“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 28 September 2020 00:00

Biennale Teatro 2020: chiaroscuri veneziani

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Si è concluso in questi giorni il quarto atto della Biennale Teatro sotto la direzione di Antonio Latella. Dopo aver posto l’accento sulla regia femminile (primo atto), sulla questione: attore o performer? (secondo atto), infine sulla drammaturgia (atto terzo), Latella quest’anno ha voluto dedicare tutta la sua attenzione al teatro italiano, costruendo, e usiamo le sue parole, una sorta di “Padiglione Italia”.

Il titolo di questa edizione del Festival era Nascondi(no) a evocare due aspetti: da una parte il nascondimento di tanto teatro italiano, soprattutto nei confronti dell’estero (ma anche in casa propria, aggiungerei), dall’altro una certa idea di censura, direi piuttosto cecità selettiva, in cui gli occhi degli operatori vedono solo un certo tipo di scena. Antonio Latella del nascondino evoca perciò l’aspetto giocoso del direttore che “fa la conta” prima di andare alla cerca degli artisti nascosti.
Pensiero lodevole ma il direttore, come chiunque si trovi nella sua posizione, vede ciò che vuole vedere, osserva lo spicchio di realtà che in fondo, consapevolmente o meno, predilige. È la responsabilità della direzione: scegliere una o più idee di teatro che si reputa essere di particolare interesse nel momento storico in cui si vive, o che pare preannuncino tempi e modalità innovative. E così ha fatto Antonio Latella. Ha scelto, e non certo i “nascosti”, non i “sommersi” sebbene non certo i “salvati”. Anzi in alcuni casi possiamo tranquillamente parlare di sovraesposizione e non certo di nascondimento (per esempio il caso di Leonardo Lidi, Babilonia Teatri, Liv Ferracchiati e Fabiana Iacozzilli che in questi ultimi anni sono stati decisamente e meritatamente sotto i riflettori). Se si voleva veramente cercare il nascosto, secondo l’opinione di chi scrive, si doveva guardare altrove, ma si parlava di scelte e queste di certo sono state compiute con coscienza, serietà e trasparenza.
Altro luogo in cui si denota da parte del direttore una scelta precisa è laddove ha chiesto ai partecipanti di creare i loro lavori senza pensare al contesto distributivo. Un ricercare dunque una libertà creativa, spesso negata dai paletti inseriti nei bandi di finanziamento pubblici e privati e dal contesto stesso che tende a chiudere la visione entro confini ben precisi con parametri che si pensa accontentino lo spettatore o l’abbonato, molto più spesso gli stessi operatori. Quella che potremmo chiamare censura di sistema, per tornare al tema principale. Dietro questa libertà vi è però un pericolo insidioso: creare un’opera svincolata dal contesto produttivo e distributivo può portare a molti nascondimenti proprio perché il mercato attuale, in modalità iperproduttiva da anni, non è in grado di assorbire tutte le nuove creazioni. Questa libertà rischia dunque di alimentare proprio quel sistema di “censura” che si vuole evitare. E il rischio è forte. Alcuni dei lavori presentati dovranno aspettare mesi prima di una ripresa e quindi l’esordio veneziano rischia di essere un isolato fuoco d’artificio. C’è da chiedersi dunque se veramente ci si possa permettere di ignorare le leggi vigenti di un sistema produttivo ipercapitalistico che non si intende mettere in discussione, restandone all’interno. Sembra piuttosto un episodio di voluta cecità, un volersi dimenticare per un momento dell’esistenza di un regime costrittivo e limitante. I giovani autori però se lo possono veramente permettere? Non sarebbe invece il caso di mettere in questione tale regime chiedendone a gran voce la revisione e mettendo in cantiere delle proposte alternative?
La grande vitalità del teatro italiano più volte evocata da Antonio Latella sembra invece qualcosa di simile gli spasmi di un malato che, come diceva Dante “non può trovar posa in su le piume, / ma con dar volta suo dolore scherma”. Questi mesi hanno fatto emergere una volta di più la terribile fragilità e precarietà del teatro italiano, instabilità di certo non causata dal Covid, ma presente nell’ossatura del sistema da decenni. La mancanza di una storicizzazione della ricerca italiana nel corso degli ultimi quarant’anni è sotto gli occhi di tutti. Quanti gruppi sono sopravvissuti dagli anni '90? e dai 2000? quanti sono diventati dei “maestri” tanto da passare la loro esperienza alle più giovani generazioni favorendo quel lavoro di bottega tanto necessario al teatro? E il metodo invalso da anni degli under 35 non ha favorito proprio l’elezione prima e decapitazione poi di molti artisti giunti alla fatidica data? Come può esserci vera vitalità in un tale contesto di spaesamento e di contrasto generazionale? Non è che la vitalità nasconda invece le poche, insufficienti e macchinose tecniche di rianimazione messe in campo? E il pubblico come rientra in questa equazione? Cosa stiamo condividendo con coloro che chiamiamo in teatro?
Queste le molte domande sollevate dalla Biennale Teatro a cui ci troviamo a dover dare risposta in tempi brevi prima che l’incertezza e instabilità recati in dono dalla presente pandemia non rendano i problemi insolubili.
Veniamo ora alle opere visionate durante le giornate veneziane che, tra luci e ombre, hanno saputo darci un’immagine, seppur parziale, del nostro teatro attuale.
Innanzitutto Liv Ferracchiati con il suo La tragedia è finita, Platonov dove un giovane autore, regista e interprete ha saputo dar prova di una sua raggiunta maturità. Il confronto con il grande incompiuto di Anton Čechov si sviluppa attraverso un sottile e ironico confronto a prima vista metateatrale, tra il lettore e i personaggi. In realtà in gioco c’è il contraddittorio tra il proprio presente e il contesto passato evocato dalla vicenda di Platonov, in cui aleggia la domanda: come abbiamo potuto disperderci? Dove sono finite le nostre potenzialità? Così il destino di Platonov diventa non solo del lettore, o di Amleto, ma il nostro, di persone divorate dall’incapacità di agire in maniera veramente efficace, che si disseminano come stille d’acqua in arido terreno. Il testo elaborato da e per la scena da Liv Ferracchiatiè poetico, ironico con venature tragiche e melanconiche, e si nutre e partecipa dell’abbondanza dell’originale cechoviano e necessiterebbe forse di un leggero ridimensionamento. Più incerta seppur nella solidità dell’impianto e solo in confronto alla dirompente forza drammaturgica, la resa scenica, dove il movimento, lo spazio e il tempo, così come il corpo attorico sono a volte compresse dalla sovrabbondante presenza della parola (notevole comunque la scena delle donne di carta, così come efficace il duello finale tra Platonov e il lettore). Ferracchiati è ora un artista maturo, con un chiaro progetto di scena e un solido impianto concettuale tale da far emergere con adamantina limpidezza le intenzioni del suo teatro arguto e intelligente.
Prova di maturità anche per Giovanni Ortoleva con I rifiuti, la città e la morte di Reiner Werner Fassbinder. Ortoleva dopo Oh, Little Man e il Saul al debutto in Biennale proprio l’anno scorso, porta sul palco del Teatro Piccolo Arsenale una regia di grande respiro, che ricorda non solo lo stesso Latella ma un Ostermeier prima maniera, e capace di far trasparire la poesia violentemente tenera dell’autore tedesco attraverso una recitazione che oscilla tra teatro epico e intimismo mimetico. Questo movimento di entrata e uscita dal mondo perverso evocato dal testo di Fassbinder avviene con leggerezza, senza forzature, utilizzando tutti i registri della scena. I costumi pop e vintage, le musiche sempre segno e mai semplice tappeto sonoro (dal Lacrymosa del Requiem verdiano, ai corali di Händel, alla musica elettronica), le luci a disegnare un paesaggio di forti contrasti emotivi, la presenza di attori capaci di dar corpo, con economia di gesti, alle potenti forze telluriche che abitano le parole e la vicenda. Giovanni Ortoleva è ora, nonostante la sua giovane età, un autore di comprovata solidità e maturità, pronto ad affrontare le prossime prove con autorevolezza, soprattutto se aiutato da un sistema che non sfrutti ma esalti le sue ormai chiare potenzialità.
