“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 12 February 2017 00:00

Sulla punta di un naso turchino

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Nasce dal dolore, Pinocchio, come tutti gli altri bambini. “Vuoi proprio venire al mondo?” chiede la fata “cercheranno disperatamente di ucciderti, nel fuoco, nell’acqua, impiccandoti”. È una scommessa antica: volerci al mondo nonostante la consapevolezza che, ad ogni passo, la morte cercherà di mettere i bastoni tra le ruote anche alla vita più ruggente. Sulla linea sottile che separa la vita e la morte, Pinocchio nasce sotto il segno del dolore e nel dolore tenterà di articolare una possibilità d’esistenza.

Antonio Latella porta in scena un Pinocchio maraviglioso, dove la maraviglia è turchina, colore del fantastico, sempre in bilico fra creazione e distruzione. Il turchino è stupore e paura, richiama l’idea greca di thauma, terrore e sorpresa insieme. La prima volta che si parla del colore turchino, nel corso della storia, è il naso di Mastro Ciliegia ad aver assunto questo colore a causa di un improvviso spavento. Sul palco di Latella, la maraviglia è sorella della paura.
Pinocchio non nasce soltanto dalle mani del falegname, ma anche dal regno del turchino. Mastro Ciliegia rivendica la paternità del colore del suo naso impaurito “turchino come la conoscenza, la creazione. Pinocchio appartiene al turchino, è questo colore che lo ha fatto. È il mare”. Geppetto risponde: “Sono le mie mani che lo hanno scolpito”. Cielo e terra, fantastico e reale, idea e materia, il burattino nasce dall’impossibile sintesi di queste lacerazioni.
Simile all’Unheimlich freudiano, ossia il perturbante nascosto al fondo di ciò che sembra familiare, il turchino affonda le sue radici proprio nella famiglia, nucleo delle generazioni, concatenamento di corpi e destini. Padre e figlio sono esistenze saldate fra di loro, tempi passati che creano tempi a venire. Crescono le parti del corpo di Pinocchio a partire dalle parti del corpo di Geppetto. Durante tutto lo spettacolo, ad ogni parola del figlio, il corpo del padre reagisce. Quando Pinocchio viene impiccato, tremano i piedi di Geppetto, di un tremore impercettibile e ineludibile. “Bambino-babbino” ripete il burattino. Una vita chiama l’altra, senza soluzione di continuità. “Non siamo in due, non siamo mai stati in due e non saremo mai in due”. Essere in due significa riconoscere un’alterità, nella prossimità come nella distanza. Pinocchio e Geppetto, invece, sono più simili all’uno che al due. Estraneità nel medesimo anziché libertà nella differenza.
Senza il due, padre e figlio non riescono a separarsi, a conoscersi, a riconoscersi, ad amarsi. Il padre non è innocente. Non vuole essere in due, non vuole un figlio che cresca e faccia la sua vita, non vuole che il burattino abbia una coscienza sua. Geppetto costruisce Pinocchio solo perché vuole avere un fenomeno da baraccone a disposizione, da esibire nei circhi, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali. Infatti, nasce eccezionale Pinocchio, sa parlare sin dal primo istante. Eppure parla una lingua differente da quella che il padre vorrebbe per lui. Già da sempre, il padre lo ha abbandonato. “Fare un figlio non vuol dire amarlo” e il padre non può amare Pinocchio perché è morto – oramai lo sappiamo tutti che Dio è morto, ma sentircelo dire da Pinocchio fa una certa impressione – Geppetto, che siamo abituati ad immaginare come padre affidabile, che rincorre il figlio fino in capo al mondo, sul palco di Latella mente e fugge. Il padre non può essere più un punto di riferimento. Questa mancanza produce uno svuotamento nella costituzione dell’identità di Pinocchio, che accusa il padre “mi hai fatto NULLA”.
A partire da questo nulla di senso, Pinocchio nasce come ribellione assoluta. È un orfano che corre con il cordone ombelicale attaccato ad un padre impotente, che fa eco ad ogni suo gesto. Corre Pinocchio, corre sempre. Appena impara a camminare, comincia a correre e non si ferma mai. “Per me si va” ripete: “Per me” è l’affermazione disperata di un io che non è un io, un burattino che combatte per diventare sé stesso, “si va” sempre avanti, fino all’inferno. Si nasce dal dolore e verso il dolore si corre. Avventura della crescita, Pinocchio corre alla ricerca di un’identità che sfugga alla stabilità cui lo vorrebbe costringere il padre. Latella propone una storia di formazione che non si limita ad accenti intimistici o psicologici, ma si fa narrazione universale, sinfonia del susseguirsi delle generazioni.
