“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 23 May 2019 00:00

Tre note su "Il misantropo" de Il Mulino di Amleto

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Il contrasto, l’esagerazione e lo scandalo

Alceste litiga per undici pagine col suo miglior amico Filinto (“cancellami dalla rubrica” gli dice, neanche avesse in mano uno smart), fa durare dodici pagine il brusco confronto con Oronte, reo di aver scritto un componimento degno di un bambino delle elementari, per dieci rimprovera l’amata Célimène a causa del modo plateale che ha di atteggiarsi (ma insomma, “Signora, aprite un po’ troppo di voi anche al primo venuto…”) poi per sette pagine se ne sta in un angolo – torvo, chiuso nella sua integrità, intento a far montare la rabbia – non dicendo neanche una parola: esploderà all’improvviso accusando di vigliaccheria, d’incoerenza e d’ignavia, questo codazzo di ammiratori che ogni giorno affolla il salotto della donna per cui sta spasimando. Per quattro pagine, quindi, rimbrotta di nuovo e davanti a tutti Célimène poi gli giunge l’ordine di presentarsi in tribunale e dunque si assenta: dodici pagine de Il misantropo scorrono adesso senza di lui e si tratta di pagine nelle quali gli esseri umani (di)mostrano il peggio di loro (tra smancerie, rivendicata ignoranza, falsa amicizia e dicerie che vengono dette col solo scopo di offendere l’altro). Quindi ritorna. Il tempo di rifiutare aspramente la corte di Arsinoè (una finta bizzoca, che cela l’ardore insoddisfatto della carne sotto abiti degni di una monaca) e poi rieccolo nascondersi tra le quinte, lì dove prima discute la sua causa, perdendola, e poi si ritrova tra le mani la lettera che Céliméne ha inviato a un altro adulatore. Sacrilegio! Si ripresenta dunque imbufalito, fuori di sé, con la mente a soqquadro neanche fosse un Otello, e sbraita perché anche lo spettatore che siede nell’ultima fila si renda conto che ha subito “un’offesa mortale” e che si sente “tradito, ucciso, assassinato”. Tenta dunque – per vendetta e con fin troppa insistenza – la conquista di Eliante, sbatte in faccia a Célimène la prova del tradimento avvenuto, va a raccattare tra le quinte una borsa da viaggio mostrando la quale ci dice che è giunta l’ora di abbandonare questo palco stracolmo di bugiardi quindi – per l’ultima volta e quasi fino allo stremo – tenta di conquistare Célimène: si tratta delle ultime diciassette pagine dell’opera, che si chiude con quello che pare un addio: “Caduto in basso, in un abisso cieco, tradito da ogni parte e sepolto dalle infamie cercherò un buco in terra, un posto separato...”. S’ode quindi, chiudendo il libro, il rumore dei tacchi (rimanenza sonora dei passi con cui si allontana da noi) e ci sembra quasi di vederlo, ora, lo sgomento della giovane, rimasta priva dell’unico uomo che – forse – amava davvero.
Dunque.
Per quanto esca e rientri di continuo dalla casa di Célimène (“Il misantropo è la storia di un uomo che vuole avere un incontro decisivo con la donna che ama e che, alla fine della giornata, non ci è ancora riuscito” direbbe Jouvet) e per quanto ripeta in ogni occasione possibile “io me ne vado” Alceste passa l’83% de Il misantropo in scena e tuttavia: la sua non è una presenza in aggiunta, i movimenti a cui dà vita non sono aggregativi, egli non agisce assieme agli altri ma invece: si sottrae di continuo al gruppo esistente, opera ponendo se stesso sull’altro piatto della bilancia e si distingue compiendo continuamente scelte contro. E d’altro canto basta prestare attenzione a quello che dice: “Non c’è posto, per me, tra la gente corrotta”, “il mio istinto è di vivere solo”, “ho chiuso con i miei simili” – ad esempio – e “odio tutti gli uomini”, “o me o loro”, “siamo incompatibili”, “dovete scegliere”, “voglio che mi si distingua”.
