“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 04 June 2019 00:00

Il Centro Teatrale Umbro, tra rassegne e residenze

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Il Centro Teatrale Umbro
C’è una pieve medievale a Goregge, frazione discosta da Gubbio, in cui il teatro ha uno dei suoi angoli di pace dedicata e raccolta. A Gubbio non ci arrivi per caso, non ti ci trovi a passare; a Gubbio ci vai perché hai deciso di andarci. C’è un teatro, nel pieno del centro storico, incastonato tra le viuzze di questo borgo che conserva il suo impianto medievale, fatto di mura, porte d’accesso e edilizia storica a vivida testimonianza di un tempo passato, che però ancor s’ostina a scorrere, lento ma non dimentico di quel che è stato; è una cittadina abbastanza tipica, Gubbio, fatta di quiete e di vita ordinaria, turistica il giusto e che vale la pena di essere visitata, se si sceglie di farlo.

Già, perché devi proprio decidere di andare a Gubbio, se vuoi visitarla: non la trovi lungo una via di passaggio che s’articoli in un percorso a tappe, Gubbio è una mèta che fondamentalmente ti scegli, marginale e ‘eccentrica’ rispetto ai più usuali siti turistici dell’Umbria. E questa marginalità la riscontri, amplificata, se guardi a Gubbio e al suo Teatro Comunale, che a sua volta non intercetta le rotte abituali della circuitazione spettacolare. Gubbio è un contesto teatralmente decentrato. A Gubbio non ci arrivi per caso, non ti ci trovi a passare; a Gubbio ci vai perché hai deciso di andarci; e poi magari succede anche che decidi di rimanerci.
E all’incirca diciotto anni fa Massimiliano Donato, che il teatro già lo faceva, ha deciso non solo di andarci, ma anche di restarci. E di installarsi non a Gubbio, bensì proprio a Goregge, una località fra le tante che punteggiano le pendici collinari del vasto territorio eugubino, una quindicina di chilometri fuori dall’abitato.
Goregge, dove Massimiliano Donato ha impiantato il Centro Teatrale Umbro, ha tutte le caratteristiche dell’eremo: fu Pieve di San Giovanni Battista, a partire dal Trecento, e tale rimase, con le sue pertinenze abitative, fino a giorni vicini ai nostri – attiva fino al 1984 – quando la curia la dismise; si raggiunge inerpicandosi lungo le sinuose pendici di San Martino, percorrendo una lingua d’asfalto screpolato che porta ad un aspro sterrato, due chilometri impervi che a macinarli in auto sembrano non finire mai. Il gelo, la sofferenza, la fatica del teatro paiono essere preannunciati da questo viatico in forma di tratturo, brullo e gibboso. È qui che Massimiliano Donato ha scelto di vivere ed è qui che ha dato vita al Centro Teatrale Umbro, facendo della navata unica di un edificio di culto uno spazio consacrato al teatro, alle prove, alla creazione, a disposizione di laboratori e residenze. E proprio a una di queste residenze ospitate, quella di Opera Bianco, ho il privilegio di rivolgere il mio sguardo con attenzione curiosa verso un processo creativo, mostratomi spogliandosi di quel pudore che pure normalmente può rendere l’artista geloso della “nudità” del proprio lavoro davanti a occhi attenti e avidi di scoprire quel che c’è oltre la scena, dietro quello  che ancora non è lo spettacolo finito. Ma su questo torneremo più avanti.
Massimiliano vive quassù, in una solitudine che sembra il coronamento di una ricerca ideale, quella del luogo perfetto in cui stare per dedicarsi alla propria attività (ma sarebbe più giusto chiamarla vocazione) di artista, e per intenderla in maniera estensiva, occupandosi non solo della pratica da assito, ma anche di dirigere e organizzare, impegnandosi a formare un polo culturale capace di diversificare le proprie attività, spazio creativo, reso teatralmente abitabile con fatica e sudore, spazio per ricerca, prove, sperimentazioni e punto di partenza verso Gubbio, verso il Teatro Comunale in cui far confluire rassegne, ormai organizzate continuativamente.
