“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 18 May 2019 00:00

Mémoire di Vespasiano

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Cessi pubblici (Cesuo, in originale) dura un’ora e quaranta, ma non basta. Non basta al pubblico, che ne vorrebbe di più, non basta ai fini della storia, che tanto altro avrebbe da raccontarci di sé, e certamente non basta al prorompente Sergio Basso, che di cose da dire ne ha. A pacchi. E lo sa. Ce lo fa intendere e ce lo fa desiderare.

La storia, tratta da Guo Shixing (pechinese, classe ’52, forse primo autore sinico rappresentato sui palchi italiani) è presto detta: narrare le vicissitudini di un popolo, quello cinese (ma anche non solo), spiandolo dal buco della serratura non di un posto qualsiasi. Dai bagni. Pubblici, per di più. Redatto quattro volte, dal ’98 fino al primo allestimento al Capital Theatre di Pechino (2004), dalle aristofanesche e durrenmattiane ascendenze, tramite questa riscrittura origliamo in una sorta di Bolero lelouchiano l’incrociarsi di microstorie sparpagliate che si re-incrociano a cadenza decennale, con personaggi che si sfiorano, si incontrano e si scontrano, spiluccando, voyeuristici, scampoli delle loro vite, in un arazzo sfilacciato del quale sta a noi riempire di toppe immaginarie le parti mancanti.
Brava a sfruttare millimetricamente lo spazio, Federica Pellati, fa sì che la scena si svolga lungo l’ascissa e l’ordinata del palco, sorprendendo lo spettatore accerchiato da un’azione che proviene da ogni parte, avviluppandolo.
La campitura temporale è ampia. Molto. Se c’è un popolo che più d’ogni altro ha conosciuto fenomenali stravolgimenti antropologici in uno spazio temporale minuscolo, questo è quello cinese: popolo spanto su un continente immenso (ma dal fuso orario unico), che, a costo di sacrifici inumani, si è scrollato in una manciata di anni le pesanti polveri stratificate di un feudalesimo rurale millenario, ritualizzato e tradizionale, balzando a piè pari in un capitalismo sfrenato e ambizioso, in anni in cui dalla corsa agli armenti si è passati a quella agli armamenti. Le armi di oggi, però, sono indici azionari, flussi finanzari, titoli di multinazionali e fondi d’investimento. Se c’è qualcuno che ha fatto combaciare sviluppo economico con progresso, è stata proprio la Cina. La nostra miopia tutta orientizzata a occidente ci costerà assai caro, in futuro (ma lo sta facendo già ora). Attraverso le microstorie, Guo Shixing (sceneggiatore di The Sun Also Rises di Jiang Wen, 2007) mette in scena questa d-evoluzione. Ansie e dolori basici, insofferenze, piccole vite inutili carambolano negli anni, davanti a noi, condensate, espandendosi per conoscere il costo umano di questi macrocambiamenti. Sergio Basso (quarantatreenne, milanese, sinologo navigato, con pagina su Wikipedia – francese, non italiana –) è prorompente: si aggira fra palco, foyer e galleria, ubiquo, provando le scene corali fino a qualche attimo prima che si sollevino le quinte. Plinianamente incontenibile come il Krakatoa, è uno tsunami di idee con le quali ci investe manco fossimo a Tunguska. Come non bastasse quanto già contenuto alla fonte, l’assistente alla regia di Gianni Amelio per La stella che non c'è (2006) nonché regista dell’indipendente Giallo a Milano (2009), ci mette del proprio per attualizzare e insegnarci che, in tempi da buttefly effect, il minimo sfarfallio di chiappe in Cina può influire sul percorso di un uragano finanziario dall’altra parte (la nostra) del mondo: checché ne pensi Bellocchio, la Cina, oggi, è ancora più vicina che nel '67, e il pericolo non è affatto giallo, ma policromo.
Anni ’70, leva obbligatoria per tutti i figli della Rivoluzione rampante di Mao, da svolgersi nel Grande Nord, alias l’hic sunt leones cinese. Un giovane viene nonnizzato nella sua naja da una bellissima pasionaria armata di libretto rosso, fucile e ballerine. Cappello calcato verde oliva con stella stampigliata sopra la visiera, la soldatessa danzante sceglierà la carriera nell’esercito (per la quale è necessaria una raccomandazione – da lì come da noi, oramai –) al giovane protagonista cui non resterà, coda fra le gambe, che riparare a Pechino dove la madre lo farà subentrare al suo posto di guardiacessi pubblico: una posizione che riposa il suo indubbio (?) privilegio proprio nella sua natura non ambita, posto al sole invidiabile nella sua capacità di porre al sicuro da qualsiasi tentativo di invidia (stiamo dalle parti di Joseph Heller quanto a logica). Il nostro eroe consacrerà la sua esistenza a quel lavoro indesiderato, a quel posto da Ragusnik asimoviano, da fuoricasta dal ghettizzante destino inestirpabile ricamato a filo doppio nella stirpe paterna, inscritto nel suo genoma a caratteri indelebili fin nel cog-nomen omen: ‘cacca’. Il Gregor Samsa dei cessi abbraccia il suo destino e diviene un paladino della carta igienica, investito dal sacro furore della sua missione rupofobica. Maniaco della maiolica e della piastrella, invera la tradizione familiare rinnovandola, e i cessi demodé, a ferro di cavallo, sottoponte d’insufflati sospiri flautulenti e rilassamenti delle ans(i)e intestinali, ricettacoli di tutt’un crepitante florilegio corporale e borborigmi da strombazzanti tessuti molli, in un coro di freni inibitori che si afflosciano, vengono costellati di lavabi e palline di canfora profumose.