Ebbene. L’Alceste de Il Mulino di Amleto penetra sbattendo in assito una sedia, raggiunge in proscenio Filinto e, interrompendo bruscamente la relazione che quest’ultimo aveva stabilito col pubblico, ci litiga coinvolgendo nella lite anche gli spettatori. E ancora. Quando discute con Oronte non si limita a fare criticamente a pezzi la sua poesia ma prima lo offende e poi riduce in brandelli il ridicolo biglietto di compleanno (in copertina, questa sera, un cane e un gatto) sul quale la poesia è stata copiata: “Non vale neanche la carta su cui è stata scritta”, “mi fanno schifo anche il cane e il gatto”, “lo voglio fare anche in pezzi più piccoli”. Con una cuffia per la musica alle orecchie o appese al collo e con indosso una felpa con il cappuccio (segni d’isolamento) se ne sta quindi per tutto il tempo dall’altro lato: basta guardarlo, ad esempio, mentre nel salotto di Célimène avviene una piccola festa: tutti ballano, ridono o scherzano, tutti assaggiano o fanno assaggiare ai presenti i popcorn, i biscotti o i pasticcini mentre lui invece poggia la schiena alla parete sinistra della sala, bevendo e ribevendo champagne senza neanche gustarselo. Non basta: se ne sta fuori dal selfie di gruppo, rovinando la foto; siede nell’angolo posteriore destro quando tutti se ne stanno invece sulla panca posizionata a sinistra (io, lontano da voi) e – quando si tratta di dover andare via – si presenta con un borsone verde militare: neanche fosse diretto verso la più estrema tra le legioni straniere. Questo Alceste, insomma, frantuma ogni possibile armonia, si posiziona per contrasto e puntualmente interrompe o disgrega il clima che precede il suo ingresso: a ogni finzione contrappone la denuncia della finzione; a ogni (vera o falsa) bontà fa seguire lo strazio immediato e violento della bontà e non dev’essere un caso, penso, se giunge quasi a stuprare Eliante: si tratta di smentire – fino quasi a farcela dimenticare – la scena precedente durante la quale, con delicatezza di parole e di gesti, la stessa Eliante ha dichiarato la sua ammirazione per Alceste mentre Filinto ha rivelato finalmente l’amore che prova per la ragazza. È così, penso, che Il Mulino di Amleto rende pienamente la natura dell’umorismo atrabiliare molieriano che nulla ha a che fare con quello dei comici dell’arte (“la loro è una comicità pura, fine a sé stessa” afferma Giovanni Macchia) e che si manifesta e s’impone invece come “un’espressione di forza”, “una coniugazione dell’ira”, la ricerca scatenata e solitaria di “un riscatto assoluto che si rivela impossibile”. È l’espulsione di un pus morale, la comicità determinata da Alceste, e proprio come un pus fuoriesce – per usare ancora le parole di Macchia – da un corpo “debilitato, malato e consunto”.
Non solo.
