“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 23 March 2020 00:00

Indagine virtuale sul reale, al di sopra d'ogni sospetto

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Impossibile parlare dello spettacolo in RV (vincitore del premio Migrarti del MiBACT dal Festival del Cinema di Venezia), prodotto da Pierfrancesco Pisani (che ha prodotto, fra gli altri, Andrea Cosentino, Valerio Binasco, Iaia Forte, Sabrina Impacciatore, Isabella Ragonese, Alessandro Roja) di Omar Rashid e di e con Elio Germano (bello, importante, necessario... lo spettacolo, non Elio Germano) senza contestualizzarlo in almeno due linee di discorso: una è, prevedibile, quella del nuovo medioevo in cui l’avvento del Covid ci ha catapultati. L’altra, non meno ovvia, è quella dell’annoso dibattito fra le due frange: quella del teatro ripreso sì o ripreso no (spoiler: la soluzione migliore è ni). Trattiamo prima (forse solo) del secondo ambito. Ha il teatro ripreso cinematograficamente (o peggio ancora, televisivamente) pari dignità del teatro live action?

La risposta è, ovviamente, no. Il teatro è un rito, tenuto innaturalmente in vita, in tempi resi oggettivizzati dalla riproducibilità tecnica imperante (già profetizzata e ben trattata da Benjamin in giù), assurdamente ma rigorosamente, squisitamente anacronistico nel suo essere ancorato all’hic et nunc. In un mondo in cui regna incontrastato il déjà vu, déjà lu, déjà raconté, in cui tutto dev’essere recuperato, per blandire l’illusione dell’uomo moderno di poter controllare anche il tempo che passa, ritardando, con la riproduzione, sfrenata, a loop, sregolata, remixata, in cui il passato eternamente ritorna, ogni volta con un montaggio diverso, il passato stesso, confinandolo, rivitalizzandolo, a botte di nostalgici revival, tutti utili a rimandare il momento del trapasso del momento stesso. Come un nevrotico, in preda all’isterismo di un futuro che non vuol accettare, benché viva nella continua tensione di volerlo raggiungere, un po’ come Achille con la tartaruga, ossessionato fin quasi al feticismo dall’idea di vivere un eterno presente, che non passa mai, l’uomo, eternamente infante, che non vorrebbe mai essere adulto, padre, mai maturo ma, sempre, giovane, confinato a una sola stagione della vita, incapace di accettare la bellezza delle altre, ha trovato nell’evoluzione tecnologica il canto della sirena in grado di alimentare la sua illusione.
Inutile passare in rassegna gli innumerevoli esempi a sostegno di questa tesi: dalla chirurgia estetica, le trovate farmacologiche, le mode che non si fermano mai, procedendo a ritroso nel tempo, dinosauri scampati al meteorite, tutti schierati nei nostri teleschermi, cadaveri eccellenti imbottiti di formaldeide, smarmellati di cerone, pompati di botulino, manco fossero cavie plastinate à la Gunther Von Hagens. L’unica forma d’arte, insieme, se vogliamo, alla street art old school, dura e pura, che sembra fregarsene e aver fatto tesoro del motto ‘anche la Gioconda cade a pezzi’ di Tyler Durden, secondo il quale anche l’arte, solo che più lentamente, è destinata, come tutte le cose, a deperire, come una barretta di uranio arricchito, soccombendo alla capricciosa impermanenza del tempo, è il teatro. Il teatro trapassa, restituendoci all’inconfessata consapevolezza che siamo finiti, che ogni istante è unico e irreplicabile, e sta a noi onorarlo, riempiendolo di significato. Ogni rappresentazione teatrale, quindi, come un fiocco di neve, è irripetibile e diversa da quelle che l’hanno preceduta e la seguiranno. Come sono diversi gli attori che la interpretano (anche se lo spettacolo, il teatro e la città sono le stesse, vd. le repliche), i registi che le dirigono, gli spettatori che vi assistono. Benché esteriormente (si mettano l’animo in pace le nostre incartapecorite matrone televisive) si muti più lentamente, cambiano già a livello molecolare, ogni secondo che passa, fino al rinnovo completo, dell’intero corpo, un settenario alla volta. Cambiamo ancor più velocemente dentro di noi (si rassegnino gli autarchici dell’integrazionalismo monolitico con pretese di non contaminazione) a seguito delle interazioni continue con un altro, diverso, terzo, che ci rimanda un’immagine di noi che non sapevamo di avere, a seguito della consunzione da obsolescenza rapida di un codice culturale fra i miliardi di cui ci bombardano continuamente, saltandoci addosso dalle pagine Facebook, dai siti Internet, dalla radio, dalla tv, dal cinema, raramente, ma con più veemenza, dai libri, dai quotidiani, dai fumetti (dipende sempre cosa si legga, eh, diceva Flaubert: non leggete, come fanno i bambini, per divertirvi, o, come fanno gli ambiziosi, per istruirvi. No, lettere per vivere).