Anni ’80, nuova generazione, pieno boom. Smesse le divise, c’è molto di nuovo sul fronte orientale. La tigre di carta sta affilando i suoi artigli di origami, preparandosi a un altro ferino grande balzo in avanti. L’ultimo. Sfiorato il matricidio il decennio precedente quando la madre si offre, cosce aperte inforcate la tazza ovoidale, al quasi arpionamento tramite mazza di bambù filiale, questo è l’anno della cesura dal matrilineare. È l'inizio della trasformazione. Per ambire ai posti di rilievo serve ancora un albero genealogico scevro da influenze di nemici del popolo (i borghesi), ma le cose stanno cominciando a cambiare, come annuncia il Tiresia escatologico, inseparabile dai suoi libri, che sciorina nozioni sull’etica della civiltà delle evacuazioni, dispensate senza ritegno, a partire dal primo, vero, comandamento biblico: “Nel tuo equipaggiamento avrai un piuolo, con il quale, nel ritirarti fuori, scaverai una buca e poi ricoprirai i tuoi escrementi” (Deuteronomio, 23:12, 13). I cessi si fanno a pagamento, ma il custode delle nostre liberazioni è sordo a quegli indizi che già gli sbocciano intorno. Salutato il suo amor fou a cavalcioni d’una locomotiva verso il ’Nam, conduce una vita in solitaria nella sua tradotta in via di privatizzazione, attorniato dal circo ambulante di personaggi grotteschi, che turbinano, dannati dal danno dell’inseguimento infinito d’una bandieruola che cambia ogni volta rimanendo sempre la stessa. La bella rivoluzionaria torna e ritorna, cavallina storna, recando colui che più non ritorna (il passato decaduto con le sue occasioni sfumate).
Anni ’90, il pericolo non proveniva dalla Cina ma lo portavamo noi, inoculatori del virulento bacillo, il flagello capitalista, incapsulati portatori nemmeno tanto sani di quel morbo egotico ed egoistico destinato a infettare tutto il mondo. I cessi in trasparenza scompaiono. L’atto di decostipazione collettivo, segno certo di civiltà eletta e trasparenza, ma anche assenza di privacy fin nell’ultimo bugigattolo da parte del Grande Fratello guardone, cugino del Piccolo Padre, cede il passo all’individualismo trionfante. La merda non è più bene comune ma si fa privatistico espletamento di cui avvampare. La civilizzazione cittadina mette all’indice la pisciata in compagnia: la borghesizzazione ha sbaragliato ogni argine col suo moralismo ipocrita e falsamente pudibondo. Le cinque stelle gialle su fondo rosso svettano garrule sull’hotel che è sorto al posto del cesso pubblico, con buona pace di Edgar Snow. Colmato il gap d’infrastrutture, la Cina si consegna al mercato, spoglia d’ogni scampolo etico, e dopo aver rinnegato Confucio, rinnega anche Mao, abbracciando l’unica ideologia che veramente è imperante e rende il mondo un corpus unicum, un continuum omologato massivamente. Si affranca dal terzo e finalmente, con una derapata, passa al primo mondo, vae victis! I cinesi tornano liberi (più o meno)... ma di che? Da un totalitarismo esotico passano a un altro. Quello che ben conosciamo. Il nostro. Trapassa la merda come bene comune e, voilà, si passa al libero cesso in libero mercato... laddove la libertà è autistica partecipazione agli utili, ognuno a casa propria. Oggi che tutto è libero a condizione di poterselo permettere. Tutto si può comprare, tutto si deve comprare. Tutto si può vendere, tutto dev’essere venduto. È il totalitarismo della mercificazione totalizzante. Non si menziona Tienanmen, e ci può anche stare, perché quello che per noi è un episodio indelebile della Cina moderna, manicheisticamente di sola ombra, laggiù è frastagliato da sfumature chiaroscurali. I popoli moderni soffrono tutti di quell'Alzheimer che consente alle megamacchine sovranazionali di far ripetere ai loro governanti gli stessi errori (quando sono semplicemente idioti sociali e ragionano da homo oeconomicus, per usare i termini del premio Nobel, Amartya Sen; poi ci sono i collusi, i colpevolmente complici, affaristi fra cui c’è anche il cameo con strizzatina d’occhio d’un solito noto, che qui si chiama Silversilviomanolomanolesta). La Cina non fa difetto, e come prima era all’oscuro di quanto accadeva oltre le sue (fecali) colonne d’Ercole (visita di Nixon, empeachment di Clinton) lo è anche ora, anche di eventi più vicini a sé: dalla censura esogena siamo approdati all'indifferenza endogena. Che conquista! È l’utilitarismo pragmatico dell’arrivista borghese.