Come ogni grande malanno che si rispetti (si tratta di “una passione grande come un bubbone”, che “s’ingrossa fino a occupare tutto un uomo”) l’infezione travalica i limiti, mostra le sue deleterie conseguenze in crescendo ed espande eccessivamente i suoi segni. Quali sono, in fondo, le terribili colpe dei personaggi de Il misantropo? Oronte scrive versi sperando di ricevere complimenti; Filinto adopera quel po’ di ipocrita moderazione e di senso della misura che gli consente di non inimicarsi ogni persona che incontra; Arsinoè (per amore) vorrebbe raccomandarlo a destra e a sinistra mentre il gruppo nel suo complesso trascorre mezza serata a sparlare degli assenti: chi di noi non ha commesso una tra queste mancanze? Chi di noi non ha stretto la mano a qualcuno che avrebbe volentieri evitato? Chi di noi non vorrebbe piacere, chi di noi non ha taciuto pur avendo da dire, chi di noi non ha improvvisato promesse in cambio delle quali ottenere uno sguardo d’affetto? Chi di noi – almeno una volta, nella vita – non ha dimenticato il sacro concetto della meritocrazia, ha fatto finta di non sapere pur sapendo, ha praticato l’umana propensione all’incoerenza? È rispetto a tutto ciò – e pur avendo pienamente ragione, sia chiaro – che Alceste reagisce, esagerando. Basta di nuovo ascoltare le frasi con cui si esprime: “Al vostro posto morirei di vergogna”, “proverei orrore di me”, “dappertutto non vedo che intrigo”, “non è il tempo di ridere ma di arrossire”, “vorrei spaccare la testa al genere umano”. A Filinto, colpevole di aver chiamato “amico” qualcuno di cui non ricorda neanche il nome, gli consiglia d’impiccarsi; Oronte – per i suoi brutti versi – viene consegnato per via diretta all’inferno mentre il fatto che Célimène abbia inviato una lettera a qualcun altro gli appare più grave “dell’esplosione dei mondi” o del “crollo del Creato”. Fin dall’inizio – e per tutta la durata dell’opera – Alceste usa frasi come “mi sanguinano gli occhi”, “mi brucia la bile”, “sono solo furore” esasperando la situazione effettiva ed è agendo così che punta a produrre riprovazione, sgomento, uno scandalo, come afferma Ramon Fernandez quando ci ricorda che “Molière ricava il nome di Alceste da una parola greca che significa uomo forte, difensore vigoroso” e che “tale forza, tale vigore, è uno dei caratteri essenziali del personaggio”: “Osservate il movimento animato del primo atto, l’irruenza del secondo, la scena madre del quarto: Alceste è un uomo che carica, che si avventa, colui che in gergo pugilistico viene definito un picchiatore. Egli è rapido, violento nel suo sdegno morale, e trova le parole con una velocità folgorante” ed è in questa maniera che “può permettersi ogni volta di suscitare uno scandalo”. E lo scandalo a me pare proprio la misura (estrema) con cui il Mulino di Amleto caratterizza il suo Alceste: è uno scandalo dare del “coglione” a qualcuno o sbattersi fino alle convulsioni sull’assito a causa di una modesta poesia; è uno scandalo versare mezza bottiglia di champagne sul pavimento o tirarne un bicchiere sul viso degli invitati alla festa; è uno scandalo tentare di forzare la volontà sessuale di una donna; è uno scandalo schiacciare i pasticcini, infilarsi i popcorn nella maglietta, affondare il proprio viso in una torta ricoperta di panna o di zucchero a velo; è uno scandalo questa voce urlata fino al soffitto; è uno scandalo stare sempre da soli anche se si è in compagnia; è uno scandalo – è un’esagerazione evidente – cospargersi di benzina a causa della sofferenza amorosa e poi chiedere agli spettatori della prima fila un fiammifero per darsi fuoco ma è uno scandalo che il Mulino di Amleto non s’inventa, sia chiaro, ma che trae dal testo di Molière: perché Molière di continuo metaforizza la passione con il fuoco; perché “questa giovane vedova sa riempirmi di fuoco” afferma Alceste di Célimène; perché “quanto a fuoco non temete confronti” dice Célimène ad Alceste.
Ben venga quindi la benzina, ben venga quindi la ricerca del fiammifero.

 

Tutta questa vita, recitata in un teatro
Nella seconda parte di Elogio del disordine Jouvet racconta di un sogno fatto mentre se ne sta disteso sulle panche del foyer dell’Odéon. Sogna, Jouvet, che in scena ci sia Il misantropo e sogna che – in quel che gli appare un giorno di foschia, infreddolito, annebbiato, umidiccio – a teatro giungano (simili a dei fantasmi) i personaggi dell’opera: li vede stazionare al cospetto della locandina, passare davanti alla portineria, sfruttare una corrente d’aria per salire le scale, percorrere i corridoi, raggiungere gli attori che intanto si stanno preparando per la replica di stasera. Questi spettri se ne stanno quindi nei camerini a spiare gli interpreti mentre si truccano, si vestono, danno un ultimo sguardo allo specchio, poi li seguono giungendo quasi alla soglia del palco. Mentre “gli attori si salutano, si preoccupano di come stanno” e discutono “della maniera in cui hanno trascorso la giornata” scambiandosi, nel frattempo, le ultime avvertenze i personaggi de Il misantropo invece “s’infilano tra il macchinista e il vigile del fuoco” o si acquattano tra le quinte, imbrigliati al cordame o celati dietro ai fari, assumendo il ruolo di osservatori laterali e invisibili della commedia. Che relazione avranno con gli attori che stanno per cominciare la recita (si chiede a questo punto Jouvet)?
Questa domanda continuo a pormela dopo aver visto, per la seconda volta, il Mulino di Amleto e non riesco a trovare una risposta adeguata; l’unica che mi viene è che – coloro che compongono la compagnia – sono in grado di restituire agli spettatori il massimo di umanizzazione possibile pur all’interno di uno spettacolo contraddistinto dal massimo di teatralizzazione possibile. C’è una formula che Jouvet utilizza e che mi pare appropriata: “Una grande opera” scrive, “è una possibilità di riconciliazione con gli spettatori” ma, per esserlo, deve innanzitutto essere “un incontro tra gli uomini”. Dentro questo concetto, che per me che siedo in platea non può che essere oscuro e confuso (come faccio a sapere come si trasforma una recita in un incontro tra gli uomini?), c’è tutto: la cura del dettaglio e la resa esteriore (ma non soltanto esteriore) di un gesto, il tono di voce con la quale viene detta quella battuta, uno scambio si sguardi che avviene tra un attore e un’attrice (scambio di sguardi che succede così questa sera: ieri era diverso, domani sarà differente) e il rispetto del testo di partenza anche attraverso l’uso di brevi momenti di improvvisazione – momenti buoni per ritrovare anche stavolta il contatto col ruolo, col mio respiro e quello altrui, con ciò che ho da dire, con la persona con cui sto recitando, con lo spazio in cui sono e con voi che mi state fissando – e c’è l’ostentazione di certi piccoli aspetti caratteristici, la sottolineatura di un passaggio drammaturgico, il previsto coinvolgimento emotivo del pubblico, il mantenimento di una partitura in comune e la ricerca di una relazione presente tra di noi, che funzioni veramente e che non sia un automatismo, e c’è il tentativo di rendere lo stato d’animo che dovrei provare interpretando Oronte, Alceste o Arsinoè, c’è questa successione di sensazioni e di sentimenti generati dalle sensazioni, c’è questo piccolo grumo di verità – questa sincera urgenza emotiva – con cui sostengo, rafforzo o riattivo la mia presenza. Stiamo su un palco, quindi, lì dietro ci sono i camerini dai quali proveniamo, adesso condividiamo una trama, noi guardiamo voi che ci guardate e vi assicuro che faremo il massimo perché nello spazio di scena avvenga davvero “l’incontro” di cui parla Jouvet (nonostante siamo all'ennesima replica e abbiamo ormai il testo stampato tra le tempie) affinché avvenga anche “la riconciliazione” tra chi si muove in assito e chi sta seduto in poltrona. È questo, forse, che mi fa dire che i personaggi incarnati da Il Mulino di Amleto, per quanto Il misantropo sia stato composto nel 1666, abitano nelle nostre città, il tempo del loro orologio è lo stesso che viene scandito dal mio, conoscono l’inglese meglio di me, indossano una sciarpa o un pantalone che potrei indossare domani e soffrono, ridono, piangono, si desiderano, si abbracciano, si tradiscono, si rincorrono e si perdono – restando impalati e infelici – nella stessa maniera in cui potrebbe capitare anche a me.
Ma, nel contempo.