Residenze, rassegne e formazione sono le tre direttrici cardinali lungo le quali, dal 2004, si sviluppa e si articola il progetto del Centro Teatrale Umbro, vòlto a promuovere la produzione e la formazione, con un occhio attento alle realtà emergenti della scena contemporanea che per loro stessa natura più hanno il bisogno di spazi (e tempi) in cui lavorare alla ricerca dei propri linguaggi e alla stimolazione della loro creatività: attività in residenza che hanno visto nel corso del tempo susseguirsi le permanenze a Goregge di nomi assolutamente significativi della teatralità nostrale (dal Teatro  Valdoca alla Societas Raffaello Sanzio, da Teatropersona a Le Belle Bandiere, giusto per fare qualche esempio) e internazionale (come Vladimir Olashansky o i Familie Flöz); poi  un festival della formazione dedicato alle compagnie presenti sul territorio a cui viene data la possibilità di confrontarsi con realtà più grandi e la rassegna Fuori Traccia (della quale nella scorsa edizione siamo stati testimoni partecipi in un processo di progressivo accompagnamento dello sguardo degli spettatori). Insomma: nel diversificare le proprie attività sotto forma di offerta formativa e proposta artistica, il Centro Teatrale Umbro si pone come un punto di riferimento a disposizione della teatralità – soprattutto emergente ma non solo – implementandosi sul territorio come una realtà virtuosa.
Le difficoltà oggettive ci sono (come ci sono per la quasi totalità delle realtà teatrali italiane, costrette a barcamenarsi tra fondi compressi e un’attenzione mediatica per lo più rarefatta) ma a Gubbio Massimiliano – supportato da Rita Pagnozzi che lo coadiuva infaticabilmente – non solo non si scoraggiano, ma rilanciano cercando costantemente di ampliare e migliorare tanto l’offerta formativa quanto quella organizzativa e spettacolare. Ed è appunto nell’ambito di questa progettualità, ampia e strutturata, che abbiamo potuto incontrare il lavoro in residenza di Opera Bianco.



Opera Bianco
Nella quiete irreale di Goregge, sull’impiantito di legno scuro della navata unica riattata a sala prove, incontro Marta Bichisao e Vincenzo Schino, ovvero Opera Bianco, compagnia al cui lavoro in residenza dedicherò la mia attenzione curiosa. È il 1° di dicembre e di lì a meno di due settimane Jump!, il progetto al quale lavoreranno in questi giorni di residenza eugubina farà il suo debutto a Roma a Teatri di Vetro, rassegna che come missione dichiarata si propone di ospitare lavori in fase di creazione non ancora ultimata.  Marta e Vincenzo mi illustrano il loro progetto artistico (pensato per essere pronto nell’autunno del 2020), prima tappa di un cambiamento in atto che vede la trasformazione della loro compagnia e del loro percorso e che li ha portati a rinominarsi da Opera in Opera Bianco, segno di una virata poetica e stilistica rispetto al recente passato, un cambio di nome che sancisce anche la ricerca di un linguaggio, ricerca che parte anche dalla concertazione con altri generi, spaziando dal performativo alle arti visuali.
Prima ancora che s’inizi il lavoro con gli attori, Marta e Vincenzo provano a spiegarmi le linee guida del  progetto Jump!, che mira a mettere il ritmo dell’uomo in dialogo col ritmo del mondo e quindi a esplorare il rapporto tra ritmo e presenza. Sono parole che non danno da subito contezza della sostanza di ciò a cui assisterò, ma che disveleranno progressivamente, all’atto pratico, quanto denso e strutturato sia il processo compositivo a cui si stanno dedicando: nel corso di poco meno di una decina di giorni mi schiuderanno le porte di un universo poetico, fatto di riferimenti culturali solidi e linee concettuali ben definite, indirizzate verso la costruzione di un atto scenico dal contenuto “politico” – messo tra virgolette per il valore estensivo da conferire all’aggettivo – figlio e frutto di un’istanza espressiva perfettamente calata nel nostro tempo.
