“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 06 September 2021 00:00

Del teatrar mangiando: di fili, filoni, sfilacci

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Anghiari è borgo che s’inerpica arroccato nel cuore della Valtiberina. È uno di quei luoghi in cui il passato e la storia traspirano nel presente, trasmettendo a chi ci arriva e ne percorre le viuzze tutta l’atmosfera dei tempi che l’hanno attraversato e che ce l’hanno lasciato conservato con fattezze che sono in buona parte quelle di un tempo, senza il vituperio invasivo di un presente oltraggioso e dimentico.

Quando ci arrivi, dalla strada proveniente da Arezzo, inizi a immergerti nel borgo respirandone boccate di storia; la prima suggestione che ti prende è quando disperdi lo sguardo in quell’orizzonte tagliato longitudinalmente a metà dalla “Croce”, la strada lunga e diritta che divide in due la valle, portando direttamente e Sansepolcro dopo otto chilometri di cammino.
Anghiari è il luogo di una celebre battaglia combattuta nel 1440 tra le truppe viscontee e la Repubblica di Firenze (appoggiata da Veneziani e Pontifici), della quale Leonardo da Vinci dipinse un affresco per il Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze, dovendola celebrare, dipinto andato poi perduto.
Ed ospita, Anghiari, in tempi a noi più vicini, da un venticinquennio, un evento sui generis come Tovaglia a Quadri, in cui il teatro trova inusuale connubio con la buona tavola. Tradizionalmente allestito nel cuore del borgo, in quella sua parte detta Poggiolino, uno spiazzo su cui si dispongono le tavolate a surrogar platea, quest’anno la rappresentazione drammaturgica (in quattro portate) ha trovato asilo nel Castello di Sorci, appena fuori dall’abitato. Antico fortilizio che lega la sua fama in particolar modo alla figura di Baldaccio d’Anghiari, focoso capitano di ventura del ‘400, il piccolo castello è custode di storie e leggende – come quella legata allo stesso Baldaccio e al suo fantasma che pare si aggiri ancora rumorosamente per le stanze dell’edificio – oltre che di aneddoti vari: è il luogo in cui Massimo Troisi e Roberto Benigni soggiornarono per mesi lavorando alla sceneggiatura di Non ci resta che piangere ed è anche uno dei luoghi dell’anima di Alberto Burri, che ebbe in Primetto Barelli, cuoco per passione e custode del castello, un amico fidato a cui commissionare il rogo d’ogni sua opera rimasta non terminata. Storie, vicende e leggende che confluiranno evocate nella drammaturgia scritta da Andrea Merendelli e Paolo Pennacchini, fungendo così da ricetto per il coagulo di una idea di comunità. E comunità sarà il filo conduttore – parola ricorrente, filo, sin dal titolo della drammaturgia – lungo il quale si dipanerà la storia servita attorno a tavole imbandite, da gustare tra una pietanza e l’altra (e viceversa).
Perché quest’edizione 2021 di Tovaglia a Quadri tiene necessariamente conto di quanto è capitato nel mondo negli ultimi due anni, riverberandosi a tutt’oggi nel presente; e in particolar modo lo fa interpretando come focus preciso l’importanza di (ri)raccogliere intorno a sé la propria comunità, allargata certo anche agli ospiti “foestieri”, ma nevralgicamente concentrata sul recupero del senso dello stare in un luogo, di viverlo, di farlo ritornare all’essenzialità delle proprie abitudini e caratteristiche peculiari.
E il fatto di ritrovarsi in un luogo circoscritto, in una fase pandemica (o post-pandemica, ma lo diciamo sottovoce, lo scriveremmo in caratteri ancor più minuscoli per paura della smentita del futuro), porta alla mente antecedenti illustri di “ritiri” in quarantene più o meno lunghe, su tutti il Decamerone boccaccesco. E infatti, i protagonisti di Filocrazia sono degli “sfollati”, gente che ha dovuto abbandonare il proprio luogo d’origine e la propria attività abituale per riparare in un contesto protetto, perdendo così, temporaneamente, il filo della propria esistenza.
Sono sfollati come potevano esserlo coloro che scappavano dai luoghi martoriati dalla guerra nel secolo scorso, o come possono esserlo i profughi del nostro tempo, che si arricchisce giorno per giorno di nuove emergenze fuggiasche. E profughi sloggiati dalle nostre vite lo siamo stati un po’ tutti, in quest’ultimo lungo periodo che ha ribaltato le nostre esistenze quotidiane, sovvertito la prassi delle nostre abituali occupazioni – nella migliore delle ipotesi confinandole in una dimensione ritirata e domestica – sicché ci possiamo riconoscere a spanne un po’ tutti in quella prolusione iniziale: “La guerra è finita... Si può tornare alle case, al lavoro, alle fabbriche, ai campi del grano e del tabacco...”,  perché di fatto proveniamo da quella che, se non è stata una guerra (sebbene da più parti qualche commentatore si sia lanciato in tale similitudine), è stato comunque un evento catastrofico ed epocale che le nostre vite le ha segnate alla stregua di come avrebbe potuto fare una guerra.
Quindi, nel cortile del Castello di Sorci, tra lunghi  deschi apparecchiati, si dipana una messinscena che attraversa lo spiazzo nella sua interezza, estendendosi al piano nobile e a quello superiore ancora del corpo dell’edificio, ospitandone i protagonisti affacciati alle relative fnestre, e incentrandosi sulla necessità di riprendere il filo di quanto interrotto, di discorsi, di storie, di attività rimaste sospese e significativamente rappresentate in un microcosmo che è specchio sociale, spaccato fedele di una comunità, che è quella anghiarese, certo, ma che potrebbe essere tranquillamente sovrapponibile e intercambiabile con quella di qualunque altro contesto alle prese, mutatis mutandis, con una trasformazione indotta, con una crisi inaspettata e col desiderio di superarla lasciandosi il peggio alle spalle.
Così, sotto la guida di una Fattoressa che orchestra le attività, ciascun personaggio svolge un ruolo emblematico e rappresentativo dei membri e delle funzioni di un consesso sociale, di una piccola comunità locale, nella fattispecie temporaneamente trasferita (“sfollata”) in una residenza coatta fuori città: c’è il tipografo legatore, il giovane scapestrato, il maître del ristorante, il vecchio avventore di bar ormai chiusi, il contadino ruspante dal nome che ne evoca tempra virile (“Chetoro”), le donne in carriera dalla carriera interrotta, la donna sola che aspetta il ritorno di un amore vagheggiato che non tornerà mai (e che forse non c’è mai stato), la studentessa antagonista, il giovane filosofo del paese e ovviamente il parroco, un po’ allampanato con la perpetua che lo riconduce all’ordine dopo i suoi strafalcioni; una bambina che non parla rappresenta la muta speranza di un futuro migliore, futuro migliore che è messo a repentaglio dalle figure caricaturali dei due candidati alla carica di sindaco, che portano avanti una campagna elettorale vacua ed effimera, di fatto speculare (e a specchio inverso sono infatti abbigliati, col bianco e il nero dei rispettivi abiti invertiti), ben rappresentando il tritume  di certa politica nostrale, bramosa di consenso e avara di senso, priva d’acume e desiderosa solo di occupare posizioni di privilegio. Ed è una politica miope che si riverbera anche nelle scelte culturali, rimarcate nella messinscena facendo riferimento a un bando regionale (vero, non immaginario), che penalizza di fatto il teatro a vantaggio delle rievocazioni storiche.
Il tutto costruito con godibile clima da commedia che si consuma tra i tavoli, mentre chi desina passa da un crostino toscano ai bringoli al sugo, dallo stracotto di vitello agli immancabili cantuccini; e s’integra, la drammaturgia, con quanto avviene ai tavoli, scandendo la tempistica della scena in base alle portate, il cui servizio a tavola segna il passaggio da un quadro all’altro, da una scena alla successiva.
La drammaturgia ha coerenza narrativa, è unitaria e ritmicamente ben calibrata, al netto di qualche ingenuità; si affida a un apparato simbolico immediato, intuitivo, messo al servizio di una storia concepita e costruita come un linearissimo apologo, che dirà anche cose in fin dei conti ovvie, ma dalle quali forse ci si è finiti per allontanare troppo in quel nostro presente fatto di superficialità e svuotamento progressivo del valore dell’etica a tutti i livelli, primieramente civico e sociale.
Sicuramente le pagine del libro tutte bianche perché “il futuro è ancora tutto da scrivere” e l’epilogo retoricamente conciliante sono sbavature che peccano di certo qual semplicismo, così come – ma è venialità su cui si può soprassedere e che soprattutto il pubblico dimostra di gradire – qualche motteggio umoristico appare “ruspante” in esubero, ma comunque all’insegna di una tenera genuinità che induce a mostrare bonaria indulgenza. Ma quel che conta primieramente è che il messaggio così concepito arrivi a destinazione e quella comunità che attorno ai tavolacci si è ritrovata a essere composta da commensali e spettatori allo stesso tempo, finisce per ritrovarsi e riconoscersi in quella comunità evocata simbolicamente nella messinscena. Fors’anche perché gli interpreti stessi sono abitanti effettivi del luogo e non attori di professione (fatta eccezione per Monica Bauco, la Fattoressa), tant’è che risultano credibili, perché di fatto interpretano, se non se stessi, quantomeno il sentimento di un luogo che gli appartiene, ricordandoci che “le relazioni umane non le fa solo il ‘sangue’, ma la verità”.
Sicché dal desco non ci si alza scontenti, ma satolli e, tutto sommato, soddisfatti di quanto visto oltre che di quanto ingurgitato.





Tovaglia a Quadri
Filocrazia
drammaturgia Andrea Merendelli, Paolo Pennacchini
regia Andrea Merendelli
con Monica Bauco, Federica Botta, Stefania Bolletti, Paola Scolari, Sonia Cherici, Maris Zanchi, Fabrizio Mariotti, Sergio Fiorini, Mario Guiducci, Cristian Materazzi, Rossano Ghignoni, Pierluigi Domini, Andrea Finzi, Gabriele Meoni, Gino Quieti, Miranda Neri
assistenza tecnica Stefan Schweitzer
oggetti di scena e costumi Emanuela Vitellozzi, Svetlana Mikova
appunti musicali ricomposti da Mario Guiducci
lingua italiano, dialetto toscano
durata 1h 30’
Anghiari (AR), Castello di Sorci, 17 agosto 2021
in scena dal 10 al 19 agosto 2021

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