Il misantropo di Molière non viene né riposto né sventrato sacrificato o svilito nel nome di un’attualizzazione superficiale, tutt’altro: il Mulino di Amleto ne rende il groviglio umano indistricabile rendendone l’intera partitura artistica che lo contraddistingue. Per comprenderlo basta dare un’occhiata a Célimène ed Eliante. Célimène entra da sinistra, rasenta il fondo, poi raggiunge Alceste – seduto, da solo, sulla panca – gli sfila le cuffie (basta musica, adesso ci sono qui io), gli copre gli occhi per scherzo (indovina chi sono) poi gli si accovaccia sulle cosce baciandolo, fino a trascinarselo per terra, tenendoselo stretto tra le gambe; quando si tratta di “placare la tempesta” invece taglia di netto lo spazio e lo raggiunge abbracciandolo mentre, nel pieno della festa, danza in proscenio mangiando i popcorn dopo averli tirati in aria. Estetizza se stessa, si mostra in maniera prorompente, si espone per quanto le è possibile Célimène e dunque: percorre per intero la stanza, di continuo allarga le braccia, organizza una diretta Facebook del party, si rivolge costantemente al pubblico (“non dovrei farmi guardare?”, “che cosa c’entro io se suscito interesse con la mia persona?”, “che mi crediate o no per me non ha importanza”) e – quando si tratta di leggere la poesia che le ha dedicato Oronte – ce ne rende partecipi leggendola al microfono ad asta piazzato nell’angolo anteriore del palco. Beve, barcollando ostentatamente; ride, fino a sputare lo champagne che ha in bocca; ad Arsinoè – che la osserva invidiosa dal fondo – prima le si mostra volutamente in atto di conquista facendosi stringere dalla mano sinistra di Orionte (che le tocca un fianco, le carezza il ventre, sale quasi alla base del seno) poi le offre Alceste, appena rientrato dalle quinte: lo raggiunge, lo bacia togliendogli il fiato, gli apre la felpa calandogli la zip e dice “non vi impedisco di avere lo charme per attirare gli uomini”, forza, “esercitate” anche voi, dopo averle sgombrato dai resti di cibo quella stessa parte di panca sulla quale, trenta minuti prima, si è stretta al suo uomo fino a farci quasi l’amore. Insomma: fammi vedere di cosa sei capace. Questa platealizzazione di sé mi pare abbia due ragioni. La prima: il furore di Alceste (e la sua passione disperata e infinita) non possono che essere rivolti a una donna in grado di esserne palesemente degna ed è per questo che Célimène è grande (dev’essere grande) almeno quant’è grande Alceste. Il secondo: Célimène – leggo dal testo – pratica la civetteria, dispensa miele su chiunque e cerca di sedurre in modo quasi fisiologico; intenta all’esibizione, in cerca spasmodica di applausi, si dona “in pubblico” conquistando consenso, provando a “piacere a tutti”. Ed Eliante invece? Di contro la ragazza – leggo di nuovo dal testo – ha “un cuore fermo, sincero”, si mostra con misura, pratica la pudicizia dei modi e nei toni, si posiziona spesso in secondo piano, sbadatamente s’intrattiene come presa da sogni sognati a occhi aperti (“Eliante!” la chiama Célimène portandosela via) e quando siede lo fa stando composta mentre se bacia – quando bacia – pizzica le labbra dell’altro come fosse un uccellino. A stento si accorge di essere bellissima; a stento comprende che Filinto la desidera; a stento capisce che la piccola scatola rossa con dentro un anello è per lei, proprio per lei. Urla solo una volta, Eliante, quasi fino a ferirsi la gola: le capita liberandosi dalla passione molesta di Alceste, dal suo vergognoso tentativo di stupro: “Io vi capisco e so cosa soffrite” gli dice con rabbia, ma…
Célimène ed Eliante sono dunque figure rese tra loro per differenza: non a caso sono gli estremi opposti della schiera di invitati alla festa (quando tutti stazionano orizzontalmente, presso la panca); non a caso – aggiungo – il tentativo di violenza subito da Eliante avviene nel punto del palco in cui Célimène teneva stretto Alceste tra le gambe.
Questa attenzione – che contraddistingue ogni singolo personaggio e quasi ogni momento de Il misantropo – avvalora una messinscena che (stabilendo un patto di onesta condivisione di un'esperienza col pubblico) mai cela la propria teatralità ed ecco dunque: la postazione tecnica e laterale del regista, che prende parte alla recita; l’assenza di quarta parete, la relazione diretta con gli spettatori, l’attraversamento del corridoio centrale della platea e la scritta “Tribunale” su una felpa, il cartello con su indicato “Salotto di Célimène e sua cugina Eliante”, un certo utilizzo significante dei fari (penso all’abbassamento delle luci, ad esempio, con l’ingresso di Célimène) e il monologo iniziale e pseudo-british di Filinto (compiuto tenendo alla cintura i finti occhiali che gli serviranno per interpretare il personaggio), gli sguardi lanciati oltre il velatino che fa da parete di fondo, la frontalità di Célimène e Arsinoè durante il loro litigio (che gli spettatori giudichino chi ha ragione), i tre colpi dati sulla tavola per simulare i pugni battuti alla porta, l’uso sottolineativo dello slow motion (la lettera di Célimène, che passa dalle mani di Arsinoè a quelle di Alceste), Queen of Danmark di John Grant cantata al microfono, il ruolo femminile interpretato da un uomo (esaltazione e smascheramento dell’imbroglio al quadrato), certi baci sulle guance o certi starnuti falsissimi, l’espressione “basta con questa scena” in luogo di “basta con questa storia”, una frase rubata all’Amleto e la battuta “mi prendono delle voglie improvvise di andare in un deserto, di fuggire i miei simili” trasformata in “ho un grande desiderio: uno spazio bianco, libero dalla razza umana” che serve a indicare l’assetto scenografico, contraddistinto proprio da un largo tappeto bianco.

