“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 18 September 2020 00:00

Venire da ieri, parlare di oggi, guardare a domani

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Ci siamo interrogati su festival e teatri, sullo straniamento dell’essere di nuovo in platea alla conclusione di un periodo come non ne avevamo mai vissuti prima, fatto di sospensione della attività abituali, flusso di vita interrotto e distante dal canone usuale.

E, una volta che, con tutte le precauzioni del caso, ottemperando a tutti i protocolli necessari, abbiamo ripreso a ritrovarci in platea, da quel palco su cui si riaccendevano le luci ci aspettavamo ci arrivasse qualcosa che rispondesse a istanze interiori animate da un nuovo senso dell’urgenza. Non che si chiedessero risposte ultime e definitive, ma era chiaro, sin dalla prima seduta in un posto fronte palco, che gli stimoli di cui eravamo desiderosi (bisognosi) avrebbero dovuto necessariamente tenere conto di quel recente passato che ancora ha risonanza fragorosa nel presente.
Ebbene. In questo Napoli Teatro Festival, nella sua sessione che s’è ostinata ad andare in scena a luglio di questo annus horribilis, tra gli spettacoli che si sono confrontati con un nuovo modo di ragionare sul presente, ce ne è stato uno in particolare che – vuoi per fortunata intuizione pregressa, vuoi per intrinseca vocazione a ragionare su un tempo sospeso tra passato e presente – ha avuto il pregio di aderire al tempo contingente come un abito calzante a pennello, lasciandosi dietro una scia emotiva e un grumo di senso in grado di instillare una riflessione diacronica.
Napule ’70 di Chille de la balanza è la riproposizione di un viaggio raccontato in prima persona, che a prima vista potrebbe avere i crismi dell’autoreferenzialità, ma che in realtà sta semplicemente offrendo una visione panoramica in soggettiva, mettendo al servizio e offrendo in visione allo spettatore l’excursus di un’esperienza di vita e di scena che è parabola che dal particolare va all’universale.
Uno spettacolo che ha le sue radici nel passato, nella storia di una compagnia, uno spettacolo che si cala nel presente; passato, presente e visione di futuro quel che ne vien fuori in compendio: questo è Napule ’70; messinscena che ibrida il proprio linguaggio, omaggiando la tradizione di provenienza, ripercorrendo le origini napoletane di una compagnia, evocandone gli inizi, riproponendo il proprio rapporto con la tradizione e con la sua evoluzione, quel concetto che conduce Claudio Ascoli – dopo aver doverosamente celebrato le ascendenze teatrali familiari, dal nonno Peppino al padre Antonio – a intridere di carica rivoluzionaria il proprio Pulcinella giovanile. È un mondo in fermento quello degli anni ’70; sicché, mentre tradizione e sua rielaborazione prendono forma in scena nella trasfigurazione sincopata della maschera tipica e nell’agire delle guarattelle di Sissi Abbondanza, sullo sfondo passano immagini in video che ricordano la temperie culturale di quegli anni in cui – per Chille, ma non solo – tutto è cominciato. E tutto comincia – come spesso accade – in una fase di crisi: Napoli nel 1973 conosce l’epidemia di colera, la “còzzeca” ne fu ritenuta la colpevole untrice; la crisi e la speranza, la paura e la rinascita: le immagini del comizio di Enrico Berlinguer a Napoli nel 1976, davanti a una folla oceanica assiepata alla Mostra d’Oltremare sono il segno testimoniale di un’utopia mai come allora sentita possibile, al culmine di anni difficili. Eppure quella è stata un’utopia che ha lasciato dietro di sé un sogno infranto, o quantomeno non realizzato; ed è (anche) su questo vulnus, su questo passaggio inconcluso che s’appuntano le domande che la voce fuori campo di Matteo Brighenti pone a Claudio Ascoli, il quale non si sottrae nel passare in rassegna memoria e presente, prima di rivestire ancora i panni di Pulcinella, per poi tornare a svelarsi in una sorta di confessione umana e artistica, in cui racconta la sua Napoli da esportazione, quella che ha visto Chille trasferirsi in Toscana e stabilirsi nella folle utopia (un’altra utopia, un’altra possibilità) di San Salvi, ex città manicomio in cui la compagnia ha rigenerato nuove possibilità di senso.
Quanto accaduto negli ultimi mesi ha ribaltato la percezione della società, di ogni anfratto di vita e ci ha lasciato sul tappeto interrogativi irrisolti su cosa fare e su come andare avanti. Altra crisi, come fu il colera nel ’73, oggi è il Coronavirus che tiene in scacco le nostre ipotesi di futuro, prossimo e remoto. Oggi come allora, siamo nella fase delle domande, degli interrogativi insoluti, a cui l’arte prova se non a dare risposta, per lo meno ad assegnare un senso, o più sensi, come dice lo stesso Ascoli. Quindi che fare? “Attendere… per ritornare come prima? No. Bisogna subito immaginare, inventare una Vita e un Teatro capaci di rigenerare l’incontro, e nella relazione sensuale corpo a corpo, anche a distanza!, un incontro che tolga il respiro, come nell’innamoramento. Questo è il Teatro del nostro tempo!”; è un modo lucido e sognatore di esercitare la speranza, di coltivare ancora, in forma ostinata, un desiderio d’utopia, con Napoli sullo sfondo, passato ancestrale da cui si proviene, porto accogliente a cui oggi si fa ritorno. E il teatro come forma d’espressione a cui affidare la costruzione di una nuova, speranzosa utopia di rinascita.
Annusare il tempo, ascoltarne la voce sottile e a suo modo oracolare per elaborare risposta da artista, da uomo di scena, una missione a cui Chille non si sottrae, offrendoci, nella discontinuità di una spettacolo volutamente e necessariamente parcellizzato, un tentativo legittimo e degno di elaborare una visione. Che questo tempo, dopo averlo annusato, provi a interpretarlo. Partendo da Napoli, andandone via, facendovi ritorno, assumendo l’idea di viaggio come una possibile chiave metaforica d’approccio per muovere passi nuovi in direzione domani, conservando l’idea intatta di poter ancora coltivare utopie ad onta delle crisi.
Ed è per tutte queste ragioni che dalla visione di Napule ’70 si viene via con la sensazione di aver assistito a un viaggio di ritorno verso un’Itaca chiamata Napoli, l’approdo di un viaggio cominciato nel passato, calato nel presente, proiettato nel futuro.





Napoli Teatro Festival Italia
Napule ‘70
di e con Claudio Ascoli
e con la partecipazione di Sissi Abbondanza
voci Antonia Cerullo, Bartolo Incoronato, Sissi Abbondanza, Matteo Pecorini
musiche Dario Ascoli
sonorizzazione Alessio Rinaldi
scene e costumi Sissi Abbondanza, Paolo Lauri
disegno luci Renato Esposito
video Dario Trovato
suoni e video mapping Matteo Pecorini
elaborazione musiche, suoni, e  voci Gabriele Ramazzotti
grafica Cristina Giaquinta
foto di scena Salvatore Pastore
guarattelle Sissi Abbondanza
costume Pulcinella Vincenzo Canzanella
maschera Pulcinella Antonio Ascoli
le “domande” sono di Matteo Brighenti
produzione Chille de la balanza
paese Italia
lingua italiano, napoletano
durata 1h 10’
Napoli, Real Bosco di Capodimonte – Fagianeria, 14 luglio 2020
in scena 14 luglio 2020 (data unica)

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