Il team d'attori si conta in un palmo di mano o poco più, eppure vale un esercito (di terracotta), che a contarli uno per uno non si crederebbe, tanto s’indaffarano, si dannano, mutano, trasfigurandosi e cambiando di pelle, mille volte mille, disinvoltamente, ogni volta toccando una corda diversa nello spettatore.
Lidia Castella è brava tanto nell’incantare, prestando le sue fattezze boreali alla femme fatale in salsa cantonese, o piroettando sul drappo rosso, quanto nel far ridere, sferzandoci con la sua parte da manager in tailleur, tutta anglicismi ostentati, effimera ecolalia di un’esterofilia che riveste una, quella sì, coprolalia.
Cristina Castigliola presta la sua fisicità alla madre del protagonista (se ce n’è uno solo): una nostalgica inviperita e combattente, feticista dell’alienazione laburista, pescatrice di perle che legge i destini dei suoi clienti sul fondo dei water. Più che la sua interpretazione di Silversilviomanolomanolesta, mummificato come un cattivo di 007, è folgorante quella da arzilla barricadera che sbraita urlando contro l’autorità, unica ancora a invocare la restaurazione dei cessi pubblici.
Impossibile non spendersi per Francesco Meola, che indossa i panni tutt’altro che facili del protagonista: disincantato, immobilista, kafkiano nella sua condizione, malinconico e passivamente romantico, feticista della latrina riproduzione del grande acquariomondo, gran parte dello spettacolo grava sulle sue spalle, sempiternamente al centro delle scene, fra arrampicate su tessuto e monologhi sul pitale, al suo registro è chiesto di passare dal tenero all’arrivista, di volgere dall’idealismo giovanile al cinismo disimpegnato, dai piccoli aneliti di speranza alla disperante mestizia d’un vivere che è il gattonare gattopardesco delle vicissitudini del suo stinto personaggio, pavido romantico sulla via di guarigione, stella cadente attorno alla cui scia gli altri orbitano, letteralmente, collidendo saltuariamente, costringendolo a giocare di sponda e di rimpiatto.
Non c’è niente di facile che lo spettacolo riserva nemmeno a Elena Nico, giovanissima. Longilinea, plastica voce narrante cui è chiesto di bucare la frangia invisibile che separa il pubblico dalla finzione scenica, incarna vari personaggi e, per farlo, deve recitare sopra le righe, ma è nella parte della figlia che mostra al meglio le sue carte. Chi meglio di lei, d’altra parte, poteva mostrare con tanta vivezza la cupa marcescenza che il sistema incapsula nei suoi figli, corrompendoli e disorientandoli in modo così infelice e indefettibile che osservarli è doloroso. L’invocazione del padre che è affidata al suo canto violento sembra altamente significativa e suggella la mancanza, in tutto questo tempo, di una figura saggia e autorevole (giacché sul palco si alternano madri, vedove, fidanzate, amici, figlie, figli, maniaci, giornalisti, amichetti, ma mai coppie felici e mai padri o mariti, se non morti o andati via, condannati all’immaturità permanente). La legge economica ha spazzato via la legge del padre.
Matteo Prosperi fa bella mostra di sé in un ruolo da cinema civile d’altri tempi, incarnando la triste figura del pennivendolo prezzolato che si fa corrompere da un’anatra laccata, trafficante di materia fecale infetta per rimediare permessi malattia e, infine, rocambolante ganimede scosciata, dal menù ombelicale sulle vergogne, che raccoglie le comande fra una piroetta e l’altra, innafiando di limone, come una lepre marzolina, per raffreddare i bollenti spiriti di un dongiovanni spiritato.