 

 

In fondo, quei sei camerini
Ne Il silenzio di Molière Giovanni Macchia intervista, tre secoli dopo la sua morte, la figlia del grande attore/autore francese: me lo ricordo mio padre – gli dice Marie Madeleine Poquelin – sì, io di lui mi ricordo la tosse insistente che gli impediva di parlare (e che sarebbe poi diventata la tosse scenica di Arpagone), mi ricordo le sue sfuriate improvvise e terribili, durante le quali non doveva volare neanche una mosca, e gli scatti d’ira e il suo umore livido e la stanchezza, eccessiva per l’età (aveva meno di cinquant’anni) e mi ricordo – aggiunge – i giorni trascorsi nello studio, senza quasi mai uscirne, mentre alternava la scrittura esaltata de Il misantropo ai momenti di abbattimento, di delusione e di malinconia; sì me lo ricordo mio padre e mi pare adesso di risentirlo mentre – solo, nella camera semibuia, piegato sui fogli appena macchiati dall’inchiostro – mormora meccanicamente “voglio stare tranquillo… voglio solo stare tranquillo…”.
Molière non compone Il misantropo in un momento di successo, mentr’è cinto dalla gloria e dagli applausi, ma all’indomani dell’ennesima censura subita dal Tartufo: da un lato allestisce, per mere ragioni di cassa, il Don Giovanni (lo racconta, meravigliosamente, Cesare Garboli ne Il Don Juan di Molière) e dall’altro pone mano a quest’opera straziata e cruenta, nella quale trova posto la gelosia che prova per sua moglie, come negarlo, ma che gli serve anche per rivendicare una moralità da contrapporre all’amoralità di chi lo boicotta, di chi non lo sostiene a corte, di chi gli sta impedendo di  fatto di recitare. Che vada alla malora tutto quanto, che vadano al diavolo tutti, gli verrebbe da dire. Eppure. Mio padre – continua Marie Madaleine – per nessuna ragione avrebbe sacrificato il teatro: se sul palcoscenico ribollivano le pentole dei diavoli si sarebbe gettato dentro, come infatti vi si gettò; se sul palcoscenico occorreva bruciare la propria anima, l’avrebbe bruciata e infatti la bruciò. Questo perché – ci spiegherebbe adesso Giorgio Strehler – l’unico modo che un attore ha per parlare al mondo del mondo (e di sé al mondo) sono le parole altrui pronunciate in palcoscenico: “L’attore sa che il teatro è un fatto definitivo, senza premesse né postille”, incalza in un suo scritto infatti Strehler, “che si esplica per lui tra un’apertura e una chiusura di sipario”. Punto. Non c’è altra forma per esistere, non fino in fondo, per un attore; non c’è nessun’altra possibilità. Per questo Molière non può rinunciare al teatro: in quale altra maniera potrebbe dire quel che gli preme di dire? Invelenito dagli uomini non gli resta quindi che cercare di andare nuovamente incontro agli uomini, truccando le proprie ferite con un belletto che non nasconde ma esalta – ostentandole per finzione – queste stesse ferite. Ci si infila una parte, s’indossa un costume e si avanza verso la luce, chioserebbe Jouvet.
Il misantropo de Il Mulino di Amleto termina con Célimène che ruota su se stessa, gli occhi bendati con la sciarpa di Oronte, intenta come a giocare a mosca cieca. Incapace di decidere, è come se questa donna si affidasse al fato per scegliere le braccia tra le quali cascare: questa volta, solo per qualche minuto. S’imbatte involontariamente in Alceste. Sgomento, un lungo sguardo, le labbra serrate. Poi l’uomo si volta e – a una platea raggelata – dice le sue ultime frasi prima di abbandonare la scena proseguendo il cammino in foyer: “Amatevi ” e “io, caduto in basso”, io “tradito da ogni parte”, io “cercherò un buco, un luogo separato”, un altrove. Il rumore dei tacchi, una frazione di silenzio, una porta che sbatte. Intanto io guardo Célimène: piange, così svelando la terribile paura che fin dall'inizio serba nel petto – il terrore che ha della solitudine – mentre intorno tutti gli altri riprendono come se nulla fosse accaduto: “Stavamo dunque parlando di…”, “Ah, io non posso proprio sopportarlo…”.