Babilonia Teatri con Natura morta prova a mettere in questione il travaso della nostra esperienza dalla realtà al virtuale del cellulare con un’opera che si svolge nella quasi totalità nel chiuso di un gruppo WhatsApp. I messaggi e le questioni che portano bersagliano il pubblico con violenza, costringendolo a farne i conti in uno spazio privo di illuminazione con l’eccezione delle luci degli smartphone. Un problema tecnico di rete ha interrotto lungamente l’esecuzione del processo. La risoluzione del disguido porta all’apertura della chat invasa ora anche dalle risposte del pubblico, a volte ironiche più spesso infastidite e subito censurate. Il progetto, per quanto chiare ne siano le intenzioni di interpellazione politica e civile su questioni scottanti, appare però un poco pretenzioso, chiuso nella sua volontà assertiva e moralistica. È come se da parte degli autori vi sia la certezza di essere dalla parte giusta della barricata. Inoltre, per quanto chiaramente si metta in discussione la dipendenza da virtuale ormai acquisita, il progetto rimane ingabbiato proprio dall’incapacità di porci nella possibilità di reagire, di creare un vero dialogo, e il pubblico rimane così costretto nella parte del ricevente passivo.
Passo indietro per Leonardo Lidi al confronta con un riadattamento di testo dimenticato di Gabriele D’Annunzio, La città morta. Il pubblico si trova di fronte a una gradinata da stadio americano in un’atmosfera alla Grease. Per quanto si comprenda chiaramente la volontà di calare l’opera in un mondo defunto e trapassato, la scelta appare un poco stucchevole più che veramente significante. L’impianto registico è quanto mai tradizionale, dove le trovate sceniche si ispirano a un pop trito e ampiamente sfruttato che ricorda molto la “locura” tanto ben descritta dalla serie Boris: conservatorismo con un poco di pazzia. Ci si aspettava di più da un ragazzo che con Gli spettri e Lo zoo di vetro aveva pur dato prova di una complessità compositiva di maggior respiro.
Leonardo Manzan con Glory Wall prova a giocare con il tema della censura proposto dalla Biennale mettendolo in discussione. Ci si trova davanti a un invalicabile muro bianco, pagina su cui inizia il discorso si di esso proiettato: se lo spettacolo fosse veramente sulla censura, essa dovrebbe intervenire e proibirlo, visto che non succede è un controsenso parlare di censura; ma perché poi dovrebbe intervenire la censura visto che del teatro non importa niente a nessuno? Il muro diventa quindi un’autocensura, ma anche strumento di piacere (da qui il riferimento alla pratica sessuale), poi lapide su cui grandi censurati come Pier Paolo Pasolini, De Sade e Giordano Bruno discutono sul tema con le voci di persone tra il pubblico. Così di numero in numero si arriva all’intervista finale in cui l’artista cerca di radicalizzare la messa in questione del sistema teatro. Benché l’ironia del lavoro e molte trovate siano efficaci, questo gioco di critica appare di maniera, leggermente ruffiano, più strappa-applausi che vera interpellazione su un tema di politica culturale. Soprattutto riprende operazioni simili già attuate nel passato (per esempio da Cattelan) ma con altra efficacia. Se è infatti vero che gran parte del teatro ha perso presa ed effetto sulla realtà, è anche vero che dirlo dal palco della Biennale, senza provare ad attuare una vera azione di controtendenza generale, restando in posizione di scherzosa critica, appare ancora meno energico e utile. È un gesto che sa di rinuncia più che di ribellione.
Luci ed ombre quindi in questi debutti. In alcuni casi forse sarebbe stato più saggio presentarli come studi, produzioni provvisorie, processi in fieri, piuttosto che lavori chiusi e finiti. Questo vale per molti ma soprattutto per Fabiana Iacozzilli (Una cosa enorme), il cui lavoro sembra risentire di due temi distinti e non ben amalgamati, la paura della maternità e la cura dell’anziano incapace di badare a se stesso, così come per Babilonia il cui processo di relazione con il pubblico avrebbe forse bisogno di ulteriori indagini e aggiustamenti. Molti di questi lavori poi avranno sicuramente e purtroppo problemi ad essere distribuiti, con il Covid a complicare ulteriormente il panorama. L’intento di sostenere il teatro italiano passa anche attraverso la creazione delle condizioni per la circuitazione e il sostegno del futuro dei progetti. Farli venire al mondo non basta. La vitalità, sempre che ci sia, va coltivata se no si inaridisce e presto muore. 