È per questo che all’eterna e sempre attuale vexata quaestio, γνῶθι σαυτόν, non a caso tramandataci dal Prometeo incatenato di eschiliana (e quindi, tornando a bomba, teatrale) memoria, la risposta resta sempre: il me stesso di quale periodo? Ché i suoi periodi non li ha avuti solo Picasso, ma li abbiamo tutti, continuamente. Cambiano anche le attrici e gli attori, quindi (talvolta per fortuna, migliorando, tal’altra, ahimé, adagiandosi) per quanto narcisisti e talvolta autistici, a seconda del pubblico, e in questa conclusione è la, peraltro scarsissima, conoscenza di Heisenberg che mi assiste (non quello di Brian Cranston), visto che l’osservatore/pubblico, per il fatto solo di osservare un fenomeno/performance, la cambia. Per tutte queste cose il teatro è, e sarà sempre e solo, live.
Purtuttavia.
C’è un tuttavia, io sostengo, che è quello rappresentato dal fatto che il teatro è testimonianza, come tutta l’arte impegnata, e la testimonianza non può essere affidata a qualcosa di caduco come la realtà presente (o legato alla durata della vita dell’autore), o saremo (ancora di più, già lo siamo da noi) costretti a ripetere gli errori del passato per via della nostra ignoranza dello stesso, o confinati alla memoria dei viventi. Altrimenti, torniamo all’oralità e a quanto sostenevano, sempre gli antichi greci, in uno slancio da finale distopico bradburyano, che la scrittura tiri su debosciati che sono così disincentivati ad allenare la memoria (cosa che sappiamo perché, come il resto del pensiero classico, qualcuno s’è dato la briga di scriverlo e copiarlo). Se in un mondo ideale ogni generazione, ovunque nel mondo, potrà godere di persona dei suoi Gassman, Peter O’ Toole, dei suoi De Filippo, dei Troisi del suo tempo, dei suoi De Curtis, dei suoi Ian McKellen, dei Dario Fo, dei Carmelo Bene, e via dicendo, non contentandosi delle registrazioni, inadeguate, dei lodevoli predecessori, io preferirei, potendo scegliere, di accontentarmi. Anzi, non mi bastano nemmeno quelle a cui riesco ad accedere, e vorrei, se possibile, ampliare la scelta alla produzione globale, come una sorta di Biblioteca d’Alessandria delle performance teatrali mondiali. Le videoregistrazioni, si sa, sono qualcosa di falso, di piatto, perché la macchina da ripresa filtra e taglia e monta uno spettacolo, cattedratica, orientando lo sguardo dello spettatore, fissandolo, immiserendo il suo libero arbitrio in libero sguardo: libero di spaziare, di fissarsi, di appuntarsi, di catturare, e anche di distrarsi (cosa che, in realtà, può fare, e anche assai di più, con una ripresa video: con la quale può anche stoppare, tornare indietro, riavvolgere). Il teatro ha sempre avuto una naturale, e più che giustificata, quindi, ritrosia a ricorrere ai nuovi sviluppi della tecnica (a parte il caso, forse, di contributi alla scenografia e, ahimè, all’audio), rendendosi un’arte vintage, un po’ come la pittura, la scultura e, forse più di tutte, la poesia, crogiolandosi nel suo esser extratemporale e, quindi, con velleità universalistiche a vocazione volutamente anacronistica (magari col rischio di esser avulsa da ogni contesto contemporaneo e, quindi, farsi astratta e velleitaria). Insomma, talune muse, e in particolare Melpomene e Talia, forse, più di altre, preferiscono fuggire la dipendenza dei moderni accorgimenti tecnici, fatte salve le dovute eccezioni, come lo spettacolo di  Germano & Rashid.