Ecco.
Per quanto sia comprensibile (chi non ha desiderato la lontananza dal consorzio umano, almeno una volta?) la fuga di Alceste è tuttavia una sottrazione impossibile per un teatrante: potrebbe confermarlo Eduardo, ad esempio, che passa tutta l’esistenza nel gelo pur d’incontrare – fino all’ultimo, ogni tanto – gli uomini e il mondo; potrebbe confermarlo una splendida poesia di Ripellino nella quale un vecchio attore se ne sta aggricciato su una panca, affaticato e di malanimo, incerto che il numero gli riesca: eppure gli tocca tornare in scena di nuovo tanto quanto gli tocca la sorte, tanto quanto gli tocca un destino. Alceste dunque fugge mentre Célimène, abbandonata, rimane in assito e a me torna in mente che è proprio in Célimène che alcuni studiosi ravvedono la proiezione di sé da parte di Molière: è in questa donna che adesso mi sta di fronte, che soffre tremendamente standosene muta (le parole del testo gli sono finite) ma che domani, asciugate le lacrime, non può far altro che tornare a recitare: assecondando (e in realtà smascherando) la recita compiuta da chi la circonda. Ebbene.
Sul fondo de Il misantropo de Il Mulino di Amleto, vedibili oltre il velatino, ci sono sei camerini che vengono abitati durante la messinscena: servono allo spettacolo giacché lì – mi pare – viene mostrata la vita prima che diventi una farsa ma, quei sei camerini, a me dicono anche di una scelta che non è rivedibile, di un destino al quale (Fabio, Roberta, Yuri e Marco, Barbara, Angelo, Raffaele) non possono (non vogliono) sottrarsi. Continueremo a venire da questi camerini, abitando un palco che è una soglia, di fronte al quale voi sedete guardandoci: è il modo in cui abbiamo scelto di esistere, è l’unica maniera in cui possiamo dire del mondo al mondo e, al mondo, possiamo dire qualcosa di noi.
Così d’altronde visse Molière – che sopportò la cacciata di casa da parte del padre, la povertà, le tournée fatte nelle città di provincia e i tradimenti, le recite recitate in spazi schifosi, le incertezze del mestiere, il fallimento come autore drammatico e il saliscendi della carriera, gli applausi alternati alle critiche, il favore del Potere e del Potere l’abuso, le imposizioni e i divieti; fu così che visse Eduardo, abitando il suo gelo fino all'ultimo giorno, ed è così che vive ancora il teatrante poetico di Ripellino; sarà così (mi dicono quei sei camerini) che vuol provare a vivere Il Mulino di Amleto.

 

 

leggi anche:
Alessandro Toppi, Noi, Čechov, Platonov e la pioggia finale (Il Pickwick, 17 novembre 2018)

 

 

 

Il misantropo
regia, traduzione, adattamento
Marco Lorenzi
con Fabio Bisogni, Roberta Calia, Yuri D’Agostino, Marco Lorenzi, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Angelo Tronca
visual concept Eleonora Diana
tecnico di compagnia Giorgio Tedesco
assistente alla regia Yuri D’Agostino
consulente ai costumi Valentina Menegatti
distribuzione Valentina Pollani, Codici Sperimentali
organizzazione Valentina Greco
produzione Il Mulino di Amleto, Tedacà
in collaborazione con La Corte Ospitale
foto di scena Manuela Giusto
lingua italiano
durata 1h 20’
San Leucio (CE), Officina Teatro, 16 marzo 2019
in scena 15 e 16 marzo 2019

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