Alessandra Raichi, l’oriunda sempre di bianco vestita, con capelli raccolti in coda manciù, è il triste profeta della borghesia, dedita sul water ad attività clandestine: tipo leggere (era un’epoca in cui avere gli occhiali significava essere intellettuale e, quindi, nemico del popolo da rieducare nei campi... più o meno come oggi avere una coscienza critica contro il populismo valga la marchiatura di radical chic sinistrorso e disfattista) in attesa che passi il cadavere del suo nemico, fra un cambio d’ombrellino e l’altro. Salvo scoprire che il nemico è essa stessa, e che i libri liberati non fanno i lettori. Il futuro prospettato, infatti, le darà ragione su tutta la linea, ma sarà una vittoria amarissima più che di Pirro (come lei stessa riconoscerà): anch’ella è caduta sotto l’inganno dell’apparente maggior libertà occidentale, fra le false lusinghe decantate di un progresso solo economico, se non arriva a rimpiangere il passato, poco le manca (l’esempio dell’acqua è cristallino nell’evidenziare le contraddizioni del futuro). La Cina è il Paese più popolato al mondo ma ancora non riesce a equiparare i consumi degli (meno densamente popolati ma assai più sinistramente progrediti) Stati Uniti. Però ci stanno lavorando, eh! Bello il passaggio dei tempi in cui gli escrementi non erano un problema (come smaltirli) ma una risorsa (nei campi contadini). Bello quello in cui l’acqua in casa da privilegio inaudito si fa prassi e quindi subito spreco, da bene di tutti (omnia sunt communia), ivi comprese le future generazioni, addiviene a bene di nessuno (res nullius), e col passaggio in casa da bene a valore infinito decade a bene gratuito, che può anche essere sprecato (parva materia). Ma il finale forse avrebbe meritato un aggiornamento maggiore: i compagni africani d’un tempo in visita in Cina per imparare, ora sono vittime d’un secondo colonialismo: quello del land grabbing. No, questo passaggio non avrebbe stonato. Ma siamo in Italia, dopotutto, e fra le tante urgenze su cui è necessario un controcanto di sensibilizzazione e allerta politica che faccia da controaltare alla contronarrazione dei mass media, inerti ripetitori dell'Impero, Basso ha preferito, giustamente, puntare il faro (come ogni intellettuale dovrebbe, onestamente, fare nel suo ruolo da guida etica da revanscismo neogramsciano) su altro. Cosa? Le nuove macerie. Il nuovo materiale di risulta di questa ballata dei rifiuti escrementizia, gli indesiderata output del nostro stile di vita. Potremo decrescere (felicemente o meno), applicare sei, sette o tutte e otto le R latouchiane (Riciclare, Risparmiare, Rivalutare, Ridurre, Ristrutturare, Rilocalizzare, Riutilizzare, Ricontestualizzare), ma per quanto continueremo a volgere il capo dall'altra parte, la nostra umanità, la civiltà (occidentale o orientale, questo spettacolo dimostra, non c’è più distinzione che tenga) finisce nel modo in cui trattiamo gli effetti indesiderati del nostro potere con le loro Lebensunwertes Leben: nel fondo di quella grande tazza di cesso cui stiamo riducendo il nostro Mediterraneo, e non ci sarà tirata di scarico che tenga per nascondere sotto il tappeto delle nostre coscienze il nuovo grande rimosso genocidio in cui siamo tutti coinvolti (seminatori d'odio professionisti, saprofagi stercorari politicanti e taciturna manipolata maggioranza passiva).