Le informazioni di cui gode lo spettatore, e di cui farebbe bene a godere, nel mentre che si approccia a questo spettacolo sono quelle essenziali: ovvero che, s’immagina, visto il personaggio, essere uno spettacolo dal piglio prettamente politico, incentrato, perlopiù, su un monologo di Elio Germano (definito, da alcuni, il miglior attore italiano vivente, e che a Berlino ha trionfato con un Orso d’oro, attraverso un’interpretazione mimetica di quello stesso Luciano Ligabue portato, sul piccolo schermo, con gran successo dal recentemente scomparso, grandissimo Flavio Bucci). E che è uno spettacolo in VR. Per chi non avesse dimestichezza con le diavolerie (post)moderne, la realtà virtuale è una di quelle, nostalgiche, retrotecnologiche, in realtà, non-tanto-inedite, che, se si affacciarono timidamente alcuni anni or sono, vennero poi giudicate economicamente insostenibili, e riposte nel cassetto, in attesa di tempi migliori (come il touchscreen) o più avidi di progressi: ecco, i tempi sembrano maturi (o, più banalmente, l’analisi costi/benefici del mercato essersi sbilanciata verso i secondi piuttosto che i primi). Questo è uno dei primissimi spettacoli teatrali in VR, se non il primo, per rinomanza e complessità. La VR è una costola della teoria della realtà aumentata, per la quale, grazie alle moderne tecnologie, è possibile un’esperienza ancora più immersiva in un altrove rispetto alla nostra realtà. In questo caso un altrove artistico. Oltreché nel gameplaying, la VR sta sfondando anche come latrice di cultura: si vedano i musei in VR (molto interessante, per esempio, la mostra multimediale Van Gogh – The Immersive Experience, che ha riscosso un discreto successo, nel 2017/18, nella sua tappa a Napoli. Più trascurabile, invece, quella analoga su Klimt). Ovviamente, un simile espediente, per non essere etichettato quale vuoto sperimentalismo fine a se stesso, ha necessità di una raison d'être abbastanza potente che lo giustifichi. Per comprendere se questo spettacolo l’abbia o meno, bisogna, per forza di cose, addentrarsi nei suoi contenuti (quindi, da qui al seguito, per coloro che vogliono goderne appieno, conviene fermarsi con la lettura del presente che non potrà evitare spoiler in tal senso).


La messinscena necessaria perché tutte e tutti gli spettatori possano godere, in contemporanea, della registrazione in VR dello spettacolo, è già, di per sé, un intrigante esperimento antroposociologico, che prevede un esperto che guidi alla procedure per indossare il visore, abbassare la celata cavallaresca che introduca alla realtà virtuale, isolarsi con le cuffie. Il tutto somiglia più alle istruzioni delle hostess durante le manovre di volo di un aereo, che non all’iniziazione avveniristica di un viaggio interdimensionale come quelli dickiani, ma il sentore di un certo nuovo mondo si sente comunque. Quando lo spettacolo inizia, veniamo, tutti, ejettati sulla stessa sedia, in prima fila, della stessa serata, registrata nello spettacolo al Teatro di Riccione. Se ci guardiamo intorno vediamo tutti le stesse persone sedute intorno a noi, le stesse quinte, lo stesso palco. Se guardiamo verso il basso, anziché vedere il nostro corpo, o le nostre mani, vediamo il vuoto della sedia: siamo stati smaterializzati e ridotti alla nostra forma astrale. Lo spettatore può, quindi, anche se in uno spettacolo pre-registrato, e quindi uguale per tutti, eternamente bloccato, come un film, seriosamente seriale, sensorialmente tutto in interni, decidere dove e in che momento orientare lo sguardo (non è una ripresa a 360°, insomma, nella quale si può girare intorno all’attore, avvicinarsi, allontanarsi, zoomarne ogni minima espressione). Non può alzarsi, non può intervenire, non può flirtare con la ragazza carina seduta dietro di sé, o scambiare commenti sarcastici col suo vicino. O meglio, se lo fa, non farà che disturbare gli altri virtualnauti che, per motivi di sincronizzazione, magari, se separati nella realtà reale da pochi cm di distanza, in quella virtuale potrebbero essere a decine di frame, o nanosecondi temporali, nel passato o nel futuro dello spettacolo. L’esperienza immediata, comunitaria, corale, è, quindi, sfalsata, non coincidente, quando non addirittura annullata.
