“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 25 February 2019 00:00

Medea, che siamo noi

Written by 

L’assito c’è, è di legno, ma non è un palcoscenico: è il calpestio di un furgone bianco del ’94 che lo scenografo Filippo Sarcinelli ha allestito per Medea di strada del Teatro dei Borgia. All’interno solo sette posti disposti lungo i tre lati del furgone dove siedono gli spettatori, a stretto contatto tra loro, scomodi perché è il solo modo per entrare nella scomodissima vita della protagonista che a breve si paleserà.

Un pannello basso con una carta geografica separa questo spazio da quello del conducente, che altri non è che il regista Gianpiero Borgia. Ruolo silenzioso per lui che continua il suo lavoro di “con”- duttore della storia, che ci porta fisicamente per le strade cittadine della prostituzione attraversando la storia di Medea mentre si sta svolgendo, interpretando la direzione artistica come un ruolo che non si esaurisce solo nell’allestimento, ma l’accompagna fino alla sua conclusione e alla sua replica, nell’ottica di un progetto civile e sociale continuamente in divenire che ha sempre da aggiungere e modificare. Sì, perché questa Medea ha attraversato il mito storico e si è incarnata in una giovane rumena che ha cercato di vivere libera finché ha potuto, finché ha incontrato un Giasone italiano che l’ha costretta a prostituirsi fino alla tragedia greca della sua esistenza. Quindi lo spazio scenico è tutto qui, in pochi metri quadrati, all’interno di un furgone scomodo illuminato da un piccolo abat-jour, da una cornice di lucine colorate che delinea un esiguo proscenio dove vi è l’ottavo sediolino.
Si parte da via Speranzella, nei Quartieri Spagnoli, davanti al Teatro La Giostra che apre squarci nuovi di vera drammaturgia. Sette spettatori-passeggeri che si arrampicano sul furgone per prendervi posto. All’interno, l’aria asfittica è impregnata del puzzo della nafta, che insieme al cigolio del furgone ci accompagnerà per tutto il viaggio. Dopo pochi metri dalla partenza, dei colpi forti e secchi risuonano sulla lamiera. La voce di una donna intima all’autista di fermarsi. Apre il portellone sedendosi al posto vuoto, dando le spalle all’autista. È lei, Medea, l’attrice Elena Cotugno, molto più che straordinaria, colpisce immediatamente sin dal primo istante. Ha lunghi capelli corvini, occhi magnetici incorniciati da sopracciglia che dipingono un arco perfetto. È bellissima anche nella sua tuta nera. Si scusa mentre ci sorride dicendo che a Napoli sono tutti pazzi. Ha una risata leggermente forzata, mentre il suo accento rumeno si confonde con quel sorriso gentile, talvolta incerto. Si rivolge a noi passeggeri chiedendo continuamente perdono per la sua loquacità. Sembra tutto vero. È vero. Inizia un processo di straniamento e al tempo stesso di immedesimazione originato da una drammaturgia asciutta e studiata fin nelle sfumature emotive. L’atmosfera è imbarazzante, sappiamo tutti che lei è Elena Cotugno, nel ruolo della prostituta Medea, ma noi vediamo Medea. La situazione è scomoda, appunto, anche “disturbante” dice il regista nelle note di regia. Medea non forza le nostre imbarazzanti resistenze, le nostre titubanze a rispondere ai suoi interrogativi, sempre con un sorriso, cercando un contatto con gli occhi, con la sua voce dall’accento morbido. Mentre l’autista scala le marce e il panorama stradale si confonde tra centro e periferia, tra la Marina, Gianturco e piazza Plebiscito, si snoda il racconto che Medea fa agli occasionali compagni di viaggio. Da Bucarest è fuggita insieme alla famiglia in un paese sperduto della Romania quando il padre si è ribellato alla dittatura di Ceauşescu, rievocando un’infanzia e un’adolescenza serena, dignitosa dove il padre è la figura maschile dominante, che cercava di mitigare le sofferenze giocando con i suoi figli imitando il pupazzo Dudock, coprendosi con il cappotto e il cappello. Ride, Medea, ricordando il pupazzo, il padre, quel mondo perduto per sempre e sotto quel riso sappiamo tutto il dolore che c’è perché lo leggiamo nei suoi occhi.