 


P.S. (doverosissimo): mezione a sé merita quel mattatore d’altri tempi, camaleontico, dai grifagni occhi bistrati, il cranio da bonzo e la barba sulfurea: Giovanni Serratore buca il palco con la sua presenza scenica, spadroneggiando. In lui sembra di rivedere un nuovo Dominique Pinon (l’attore feticcio di Jeunet, vedi il delicatissimo La cité des enfants perdus) sul corpo di Ron Perlman. Istrionico e irridente, viscido nella parte del sordido erotografomane convulso e impenitente del sinistro Ufficio Affari Esteri, legittimo erede del maialesco Zhu Wuneng, che si spoglia del completo giallo semaforo solo per mostrare un corpetto satinato, la sua rancida performance da cronenberghiana Liza Minnelli sotto estrogeni che si procura tagli di soffocato piacere come la Gyllenhaal di The Secretary è inarrivabile. Laido nelle vesti della guardia della Rivoluzione, clownesca maschera che con la sua mimica da novello Belushi strappa risate a tutta chiostra, è una presenza che, manco il tempo di calare il sipario, l’entusiastico travolgimento cede al rimpanto.

P.P.S.: disattese le aspettative riposte in un collage di carveriani brevi racconti della cloaca a far le veci del cuscino, per ulteriori approfondimenti si rimanda a un’opera che, dall’intimismo lirico riesce a passare all’epopea di tutta una nazione. Non è un romanzo, o un film, ma un manhua. L’autobiografica graphic novel di Li Kunwu, La mia vita cinese, riesce a rendere giustizia, nell’unico modo possibile rimanendo forma d’arte, ovvero filtrata dall’occhio centrifugo dell’uomo con la matita, alla storia di un popolo intero, conciliando postmodernismo e originalità, scartando le facili sirene dell’autoreferenzialità. Se è vero che i consigli vanno dati solo quando richiesti, le cose belle vanno sempre messe in condivisione e diffuse. Anche se sono Cesuo.       



 


La Cina in scena
Cessi pubblici
di
Guo Shixing
traduzione e regia Sergio Basso
assistente alla regia Lucia Messina
acting coach Karina Arutyunyan
con Lidia Castella, Cristina Castigliola, Giovanni Serratore, Francesco Meola, Lucia Messina, Elena Nico, Alessandra Raichi, Matteo Prosperi
scenografia Federica Pellati
direzione cori Camilla Barbarito
produzione Teatraz
lingua italiano
durata 1’40’
Napoli, Galleria Toledo, 16 maggio 2019
in scena 15 e 16 maggio 2019

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