Corre ininterrottamente Pinocchio. Ha sempre fame. Il suo naso non cresce per le bugie, ma per quell’istinto vitale elementare che è appunto la fame. Sintomo di un appetito insaziabile, il naso cresce divenendo immagine dell’illimitato. Il Pinocchio di Latella è un dramma della dismisura. Il burattino non conosce alcun limite. Sarebbe insufficiente sostenere che Pinocchio incarni simbolicamente l’adolescenza come età della perenne insoddisfazione, dal momento che questo spettacolo rappresenta il movimento della crescita tout court. Il dolore di Pinocchio è legato all’aspirazione ad un’esistenza autonoma ed alla spinta verso la metamorfosi. Nel desiderio di una vita che sia sempre diversa, la ripetizione viene vissuta come tragica condanna per cui “ciò che deve avvenire è ciò che c’è già”. Pinocchio vuole sempre di più, e vuole sempre il nuovo. Tragicamente, gli sembra di aver già vissuto ogni situazione che si trova ad attraversare. E allora corre, senza una fine e senza un fine, non fa che correre. Dimenticando ogni limite, dimentica finanche il suo corpo, non lo lascia riposare. “Sognare... dormire...” risuona Amleto, ma Pinocchio risponde “non si può dormire con tutta codesta facilità... felicità!”. La rincorsa della felicità rende il sonno una perdita di tempo. Pinocchio ha una sovrabbondanza di energia vitale, una fame di vita infinita, che ingigantisce il suo naso e fa dimenticare il riposo. Nella sua corsa piena di adrenalina e di affanno, non è possibile immaginare alcun appagamento. Pinocchio è progressivamente sfiancato dall’eccesso del suo desiderio, ad un certo punto non ne può più. Ma come si fa a smettere di volere? Lucignolo suggerisce che si può andare sempre più lontano. Fermarsi significherebbe forse diventare un bambino vero, ossia raggiungere un livello di stabilità che somigli alla verità. Ma Pinocchio, figura dell’illimitato, vuole la sua verità, parla la sua lingua e rincorre il miraggio di un’autonomia. Egli rifiuta categoricamente la stabilità che gli viene imposta sin da principio.
D’altra parte, tale stabilità, incarnata da Geppetto, è una falsa figura del limite. Il padre si raccomanda “non aprire quella porta là. Là fuori c’è la gente. La gente non ci sente. Fanno tutti lallallà fanno tutti blablablà. Pinocchio non andare, là ci perdiamo”. Geppetto è la paura dell’ignoto. Tutto ciò che sta fuori dalla porta di casa rappresenta un rischio per lui. Il padre ammonisce di non uscire, di non andare, ci si può perdere. Invece a Pinocchio piace quello che c’è fuori, è tutto aperto, è tutto possibile. La cautela del padre non capisce la voglia di andare per il mondo. Un pulcino consiglia Pinocchio: “Se fossi in voi non mi muoverei da casa. È così bello sapere dove stare. Avere un luogo in nessun luogo”. Nel sistema di valori del padre, la casa è l’unico luogo in un mondo di non-luoghi. La forma di sicurezza della casa è la stessa della proprietà, sapere che qualcosa è mio per sentire di essere io, di essere qualcuno di determinato, di non perdermi nell’indifferenziato della gente che sta fuori.
Tuttavia, la casa non può essere il limite della fame infinita di Pinocchio. Il suo desiderio di vita deve per forza varcare la porta di casa e uscire nel mondo, come ogni percorso di formazione. L’autentico senso del limite, fra i personaggi messi in scena da Latella, non è la prudenza del padre, ma la voce della coscienza, il Grillo Parlante. Per una geniale trovata drammaturgica, il Grillo conta ogni cosa. Conta il numero di salti che fa Pinocchio mentre si lamenta per la fame. Conta i minuti che impiega Geppetto per ricostruire i piedi al burattino. Conta i metri percorsi nelle sue avventure. Conta i mesi passati in prigione. Conta i minuti che Pinocchio muore. La coscienza è consapevolezza del ritmo, percezione della misura. Imparare a contare è la sola possibilità di trovare un’armonia nella dismisura della fame di vita di Pinocchio. Il Grillo incarna il vero senso del limite: non la casa, confine materiale, né il genitore, umano troppo umano per lasciare andare il figlio, ma la coscienza come cadenza pura, metronomo interiore. Il Grillo si stupisce quando Pinocchio conta le monete che ha ricevuto da Mangiafuoco, uno due tre quattro e cinque. Ma subito il burattino dimostra di non aver affatto imparato a contare, perdendosi dietro la fantasia di raddoppiare, triplicare, centuplicare le sue monete. Non le vuole contare, vuole che siano sempre di più, e così le perde tutte.
Cionondimeno, un altro ingrediente, al di là del limite e della dismisura, completa il quadro figurale di questo visionario Pinocchio: la Fata Turchina. Una bambina morta con il viso bianco come la cera, gli occhi sempre chiusi, i capelli blu. La Fata è l’immagine della fantasia assoluta. Altro dal reale, altro dal mondo, il turchino dei suoi capelli ci ricorda che siamo in una favola. Nel suo regno si trova tutto quello che si perde, e non si muore, si prova solo la sensazione della morte. È il regno della volontà dei bambini veri, che leggendo Pinocchio si lamentarono con l’autore e chiesero salva la vita del loro eroe burattino. È per questo che Pinocchio non muore impiccato, è stato salvato dall’immaginazione dei suoi piccoli lettori. La voce della Fata è la fantasia bambina che permette di risorgere, la linea turchina che rende permeabile il confine fra vita e morte. “Se non è morto, sarà certamente vivo” – gioca con le parole – “aveva tutte le caratteristiche di un uomo vivo che sono molto simili a quelle di un morto”.
Il confronto con la morte, limite per eccellenza, si fa progressivamente più serrato quando lo spettacolo si avvicina alla fine. Come tutte le storie, anche quest’avventura dell’illimitato, deve terminare. Lo spettacolo scende gradualmente verso le profondità del sottosuolo, fino alla quiete della pancia della balena. Il finale negli abissi ha l’atmosfera insolita della realtà, la normalità di un incontro fra un padre e un figlio che torna a casa. Non si riconoscono, non sanno niente l’uno dell’altro, è passato troppo tempo. È tutto così vero, così solido, così stabile. Si mangia. La sazietà è il compimento, è davvero la fine. La fame viene soddisfatta e il naso non cresce più.
La scena costruita da Latella è magnifica, favolosa e artigianale insieme, ricchissima senza ridondanza. Riempiono gli occhi, dall’inizio alla fine, immagini perfette, risultato di una combinazione alchemica fra gesti, luci e costumi. All’inizio dello spettacolo, a destra della scena, spunta un enorme tronco a mezz’aria. Nel secondo tempo, il tronco gira fino a posizionarsi frontale, davanti agli spettatori, con un capo volto verso il fondale e l’altro capo che sporge sul bordo del palco. Gli spettatori hanno di fronte a sé la superficie tagliata con gli innumerevoli cerchi concentrici. Quando si chiude il sipario, un pezzo del tronco rimane fuori, la circonferenza lignea spunta al di là dello spettacolo. È un’eccedenza assoluta che suona come un’accusa. Sembra chiedere “chi te l’ha data tutta questa verità” a te che ti alzi dalla poltrona, esci dal teatro, riprendi a parlare con gli amici. Ancora ti chiede, il tronco che esce dal sipario, a te che vai a mangiare e riesci a dormire “chi te l’ha data tutta questa verità” a te che ricominci a vivere dimenticandoti del burattino che corre.

 


 

Pinocchio
da
Carlo Collodi
regia Antonio Latella
drammaturgia Antonio Latella, Federico Bellini, Linda Dalisi
con Michele Andrei, Anna Coppola, Stefano Laguni, Christian La Rosa, Fabio Pasquini, Matteo Pennese, Marta Pizzigallo, Massimiliano Speziani 
scene Giuseppe Stellato
costumi
Graziella Pepe
luci Simone De Angelis
musiche e suono Franco Visioli
assistenti alla regia Brunella Giolivo, Michele Mele
assistente volontario alla regia Matteo Luoni
foto di scena Brunella Giolivo
produzione Teatro di Milano – Teatro d’Europa
lingua italiano
durata 2h 50'
Milano, Piccolo Teatro Strehler, 31 gennaio 2017
in scena dal 19 gennaio al 12 febbraio 2017

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