Assistere al processo di creazione di un’opera dalla gestazione lenta mi dà modo di seguire una tranche significativa del percorso, che va dalla fase immediatamente successiva alla prima ideazione a quella della trasformazione delle fonti in una coerente costruzione: dall’idea – e dal sostrato iconografico che ne compone la campitura espressiva – alla costruzione coreografica e alla processione drammaturgica progressiva. Non arriverò a vedere un “prodotto finto” e capirò ben presto quanto quest’aspetto non costituisca affatto né un limite né un tassello mancante, perché assistere alla fase di creazione rende se non pleonastica, quanto meno accessoria la visione dell’esito, che pure mi piacerebbe vedere.
I termini attorno a cui ruota la costruzione sono avvitamento, caduta, spirale, che detti così e messi in fila parrebbero pura astrazione, ma che tradotti in disegno coreografico che dia corpo alle idee acquisiscono progressivamente un senso che va di pari passo con la forma scenica.
Il lavoro vero e proprio sulle tavole di legno comincia con due attori cui è affidato il ruolo di clown, Simone Scibilia e Claudio Grugher, mentre i due danzatori Samuel Fuscà e Luca Della Corte arriveranno nei giorni successivi. Marta chiede ai due clown dei feedback sulla relazione con la danza, in modo da non avere una disparità troppo ampia tra i due linguaggi – quello clownesco/attoriale e quello coreografico. Il lavoro in residenza a Goregge vedrà le due coppie lavorare separatamente, per poi ritrovarsi tutti insieme a provare nei giorni immediatamente precedenti al debutto romano. Claudio e Simone lasceranno i propri abiti di scena (scarpe comprese) agli altri due, che avranno così modo di compenetrarsi fisicamente nella parte complementare dell’opera, di fatto “entrando nei panni degli altri”.
Nella primissima fase “attiva” del lavoro assisto a lunghe sequenze di improvvisazione da parte dei due clown, scene fatte di rincorse, ceffoni, pestoni, in pieno stile slapstick comedy, il tutto finalizzato a rendere amalgamabile la parte clownesca con quello che faranno poi i danzatori.
Ma qual è l’idea di fondo e quali le suggestioni che la abitano e la animano?
L’istanza artistico-espressiva risiede nella ricerca di una risposta eticamente e artisticamente plausibile a quello che avviene nell’ambiente che ci circonda, del quale non possiamo non percepire il senso caduco di crollo incipiente. Per tradurre ciò,muovendosi dall'idea verso l'azione scenica, Vincenzo e Marta lavorano su suggestioni organiche al pensiero che vanno da Luci della città di Charlie Chaplin a Buster Keaton, dai Fratelli Marx fino ad arrivare a Georges Didi-Huberman e alle sue elaborazioni sul movimento e sul sollevamento (in particolare giocando sulla duplicità del senso del sollevarsi, inteso sia in senso fisico, sia nell’accezione di rivolta), passando per Totò e Vicè di Franco Scaldati, per gli immancabili riferimenti all’Amleto e molto altro ancora. In particolare, la traduzione in immagini dinamiche sarà affidata a due coppie, una di danzatori e una di clown, con questi ultimi che incarneranno la metafora della condizione umana; la commistione dei due linguaggi instaurerà – nelle intenzioni – un dialogo ritmico, il cui esito appare chiaro nelle intenzioni e in fieri per quanto riguarda la sua realizzazione.
Con Marta e Vincenzo torniamo più volte a parlare del progetto, mi spiegano il disegno drammaturgico, basato non su una struttura unitaria, ma su pochi significativi nuclei fondanti che lascino libertà alla creazione scenica per essere più “fresca”. Non c’è un copione, non c’è una partitura drammaturgica in senso stretto, ma c’è alla base del progetto – e si percepisce da subito – un’idea forte, ponderata, profonda e che proprio per questo non appare preoccupata di affannarsi al raggiungimento di un esito predeterminato: l’obiettivo a cui si tende non è la composizione di un lavoro ben confezionato, “fatto bene” e autocompiacente. Sin dal primo giorno si percepisce che l’intento artistico e la strada da percorrere per perseguirlo sono figli di un’esigenza solida e consapevole, quella di essere artisti e di concepire e vivere il proprio ruolo attraverso la militanza del creare, utilizzando – e prim’ancora cercandolo – il linguaggio del proprio fare per esprimere il proprio dire.
Sotto lo sguardo attento di Marta e Vincenzo, Simone e Claudio lavorano sulle proprie sequenze, imparano ad ascoltare il proprio respiro e la propria stanchezza, a instaurare una relazione fra loro che dovrà poi trasformarsi in una relazione ulteriore con gli altri due performer. Affinché ciò avvenga si richiede a chi è in scena di appoggiarsi alle proprie suggestioni e di fare in modo che quanto realizzano sia “sentito” e non “pensato”: pochi ma precisi gli input registici, finalizzati a creare una possibilità, quella di una relazione il più possibile originale e autentica tra i due.
Sarà proprio per questo che mi colpisce, sin dall’inizio, la consapevolezza che hanno di quel che fanno e dell’idea che perseguono, pur senza che ci sia una partitura delineata e strutturata da seguire e a cui affidarsi; è chiaro che le idee di partenza sono ben congegnate e questo fa sì che nel lavoro di Opera Bianco si trasfondano con sicurezza questa consapevolezza e quelle idee che gli danno materia; tutto ciò messo al servizio della creazione genuina di un proprio linguaggio scenico.
Di contro, il metodo è – almeno all’apparenza – semplice: fare, rivedere, rifare; poi ragionare, rielaborare, rifare ancora. Tornare su una sequenza, su un singolo gesto, su costruzione, decostruzione e rielaborazione di un movimento, di una sequenza, di gesti messi in fila. Il rigore è nemico dell’approssimazione, sicché capita che a dispetto dei tempi di prova necessariamente contingentati – incastonati tra gli altri impegni di ciascuno e a meno di due settimane dal debutto – su una stessa scena, su una stessa sequenza o anche semplicemente su un’intenzione, ci si soffermi per una intera mattinata, magari persino su un passaggio che il giorno prima nemmeno c’era, ma che nasce spontaneo e viene ritenuto funzionale.
Si lavora su un piano di linearità concettuale, che punta a sviluppare l’amalgama fra ritmi e sospensioni. C’è una stella polare in questo cammino, ce ne sarebbe un intero firmamento, in verità, ma in particolare c’è Didi-Huberman e un suo libro, Soulèvements, le cui immagini sono traccia feconda, che insuffla negli attori – attraverso Marta che si fa vettore verbale di suggestioni visuali – il senso intimo del concetto, che sulla scena si trasforma in sequenze, sequenze che a loro volta sono la risultante di immagini che, trasmesse dalle parole, “entrano” in maniera istintuale e non ragionata nei corpi degli esecutori. “Sollevamento” è una delle parole chiave, nella sua duplice valenza – meccanica e rivoltosa – perché il sollevamento è la reazione a un’oppressione, a qualcosa a cui ci si oppone producendo una spinta contraria. Mentre osservo questa traslazione dal concetto alla forma, dall’idea al gesto, comincio ad avvertire forte e netta la valenza politica di tutto il processo a cui sto assistendo.
Le prove di Jump! vivono di momenti di discontinuità, nel senso che – almeno in questa fase eugubina – non c’è mai la compresenza dei quattro interpreti. Così, dopo che a provare sono stati Claudio e Simone, è la volta di Samuel e Luca, che arrivano a distanza di un giorno l’uno dall’altro. Osservo l’ingresso di Samuel nel lavoro. Benché tutta l’attività svolta precedentemente da Claudio e Simone sia stata filmata, si sceglie di non mostrare alcunché a Samuel: farlo non rappresenterebbe un buon modo di entrare nel lavoro e inoltre si tende a volergli lasciare una certa libertà compositiva. Con l’arrivo di Luca l’indomani si compone la coppia di danzatori: diversi fra loro, sia per formazione – meno convenzionale quella di Samuel, più tecnicamente ortodossa quella di Luca – che conseguentemente per approccio al lavoro e alla relazione da instaurare, in cui si riflettono le caratteristiche dei due. Il modo di lavorare di Marta, come già era stato con Claudio e Simone, consiste nell’essere compresente in scena, dando indirizzi e suggestioni a voce e accompagnando fisicamente l’azione col proprio corpo. La suggestione di un’opera di Giuseppe Penone fornisce un altro input simbolicamente pregnante per quello che sarà il senso di Jump!: “Svolgere la propria pelle”, un concetto che andrà reso corporeo (ancorché etereo e quasi intangibile) nello sviluppo scenico a cui si è protesi.
Ad un tratto, per la prima volta, vedo che Marta e Vincenzo, carta e penna alla mano, ragionano sulla coreografia, o meglio, sulla drammaturgia dei corpi in scena: si ricerca una “costellazione” delle quattro figure nello spazio, che tenga conto delle differenti relazioni che si instaureranno tra le due coppie; la distanza tra le due coppie è vissuta e sentita come una fase da attraversare, che porti due mondi separati a incrociarsi, a trovarsi, infine a fondersi.
A Glass of Milk di Jack Goldstein rappresenta una delle altre suggestioni visive prese a modello, spunti iconografici da cui partire per dipanare il movimento nello spazio; si lavora su un’idea di accumulazione, che raggiunga un climax prima e una rottura poi. Il senso delle immagini resta come un sottofondo da interiorizzare e rielaborare e sul quale si innervano i singoli movimenti che compongono le sequenze, assimilando di volta in volta un gesto a un senso – suggerito, evocato, creato – come a dedicarsi alla minuzia di ogni tessera in un mosaico in via di definizione.
Tra le cose già certe e definite di Jump! c’è il finale che è la prima cosa che Vincenzo e Marta hanno scritto; trovo sia un dato molto significativo, testimonianza ulteriore che c’è una consapevolezza del punto d’arrivo e una volontà di ricerca aperta dell’itinerario da percorrere per giungervi. Ed è a questo percorso che dedico la mia attenzione, al suo procedere complessivo e ai singoli gesti che lo compongono; così mi soffermo sul modo di ruotare una spalla, di arcuare il torso, di girare un’anca: uno dei temi di questo lavoro è il corpo disarmonico; sicché i corpi vanno considerati come fasci di linee geometriche e la scomposizione è funzionale ad una ricomposizione.
Una volta compostasi la coppia di danzatori, Samuel e Luca hanno bisogno di conoscersi, di incontrarsi, dialogare, mettersi in relazione per cercare la qualità dell’interazione. Marta chiede loro che facciano proprio un lavoro di sensibilità che li porti alla reciproca conoscenza. Di base abbiamo due coreografie lasciate dai due clown, più una terza creata da Samuel. Ci sono anche immagini e sequenze che erano state provate con una coppia di danzatori precedente, a cui sono poi subentrati gli stessi Samuel e Luca: l’invenzione coreografica procede in costante divenire.
Siamo normalmente portati a pensare al lavoro di prova come a una reiterazione di una codifica acquisita, finalizzata a mandare a memoria un’idea scenica sviluppata – o anche che si sviluppa in corso d’opera – invece qui mi colpisce proprio l’attenzione e la cura meticolosa che si mettono nella propedeutica che è sottesa alla “prova” canonicamente intesa: si lavora prima a ‘fare entrare’ i performer nel meccanismo, anzi nell’intero universo sensibile, prima ancora che nel dispositivo scenico, che ne sarà una conseguenza; anche la fase di riscaldamento non è un semplice training, ma un modo ‘sensibile’ di sviluppare la manovra di avvicinamento al lavoro che si andrà a fare. Ed è anche per questo che quelle a cui assisto non mi appaiono come normali prove in cui si possa assistere alla creazione delle immagini da riprodurre in scena, ma come l’istruzione di un linguaggio che si ridivide ai performer per renderli padroni (e quindi capaci) delle conoscenze specifiche necessarie a riprodurre quella grammatica corporea richiesta.
Con l’ingresso di Luca Della Corte nel processo compositivo, si lavora – data la sua formazione rigorosa e ortodossa – per metterlo nelle condizioni di entrare nel sistema semiologico dello spettacolo, cercando di fargli abbandonare qualsiasi approccio ‘meditato’; si agisce pertanto sulla perdita del controllo. Luca ha un approccio più dialogico: chiede, si informa, vuole capire. Samuel esegue, forse perché recepisce in maniera meno mediata un discorso che già gli appartiene, vuoi per naturale inclinazione, vuoi per formazione meno canonica.
La musica, coi suoi bassi potenti, viene sparata forte e suggerisce lo sprigionarsi energetico da parte dei danzatori, i quali vanno così alla ricerca di un’azione non guidata dal pensiero. Lavorano sui volumi corporei da costruire, interni e esterni alla corporeità; tutto nasce in una elaborazione guidata e spontanea, o meglio guidata ad essere spontanea. Marta è sempre in scena con loro, li indirizza, danza, detta ritmi e tempi, suggerisce gesti e movimenti, il tutto seguendo dal suo interno un cammino percorrendo il quale si va verso la creazione scenica, senza seguire un percorso classico o convenzionale, fatto di scrittura/prove/ragionamento/scena. Molto bella e significativa la definizione che Luca dà di Marta, “coreografa processuale”: è locuzione che ne identifica il modo di lavorare al processo creativo facendo emergere e estraendo maieuticamente dai danzatori gli elementi sensibili e energetici che loro poi restituiscono nell’esecuzione. Ed è molto bello come da questo tipo di lavoro, con un automatismo che ha i crismi della naturalezza, Luca e Samuel passino d’un tratto dalla propedeutica alla esecuzione delle sequenze: non prove, ma processo di interiorizzazione.
Nell’approccio metodologico, Vincenzo e Marta bilanciano i propri ruoli nel processo compositivo, con lei che funge da filtro attraverso il proprio linguaggio e il proprio occhio interno, mente lui è occhio esterno che le trasferisce – in modo dialogico e ragionato – la propria visione complessiva; più guardo e ascolto, più riscontro che ci sia un metodo di lavoro preciso, improntato a un rigore che però non rinuncia all’elasticità; mi colpisce la serenità con cui si discute e si lavora, a pochi giorni dal debutto, pur avendo ancora immagini e soluzioni da cercare e definire, pur non avendo, a otto giorni dalla prima, ancora avuto modo di fare anche una singola prova con tutti e quattro gli interpreti compresenti. Marta sorride e ride spesso mentre dialoga e spiega. Vincenzo pare più sornione, potrebbe sembrare a tratti persino serioso, eppure è sempre pronto a stemperare l’espressione del suo volto in un sorriso bonario (mi colpisce molto questo clima, fattivo, ma non altero); c’è una simbiosi percepibile, anche nella loro inevitabile diversità di vedute e sussiste una suddivisione ben chiara dei ruoli: c’è una coreografa e c’è un regista, ma non ci sono compartimenti stagni tra ruoli e funzioni bensì un’osmosi continua, fatta di dialogo e confronto, a latere dell’azione e a volte fin dentro l’azione.