Il viaggio in Italia alla ricerca di un lavoro sembra l’unica salvezza per la giovane, ma come tutti i migranti allettati dal miraggio, nemmeno lei sfugge alla trappola che il Giasone italiano le prepara. Non c’è l’Eldorado in Italia, c’è la schiavitù, la tortura dell’anima prima ancora del corpo, la perdita totale della dignità. Nel furgone Medea si spoglia, ci mostra i suoi volgari stivaloni da “lavoro”, si sfila numerose mutandine per quantificare la sua clientela, scende dal furgone confondendosi con le vere prostitute, queste invece, di chissà quale Paese africano. Realtà e finzione sono ormai una sola cosa. Il sorriso dolce e la risata forzata non l’abbandoneranno quasi mai, nemmeno quando riprende il nostro viaggio, proseguendo la sua storia. La casetta dove Giasone dai capelli rossi la sistema promettendole un matrimonio che non avverrà mai, il lavoro da prostituta anche poco prima di partorire i due gemelli, le poche amiche colleghe che cercano di aprirle gli occhi sulle intenzioni del suo uomo. La nostra Medea rumena è come la Medea greca illusa, ferita, ingannata, tradita, aggrappata all’idea che il suo Giasone non può abbandonarla perché è padre dei suoi figli. Non può sposare un’altra perché lui è padre. Secondo lei un padre è più importante della madre, perché è facile amare la propria madre, è naturale, ma un padre ”si sceglie di amarlo”. Il suo ragionamento ci sta accompagnando all’epilogo che già sappiamo. Medea in fondo ci ha già preparato quando ci raccontava che in quel paesello sperduto in Romania aveva imparato ad uccidere il maiale. “Tutto si può fare” ripete spesso. “Io so fare”.
Le grida del maiale che sembrano quelle dei bambini. Ma i suoi bambini non hanno pianto quando li ha scannati insieme all’amante del suo Giasone rosso perché lei li ha amorevolmente ingannati giocando al pagliaccio Dudock. La tragedia si è compiuta, Medea mette via gli stivali, si riveste, toglie la parrucca corvina e il trucco dagli occhi. È una donna giovane con la coda di cavallo, innocente, lo sguardo rassegnato. “Cosa dovevo fare?”, ci ripete più volte una ragazza illusa e disillusa, che non è  nessuno, senza identità, vittima non colpevole di un sistema che sfrutta la schiavitù che il mondo opulento si rifiuta di vedere. Quando chiude il portellone e svanisce nella sera, un silenzio pesante, cupo, si allarga nell’abitacolo, lasciandoci attoniti, compassionevoli. Medea è stata con noi, è sempre stata accanto a noi, ricordandoci che è in tutte le persone sventurate che arrivano nel nostro Paese, schiavizzate, arricchendo la malavita organizzata, mentre il mondo e le istituzioni si voltano dall’altra parte, cancellandole, negandole un permesso di soggiorno che è una possibilità di vita.
Elena Cotugno ci saluta al capolinea, accogliendo le nostre domande e presentando il progetto del Teatro dei Borgia, che è un progetto di teatro civile. È uno studio sociologico sulla prostituzione e sull’emarginazione che va avanti da alcuni anni partendo dalle strade della Puglia e facendo tappa in diverse città italiane. Il loro teatro si inserisce in una fitta rete di operatori e associazioni che aiutano e sostengono le nuove schiave del capitalismo globale, dando risalto alle loro storie universali, smuovendo ciò che si è perso: la compassione, nel senso di cum patire, soffrire insieme.
Elena Cotugno è eccezionale nella sua interpretazione che trova motivazione, giustificazione e slancio nel lungo studio con questi operatori che cercano da anni strappare al racket queste Medee. Sono loro che chiedono il passaggio su quel furgone sgangherato e puzzolente, non è Elena, non è Medea. Sono migliaia di Medea.
Un lavoro da non perdere. Per nessun motivo.

 




Medea per strada

ideazione e regia Gianpiero Borgia
drammaturgia Fabrizio Sinisi, Elena Cotugno
con Elena Cotugno, Gianpiero Borgia
progetto scenografico Filippo Sarcinelli
luci Pasquale D'Oronzo
organizzazione Domenico D’Introno
distribuzione Paolo Gorietti
amministrazione e produzione Delia Tondo
progetto grafico Željka Kovačić, Roberto D’Introno
foto di scena Marcello Norberth
produzione Teatro dei Borgia
lingua italiano
durata 1h 10’
Napoli, Teatro La Giostra, 19 febbraio 2019
in scena dal 19 al 24 febbraio 2019

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook