“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 19 June 2013 02:00

Qui e Altrove

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Il Teatro tende, in quanto Teatro, a realizzare qui ciò che è altrove. Arte il cui tempo è coniugato al presente, trascina dagli stretti anfratti del tempo tutto l’armamentario in ribalta: una piazza d’epoca greca, un carro barocco e spagnolo; un castello danese ma d’invenzione vittoriana, l’albero nudo ed unico di un deserto che appartiene al futuro. L’altrove è altrove, già trascorso o non ancora mai nato, ma questo altrove diventa il qui del Teatro, l’immediato evidente, il veduto e vissuto calcolabile col tempo e col battito dei nostri respiri. Il prima e il dopo diventano “adesso”, l’allora e il sarà si travestono in “ora”, quel ch’è successo e quello che forse accadrà avviene in questo luogo, in questo momento. Avviene qui.

Il Teatro dei sensi, invece, sembra – a chi scrive – invertire il suo gioco. Noi siamo qui ma ciò che va in scena (su questa scena che coincide col tempo e col battito dei nostri respiri) è l’altrove. Il suo tempo è il presente coniugato al passato, il suo spazio non è questo spazio reale ma lo spazio che è accanto, invisibile ma raggiungibile.
“Ecco” diventa “Una volta”, “Guarda” muta in “Ricorda”; “Comprendi” significa “Immagina”, “Rifletti” sussurra “Rivivi”.
Sia chiaro: il qui del Teatro è sempre qui (il legno spesso d’assito, i drappi di tela ruvida, il sipario da traversare o da aprire, certi accenni apparenti tra le quinte di lato) ma, piuttosto che fungere da punto materiale d’approdo (questa maschera allude a quel volto; questo costume allude a quell’abito; questa finestra finta allude a quella finestra vera, questo quadro a quel quadro), assume il valore di un materiale punto di partenza (questo odore deve richiamare altri odori; questa voce richiama un’altra voce; questa piazza evoca un’altra piazza; questo cibo somiglia ad un altro cibo) inevitabilmente diverso per ognuno degli spettatori (questo odore richiama un mio odore; questa voce richiama una voce che io ho ascoltato; questa piazza evoca la piazza in cui sono passato; questo cibo somiglia al cibo che ho assaggiato ieri, due anni fa, quando ero bambino).
Invertendo il rapporto tra il qui e l’altrove la pratica del Teatro dei sensi inevitabilmente inverte anche la pratica della recensione: chi ne scrive – piuttosto che usare l’inchiostro per rendere ciò che accade sul palco (com’è giusto e opportuno) – di solito cede ai propri risvegli, mettendo su carta un brulichio d’immagini proprie.
Dunque, per quanto il tentativo di questa recensione sia di tenere ferma la mano alla pagina badando alla pratica scenica (il qui), appariranno – come appaiono gli scorci dopo il cammino – le emozioni e le rimembranze vedute (l’altrove).
È questo l’effetto di RuSuD , il cui titolo di minuscole tra le maiuscole è un impasto attaccato di due parole che – in siciliano –  significano “del Sud”. Per questo, ad essere evocata è una Trinacria che s’allarga fino a comprendere le dita calabresi dello stivale, il tacco pugliese, la carne-stinco-polpaccio di Campania e Basilicata. Il luogo diventa i luoghi, la terra diventa le terre, il dialetto diventa i dialetti perché ognuno riconosca il proprio luogo, la propria terra, il proprio dialetto.
Così – piedi scalzati e pronti ad andare – si procede tra fitte coltri di buio, cinti da lunghi fili di spago o cotone: attaccate a tali fili sequenze incollate di foto più o meno sbiadite, più o meno ingiallite, più o meno consunte. “Questa torta che questo bambino che non sono io sta mangiando somiglia alla torta che ho mangiato quando ho compiuto dieci anni” mi viene da pensare. “Queste tende, che non sono le tende dietro cui mi nascondevo giocando con cugini e cugine, somigliano tanto alle tende del salotto della mia prima casa, dietro cui mi nascondevo giocando con cugini e cugine”. “Questo non è mio nonno ma potrebbe esserlo”; “Questa non è mia madre ma la sua veste…”; “Questa non è mia sorella, ma è identica a mia sorella”. La torta, le tende, il nonno, la veste di una madre, il volto di una sorella e le onde del mare d’estate, i fiori di un matrimonio lontano, le gocce di un battesimo, un abbraccio in un giorno accaldato e il giardino di fiori selvatici sono i miei quanto sono i vostri, sono i nostri quanto sono i loro: il qui della pratica scenica genera l’altrove e l’altrove genera – ad un tempo – rimandi personali attraverso dettagli che – in realtà – sono in comune. “Anche tu hai giocato con questo gioco?” mi viene da chiedere alla ragazza che mi trovo di fianco e di cui non conoscerò mai il nome: mi astengo dal farlo davvero.
Questo processo di ricostruzione memoriale attraverso segni che sono rimandi e rimandi che sono ricordi (il segno è il punto di partenza in comune, il rimando è il tragitto da percorrere, il ricordo è il punto personale cui si arriva) si replica poi analogo, di volta in volta.
Così RuSuD diventa una complessa partitura geografica in cui vista, udito, olfatto, tatto e gusto (ma verrebbe da aggiungere anche propriocezione, termopercezione ed equilibrio) vengono ripetutamente invitati o costretti ad uno stimolo collettivo perché produca sensazioni personali. In piazza sfioro col gomito il gomito di chi mi sta passando accanto ma in direzione contraria: il mio gomito è il mio gomito, l’altro gomito non appartiene a chi appartiene ma diventa il gomito che ho sfiorato due settimane fa, uscendo velocemente da una bottega. Quando vengo bendato e indotto al mercato tocco gli stessi legumi sbucciati, gli stessi ceci piccoli e secchi, le stesse spezie che toccano gli altri; gli stessi odori mi sono posti ad un millimetro dalle labbra e dal naso; la stessa frase che mi è detta all’orecchio (“Oggi ho fatto cinquanta euro”) viene detta ad un altro orecchio (ecco il qui del Teatro, composto dai segni comuni in partenza) ma ciò che ne deriva – attraverso una rielaborazione ora immediata ora più lenta e più calma – è la perlustrazione di un mercato che ho perso con il passare degli anni: un mercato del Vomero, quartiere di Napoli, nel quale grosse voci annunciavano le presunte freschezze dell’orto, la fragranza del pane, il basso costo del pesce (ecco l’altrove, che corrisponde al proprio approdo, al proprio arrivo).
Le scaglie di sapone giallo scheggiato portano all’odore d’intenso pulito che sentivo quando, un’altra pietra di quello stesso sapone, passava e ripassava i miei abiti, prima che fossero stesi ad asciugare sui fili. La vicenda ascoltata davanti a uno scorcio di strada (non si vedono porte, case, marciapiedi, passanti eppure porte, case, marciapiedi, passanti sono evocazione sensibile data da due interpreti sedute a sparlare) non mi colpisce per quanto essa dice (vicende di uomini e donne dette da donne senza uomini) ma perché troppo somiglia a certe chiacchiere chiacchierate da vetuste chiacchierone che stavano – per ore – su sedie di paglia e di legno a chiacchierare e che vedevo ammuffire, di giorno in giorno, dal verde balcone di casa. Il funerale, imbastito nel buio, è l’ultimo funerale cui sono stato; il pranzo che segue il funerale (e cui tutti siamo invitati, sporcando le dita di salumi, formaggi, frutta fresca o matura; sporcando le labbra di vino, di zucchero, di confettura o di pane; sporcando gli occhi di verdure, di ortaggi, di altri cibi privi d’assaggio) fa riapparire la grande tavola tonda di legno su cui – anziane vicine di casa – posarono il brodo (per gli adulti) e la pasta con il pomodoro (per i bambini) nel tardo pomeriggio in cui mio nonno mancò.
Vivo qui ma visito – a momenti – l’altrove. Chi mi è accanto vive lo stesso qui  che vivo io  ma – a momenti – visita un altrove diverso dal mio.
Finiamo per tornare all’esterno, a spettacolo terminato, ed ognuno è di nuovo diretto da dove è venuto. Reciprocamente sconosciuti prima, torniamo reciprocamente sconosciuti poi. Per un’ora – per l’ora al presente del qui del Teatro – abbiamo visitato il nostro altrove passato.
Me ne resta ciò che ho appena scritto, con queste mani che odorano ancora di rosmarino e di pepe.

 

 

 

 

Fringe E45
RuSuD
di e con Simona Argentieri, Piero La Rocca, Maurizio Maiorana, Daniela Mangiacavallo, Giuseppe Provinzano
drammaturgia Giuseppe Provinzano
movimenti
Simona Argentieri
musiche dal vivo
Piero La Rocca
scene
Roberto D'Alia
luci
Gabriele Gugliara
produzione
Babel Crew, Officina Sensi
in coproduzione con Teatro Garibaldi Aperto
durata 1h
Napoli, Galleria Toledo, 16 giugno 2013
in scena 16 e 17 giugno 2013

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