In questo clima positivo si lavora intensamente, sempre su più livelli: immagini statiche e dinamiche (video, fotografie di opere d’arte) concorrono all’elaborazione di un immaginario da tradurre in scena. Salto e caduta sono due concetti base da ricercare, non devono avere una natura narrativa, ma devono trovare una propria forma espressiva che li evochi e li rappresenti attraverso una continuità sensoriale. Mi soffermo a guardare le braccia dei danzatori volteggiare nello spazio, “svolgersi” come la pelle a cui è richiesto di fare lo stesso nell’idea drammaturgica di fondo. Concetti che si trasformano in gesti, idee che si trasfondono in sequenze, lo stato larvale e potenziale di un disegno poetico si stende sul piano di legno tracciando le linee immaginifiche di cui si fanno vettori i corpi. Per me che osservo, c’è il tentativo di entrare in un linguaggio col quale non ho piena confidenza, provo a leggerne i codici espressivi; prendo dimestichezza coi termini ricorrenti: : sequenze, risonanze, linee, microcadute, volumi, impressioni, assenza, svuotamento, il che mi consente di non assistere semplicemente alla composizione dello “scheletro” dello spettacolo che sarà corpo, ma di prendere coscienza, nel suo divenire, di un processo creativo nelle sue diverse fasi gestatorie e formative.
In questo lavoro la scrittura, quella fatta d’inchiostro trasfusa in plot drammaturgico, è una traccia: molto netta e precisa, densa di riferimenti e suggestioni, rigorosamente strutturate e rielaborate in maniera funzionale all’idea di base, la quale è ben definita e sa molto bene, già in fase d’abbrivio, dove vuole andare a parare. Ma è un’idea che incontra la propria realizzazione effettiva non su una pagina scritta attraverso cui passare prima di vivere in scena, ma modulando e modellando il proprio respiro direttamente sulle tavole del palco.
In tutto ciò, un ruolo fondamentale è giocato dalle musiche scelte: si era partiti dal presupposto della realizzazione di un spettacolo privo di musica, eppure c’è una colonna sonora preminente che accompagna questi giorni di ricerca: Murcof ne è l’autore. Non so ancora, nel momento in cui vado via, se la musica su cui si chiuderà la messinscena sarà quella che ha scandito questi giorni di residenza, ma so che l’immaginario sonoro a cui sarò portato a legare istintivamente questo lavoro, avrà il paesaggio acustico di quelle note in accompagno.
Un’altra peculiarità che noto è che la ricerca in atto non è finalizzata a raffinare una pulizia estetica dell’esecuzione ma a rendere intellegibili ai danzatori – fino a interiorizzarle – le sequenze e i loro annessi concettuali; nelle sequenze provate non c’è alcunché di arzigogolato o troppo pieno di vaporosi ghirigori ma c’è la ricerca di una sostanziale semplicità compositiva del gesto coreografico, il che però non va a detrimento della densità semantica, che rappresenta il vero motore di questo lavoro.
Le suggestioni di partenza poggiano su riferimenti solidi e pertinenti che denotano una visione d’insieme – di più: una vera e propria Weltanschauung – da parte dei membri della compagnia, che me li fa apparire perfettamente consapevoli delle loro idee e delle loro scelte: sanno da dove partono e hanno ben chiaro dove vogliono arrivare e attraverso quali strade incamminarsi per pervenire alla mèta; un punto d’arrivo fissato lontano nel tempo (Jump! è pensato per essere pronto nel giro di un anno) ma che nel frattempo appare già capace di mostrare la propria idea compositiva. Poter osservare Opera Bianco al lavoro mi ha dato l’opportunità di entrare in relazione con un processo creativo da una angolazione diversa  rispetto alla comoda seduta in platea da cui sono solito osservare l’esito conclusivo di un lavoro lungo e pregresso, condensato nel ristretto tempo scenico di una rappresentazione.
E quel che mi porto dietro, venendo via da Goregge, è soprattutto una sensazione di arricchimento culturale, per quanto ho potuto vedere e ascoltare, per quanto ho potuto recepire e comprendere.





Goregge (PG), Centro Teatrale Umbro, dal 1° al 9 dicembre 2018

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