,
si fanno sentire, e hanno una loro forza contagiosa.
(Nicola Chiaromonte)

 

Nel finale de Gli uomini di questa città io non li conosco – il docu-film con con cui Maresco fa biografia di Franco Scaldati – il drammaturgo di Palermo appare gonfio, stanco, spossato, le ciglia pesanti, gli occhi più chiusi; piegato il sorriso, meno tonitruante la voce, le mani adagiate al corpo, come a non volerle più muovere: per fare cosa oramai?

L'Amleto di Latella, il pianto e le lacrime di Napoli

La sceneggiata definisce l'elaborazione di un conflitto
tra l'individuo e il suo gruppo di riferimento.
(Marino Niola)

C'è del marcio in Danimarca.
(William Shakespeare)

Ricordarmi di te? Sì, povero spettro, finché la memoria
conserverà un posto in questo globo sconvolto.
(William Shakespeare)

Appiccia 'sta jurnata 'i tutt' 'a memoria ra' vita mia.
(Linda Dalisi, Antonio Latella)


Sono tre giorni – e tre notti – che rifletto su C'è del pianto in queste lacrime e sono tre giorni – e tre notti – che leggo e rileggo l'Amleto di William Shakespeare.

Cinque giorni con Danio Manfredini

Ad Alice, Andrea, Beniamino, Carmen, Diego,
Francesca, Irene, Maria Chiara, Maura, Piera,
Rachele, Ramona, Silvia, Stefano, Susi e Teresa,
attori di spettacoli apparsi di pomeriggio e svaniti
presto, con l'incedere della sera.

 
C'è un Danio Manfredini segreto, che non è mai apparso al pubblico, che nessun critico ha mai recensito. È un Danio Manfredini che fa della sua vocazione non il titolo e la materia di un'opera ma la ragione della sua stessa presenza, del suo lavoro quotidiano, del suo contatto con gli altri. Il Danio Manfredini segreto – segreto anche alla ormai codificata invisibilità con cui ogni volta la critica lo racconta – appare nelle sale teatrali quando non c'è spettacolo, di mattina invece che di sera, al cospetto non di spettatori ma di attori, formati e in formazione. Indossa una tuta, dice “buongiorno” prima di cominciare a discutere con i suoi allievi, lavora su drammaturgie altrui questo Danio Manfredini.

Vincenzo Albano o l'ostinata dedizione al teatro

In questa intervista ci diamo del “tu” ma, in realtà, io non conosco Vincenzo Albano. Non so quanti anni abbia, dove abiti precisamente, quale sia la sua formazione; non so quale sia il teatro che ama, anche se posso intuirlo, né conosco la teatralità che invece non lo convince o che non gli interessa. Vincenzo lo incontro nei foyer dei teatri napoletani – di solito prima di qualche messinscena proveniente da Sud: Puglia, Calabria, Sicilia – e detengo con lui un rapporto strettamente professionale, quella “giusta distanza” che mi fa recensore di alcune delle opere che ha ospitato e proposto a Salerno. Una volta ho preso – in sua compagnia – un caffè, in vista di un progetto di cui sono stato spettatore. Qualche chiacchiera in attesa dell'inizio di uno spettacolo, un saluto – spesso sbrigativo – subito dopo, quando ho l'esigenza di scappare dal teatro appena visto, portandomene dubbi, suggestioni, gesti e parole.

il Pickwick

Sostieni


Facebook