N.B.: per le immagini a corredo courtesy La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù





Biennale Teatro 2020
Atto Quarto − Nascondi(no)
direzione artistica Antonio Latella
Venezia, dal 14 al 25 settembre 2020


La tragedia è finita, Platonov
di
Liv Ferracchiati
con scena da Platonov
di
Anton Čechov
con
Francesca Fatichenti, Liv Ferracchiati, Riccardo Goretti, Alice Spisa
aiuto regia
Anna Zanetti
dramaturg di scena
Greta Cappelletti
costumi
Francesca Pieroni
ideazione e realizzazione costumi di carta e regista assistente
Lucia Menegazzo
luci
Emiliano Austeri
suono
Giacomo Agnifili
lettore collaboratore
Emilia Soldati
consulenza linguistica
Tatiana Olear
foto di scena
Luca Del Pia
produzione
Teatro Stabile dell’Umbria
paese
Italia
lingua
italiano
durata
1h 20’
Venezia, Teatro alle Tese, 20 settembre 2020
in scena
20 settembre 2020 (data unica)


Natura morta

di Enrico Castellani, Valeria Raimondi
produzione Babilonia Teatri, La Piccionaia – Centro di produzione teatrale
coproduzione Operaestate Festival Veneto
paese Italia
lingua italiano
durata 50’
Venezia, Teatro alle Tese, 21 settembre 2020
in scena 21 settembre 2020 (data unica)


Una cosa enorme
di Fabiana Iacozzilli
con Marta Meneghetti, Roberto Montosi
scene Fiammetta Mandich
realizzazione body suit Makinarium special – visual – effects)
luci Luigi Biondi, Francesca Zerilli
suono Hubert Westkemper
fonico Jacopo Ruben Dell’Abate
collaborazione artistica Lorenzo Letizia, Luca Lotano, Ramona Nardò
aiuto regia Francesco Meloni
assistente alla regia Cesare Santiago Del Beato
assistente alla drammaturgia Carola Fasana
foto di scena Manuela Giusto
un ringraziamento a Giorgio Testa
produzione Cranpi, La Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello Centro di Produzione Teatrale, Fondazione Sipario Toscana-Centro di Produzione teatrale, Carrozzerie | n.o.t
con il contributo di Regione Lazio - Direzione Regionale Cultura e Politiche Giovanili – Area Spettacolo dal Vivo
con il sostegno di Teatro Biblioteca Quarticciolo, Periferie Artistiche Centro di Residenza Multidisciplinare della Regione Lazio, ATCL Circuito multidisciplinare della Regione Lazio per Spazio Rossellini
con il supporto di Nuovo Cinema Palazzo, Labirion Officine Trasversali
paese Italia
lingua italiano
durata 1h 30’
Venezia, Arsenale − Tese dei Soppalchi, 21 settembre 2020
in scena 21 settembre 2020 (data unica)


I rifiuti, la città e la morte
di Rainer Werner Fassbinder
traduzione Roberto Menin
regia Giovanni Ortoleva
con Marco Cacciola, Andrea Delfino, Paolo Musio, Nika Perrone, Camilla Semino Favro, Edoardo Sorgente, Werner Waas
scene e costumi Marta Solari
musiche Pietro Guarracino
assistente alla regia Gabriele Anzaldi
produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse ONLUS
coproduzioneTHEATERDISCOUNTER
in collaborazione con Barletti/Waas, ITZ – Berlin
paese Italia
lingua italiano
durata 2 h
Venezia, Teatro Piccolo Arsenale, 21 settembre 2020
in scena 21 settembre 2020 (data unica)


La città morta
da Gabriele D'Annunzio
adattamento e regia Leonardo Lidi
con Christian La Rosa, Mario Pirrello, Giuliana Vigogna
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
sound design Dario Felli
arrangiamenti Dario Felli, Paolo Casali
assistente alla regia Sanida Mujakovic
elettricista e fonico Lorenzo Maugeri
direzione di scena Guido Pastorino
produzione Teatro Stabile dell’Umbria, La Corte Ospitale
paese Italia
lingua italiano
durata 1h 20’
Venezia, Teatro Goldoni, 22 settembre 2020
in scena 22 settembre 2020 (data unica)


Glory Wall
di Leonardo Manzan, Rocco Placidi, Paola Giannini
regia Leonardo Manzan
scene Giuseppe Stellato
produzione Centro di Produzione Teatrale La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello / Elledieffe
paese Italia
lingua italiano
durata 1h 30’
Venezia, Arsenale − Teatro alle Tese, 22 settembre 2020
in scena 22 setembre 2020 (data unica)

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