Un Elio Germano dal cranio spoglio fa presto la sua comparsa e comincia a investirci col suo discorrere. Va avanti e indietro fra il pubblico, rivolge domande e coinvolge, come un guru, un presentatore, uno standup comedian, in una lunga introduzione dello spettacolo che cerca di far immergere pian piano lo spettatore in modo partecipe (disorientante, quindi, per chi vi assiste virtualmente) a quello che è il contesto dello spettacolo. Un contesto fortemente ancorato alla realtà (non virtuale, ma politica, ideologica, di costume) del tempo, che attinge all’attualità del nostro quotidiano. Un quotidiano fatto, anche di selfie (sic!), di dipendenti tecnologici (detto a noi che abbiamo il collo appesantito da un casco...), e di confusione. Elio Germano (della trasposizione in VR anche regista) è brillante ma non troppo, tradendo una specie di timidezza, quasi un imbarazzo, calandosi nei panni che sembrano non suoi di un’improvvisata analisi di questi tempi moderni. Il che tradisce una grande spontaneità. Sembra andare a braccio, in un’introduzione che da prolegomeno non sembra mai trapassare in un paralipomena.
Tuttavia non tedia, anzi, accattiva, specie quando si lancia in un esperimento immaginifico (ma noi stiamo già immaginando, da quando abbiamo innescato il casco, di essere lì con lui, quindi, ci viene richiesto un ulteriore salto pindarico di fantasia: le fondamenta, infatti, su cui poggia la bontà di un esperimento in VR di tal fatta, è che lo spettatore si presti a sospendere la sua soglia d’incredulità, autopersuadendosi di essere altrove in un altro momento. Ma, alla fin fine, non vale così per tutte le forme d’arte, anche quando, come questa, ci parlano di noi e dell’ora?) fingendo che siamo su un’isola deserta e chiedendo, a ciascuno di noi, di autorganizzarci in una società che garantisca la sopravvivenza di noi tutti, nel modo migliore possibile.
Il classico gioco di ruolo che si fa in ogni malaugurato colloquio, insomma, per testare le proprie skill da team-builder.
Ci dividiamo, ci conosciamo, cominciamo a ridiscutere i prodromi della nostra democrazia. Elio Germano ci conduce a conclusioni condivisibili, altre meno, vuoi inedite vuoi opinabili, talvolta il suo argomentare si fa capzioso e originale sorprendendoci, con successo, delle conclusioni cui ci porta e ponendoci innanzi a dilemmi morali nient’affatto scontati, facendoci riflettere sulle nostre priorità individuali quando confliggono con quelle collettive. Frapponendo, continuamente, cunei di contraddizione al nostro solito modo di pensare, Germano ci stimola e induce alla riflessione spontanea (che è già tanto, in realtà, che si tratti di realtà virtuale, reale o aumentata che sia).
Da un certo punto in poi, il suo discorso conduce ciascuno in un sentiero interiore, diverso, come una specie di meditazione guidata, laddove, al centro di sé, lo spettatore non incontra il suo animale guida ma la sua bussola morale, costretto com’è a rispolverarla, studiarsela e ricorrervi, per meglio orientarsi. Sì, perché a un certo punto, il discorso abilissimo di Germano tocca una corda diversa in ciascuno di noi, un tasto diverso, e provoca una reazione diversa. Il suo discorso comincia a preludere un noi nel quale non siamo più tanto sicuri di ritrovarci. Le sue conclusioni cominciano ad avere l’odore della provocazione. I suoi salti mentali si fanno arditi. Forse troppo. In senso dannunziano. Ma la sensazione più grande è data non tanto dalle provocazioni in sé (chiunque abbia un telecomando o attivato il servizio notizie di Google, è abituato a queste irritanti boutade, nemmeno-tanto-tali, che ci sciorina la pattumiera mediatica che ha fatto le fortune di arruffapopolo estremisti, ignoranti come una roncola, una scavatrice o una ruspa) quanto dalla risposta del pubblico. Perché fra il pubblico, videovirtualregistrato, c’è chi applaude, chi mormora con convinzione e chi si irrigidisce, chi si guarda intorno con dispetto o sincera (muta) sorpresa. Fra cui noi stessi dimostrando che la metanarrazione teatrale può funzionare anche nella metavirtualità. Anzi: è necessaria, ragion per cui, a mo’ d’esempio, sarebbe stato impensabile, e cosa diversa, se lo spettacolo in VR avesse visto solamente noi seduti fra il pubblico, circondati da spalti vuoti, e Germano sul palco (che è quanto, invece, accade nelle riprese tv degli spettacoli, attraverso i quali, però, ribadiamo, ci è ancora possibile godere delle, cristallizzate, interpretazioni dei nostri grandi mattatori tardonovecenteschi).
Monta, a quel punto un certo disagio, che è quello che lo spettacolo si proponeva di ispirare. La terribile sensazione di sentirsi fuori posto, circondati da persone di cui non si condivide la scala valoriale. Di non esser parte della stessa comunità. Tagliati fuori dagli altri, per via di una sedimentazione morale che fa sì che quel che noi sentiamo bene comune non sia lo stesso di tutti quanti (eppure sarebbe tanto semplice: per essere comune, non deve escludere nessun*. Altrimenti è bene-non-comune).
Germano sale sul palco. La sua parlata si fa inquietantemente più sicura. Scandisce fuori dai denti. Si tuffa nel testo, gomiti in fuori, schiena dritta. Il nostro coinvolgimento meno diretto. La ragazza coi capelli cortissimi, dietro di noi, comincia a registrare un certo, partecipato, entusiasmo che ci mette in difficoltà mentre il ragazzo alla nostra destra sembra condividere il nostro stesso disappunto, messo accanto a un plaudente sostenitore. Quante cose, ci rendiamo conto, avevamo date per scontate nella fruizione del nostro spettacolo (nostro proprio perché ci tocca al punto tale da essere di tutti, lui sì, bene comune, replicando la virtualità la compartecipazione del presente). Quante cose diamo per scontato su noi stessi. E sugli altri.
Germano comincia a parlare come un libro stampato. Un libro stampato, sì, ma d’altri tempi. Un libro che ci siamo guardati bene dal leggere. Un libro per il quale si sono fatte stragi. Le sue tirate si fanno trasversali, in un cerchiobottismo che non salva nulla, mettendo insieme la più arrambante antipolitica, il demagogico populismo di appiattenti piattaforme fra le cui maglie cadono i più fragili esponenti dell’uomo massa, psicologiamente bombardate da malainformazione massiva e culturalmente indebolite dal qualunquismo orizzontale virale, deprivati degli anticorpi valoriali dal consumismo e dai mediocri mass media, il suprematismo occidentale, l’islamofobia, l’identitarismo, l’ultraliberalismo più anarcoide, con spruzzate d’indipendentismo infoiatissimo, stoccate d’autarchia, spingendosi fino al più demodé antisemitismo. Sul finale, il gioco è disvelato, i più entusiasti del pubblico (il nostro chef! L’addetto alle provvigioni! Il caposcout! La mamma con due figli! Insomma, i soliti insospettabili ben noti sospetti), salgono sul palco, si uniscono a quel partito delirante, nazionalistico, che mette insieme un po’ tutte le cose che hanno in comune queste correnti, ovvero la totalitaria esclusione dell’interesse altrui, visto come scisso dal nostro: marciano a passo d’oca, fino a che, Germano, fa spiegare la bandiera che ci siamo dati.
L’ultimo brivido lo dà quella bandiera.
Perché è qui che poggia lo zoccolo duro della ragion d’essere che rende attuale, ahimè più che mai il contenuto di questo spettacolo (come pure la sua forma): mentre la bandiera si srotolava nella nostra testa scorrevano i più svariati loghi e simboli, dalla croce uncinata, alla bandiera sudista, alla stella alpina, a un pugno di stelle (non milioni di milioni, e nemmeno dodici o, a breve, undici, ma sotto la decina).
Lo spettacolo si chiude. Il libro lo conoscevamo già. L’avevamo indovinato. Era, in realtà, stato nominato anche da uno dei (due) titoli dello spettacolo.
E mentre ci togliamo il casco e passiamo da una realtà virtuale (e quindi protetta) a una reale, con uno sguardo diverso e più tetro, ci rendiamo conto che di tutto questo il vero spettacolo non era il pur bravissimo Elio Germano (one-man-show che riversa la sua bravura a finalità politiche e che, si spera, dopo la sua ennesima consacrazione estera, dopo tanta gavetta – indimenticabile Scrocchiazeppi nel Romanzo Criminale di Placido, toccante Folco Terzani, affianco al compianto Bruno Ganz, Leopardi per Martone, Manfredi per la televisione, borghese piccolo piccolo in Suburra, proletario marginale affamato d’amore in Alaska, solo per citare i più impressionanti – trovi progetti che lo sappiano valorizzare come merita per trasporre anche al cinema questa carica politica), che ci ha una volta ancora stupito nella disarmante disinvoltura con cui ha dismesso i panni dell’improvvisazione (semmai c’è stata, probabilmente no) per quelli della recita a tutti gli effetti, dispiegando la sua abilità nel giocare con le sottili sfumature, per attraversare tutto lo spettro delle emozioni: ma lo spettatore al nostro fianco. Lui, inconsapevole come noi, partecipe come noi, cartina tornasole delle nostre emozioni, che ci ha restituito quello che stavamo provando, compartecipe, con noi, di un saliscendi emozionale, a mano a mano che il monologo, e la società che fotografava, smottava più in basso. Solo che lui, nemmeno in virtualità, era con noi. Perché l’occhio può anche essere ingannato, ma gli altri sensi no. Il cervello, nella virtualità, dissociato fra un presente reale e un presente registrato, ha comunque contezza di sé, e i neuroni a specchio, hai voglia a dire il contrario, non vengono attivati da una rappresentazione dell’altro. E, con essi, l’empatia stessa viene disinnescata. E ciò probabilmente spiega perché questo spettacolo avesse ancora più senso se esperito con un canale virtuale.
Perché è nella virtualità − ovvero nell’assenza di qualcuno, nella sua mancata presenza, fosse pure nella nostra interiorità − che possiamo, metaforicamente, ma poi neanche tanto, uccidere l’altro. Ucciderlo prima di tutto in noi. Uccidere il comune sentire, il che ci consente di concepire un bene comune a compartimenti stagni, che possa escludere l’altro dalla nostra tavola e che possa scindere l’interesse dell’altro dal nostro. I fomentatori d’odio professionisti, quelli che continuano a sobillarci, a indicarci nell’altro, non un prossimo, non una risorsa, che continuano a negare la nostra realtà di animali sociali, illudendo noi, ma anche loro stessi, dell’appagabilità d’una felicità indipendente, autarchica, escludente, privata: sono i primi che, l’altro, negli occhi, non l’hanno guardato mai. Se l’avessero fatto, saprebbero. Se l’avessero fatto, non potrebbero continuare a predicare il loro dettame d’odio, su cui poggiare le loro agende politiche fondate su un’ideologia cinica, pragmatica, miope, brutale e assassina, fondata sulla pulsione mortifera, sul mero consumo, e sugli istinti più basi del cervelletto rettile. Perché la tecnica non è vero che è asettica, che è imparziale, che è naturale come la fisica o la matematica, indifferente ai fini e agli scopi. La tecnica è ideologica. La tecnica è pedagogica. La tecnica forma noi e il nostro immaginario, lo colonizza, lo inquina, lo forma, lo imprigiona, lo incatena, lo imbriglia, lo vincola. La tecnica, e s’è detto all’inizio, monta per noi, seleziona per noi, informazioni e punti di vista. Distorce la realtà che filtra e riproduce. Sia essa virtuale che reale.





Segnale d’allarme – La mia battaglia
di
Elio Germano, Chiara Lagani
regia Elio Germano, Omar Rashid
con Elio Germano
foto di scena Enrico De Luigi
produzione Pierfrancesco Pisani, Elio Germano, Omar Rashid
prodotto da Gold, Infinito, Riccione Teatro
lingua italiano
durata 1h 10’
Napoli, Teatro TRAM, 1° marzo 2020
in scena 29 febbraio e 1° marzo 2020

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