“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Alessandro Toppi

Un gioco (acerbo)

Toc Toc? di Laurent Baffie – nel mettere in scena sei disturbati che, in attesa del proprio psicologo, tentano l’autoterapia dandosi vicendevolmente sostegno – è un gioco teatrale, uno scherzo d’assito, un piccolo marchingegno rigorosamente confinato sul palco. Nessuna volontà di alludere all’importanza della psichiatria e della psicologia; nessun interesse a mettere in discussione il rapporto tra il disturbo e la cura del disturbo medesimo; nessun impegno nel lasciare traccia teorica o presa di posizione sul disagio mentale.

Il pasto della guerra

Panini col salame, aringhe, un cosciotto, una mela cotta. Salsicce, cetriolini, bistecche ma tenere, “non piene di nervi”. Pasticcini, babà, millefoglie e noccioline, riso, pane, avanzi di patate, grasso di maiale. Shitz ha nel cibo il suo primo contenuto testuale. Cibo, cibo, cibo: a tutte le ore, in ogni occasione; qualunque sia l’evento, qualunque sia la scusa. “L’unica cosa che mi lega ancora alla vita è l’odore del salame” dice il padre mentre la figlia, felice di “evocare il pranzo di oggi”, compie l’elogio delle patatine: “Quando vedo una patatina, mi emoziono. Ah, la patatina, guizza, sotto il dente crocca. È come un maschio abbronzato che abbrustolisce sotto il sole desertico, è come un eroe antico in un sogno asiatico. Se potessi mi sposerei con un cartoccio di patatine”. E – soltanto per mettere in rapporto i due personaggi già evocati –  ecco cosa dice ancora il padre, a un certo punto: “È tutto tenero, fresco, si scioglie in bocca”. Sembra parli di un alimento qualsiasi mentre sta descrivendo il corpo della figlia, accompagnando le parole con un ghigno succoso e un viscido movimento della lingua.

L'arrivo della grande balena

La città è una larga pozzanghera di spazzatura ghiacciata. I lampioni notturni sono spenti lasciando le zone destinate alla collettività al buio. I treni, quando giungono a destinazione, accumulano ritardi spropositati. La linea di autobus non prevede corse serali. I negozi del centro, un tempo celebri botteghe artigiane, sono tristi empori dalle vetrine o tutte uguali o tutte vuote. Gli alberi seccano nei giardini, i giardini seccano nelle aiuole, le aiuole seccano nei recinti, la cui pittura secca di ruggine, offerta all’intemperie dell’aria. L’orologio del campanile porta un’ora probabilmente sbagliata. Gli ippocastani che dovrebbero addobbare i viali rendono i viali più tristi. I portoni dei palazzi non hanno maniglie, i citofoni gracchiano come corvi che hanno la tosse, il legno mostra buchi dovuti a tarli e grosse macchie di muffa. Latrati strazianti di cani, come se si azzannassero. Un branco di gatti audaci e insolenti, acquattati dopo aver vagabondato senza trovare cibo. Una piccola mosca fastidiosa, nonostante l’ora e nonostante la stagione.

Il quadro, la scena

Il punto di partenza per compiere un ragionamento su Monocle è che si tratta – innanzittutto – della resa parlante di un dipinto. Cercare nello spettacolo un’allusione storica d'allora o di oggi o un senso politico passato o attuale rappresenterebbe una forzatura critica, un’aggiunta arbitraria. La Berlino degli anni ’20. Il racconto dell’affermazione nazista. Lo spettro dittatoriale volto al presente. La Francia, la Germania e dunque l’Europa. Il Novecento. Il sonno della ragione. La guerra. Ma anche il mito androgino, la molteplicità sessuale, la trasfigurazione del femminile in maschile e viceversa. Tutto questo non c’è, se non come suggestione effimera, consequenziale o di rimando. C’è invece, sul palco, un interessante azzardo di scena: far parlare un quadro o, meglio ancora, far parlare la figura di un quadro inducendola a condividere un sentimento mai detto, raramente percepito, ora immaginato. E farlo attraverso il teatro.

Il teatro, la fabbrica

Uno degli errori più frequenti è quello di considerare La Madre parte del teatro didattico di Bertolt Brecht: non lo è. Brecht, infatti, afferma espressamente che si tratta di un testo “scritto alla maniera del teatro didattico” e, quindi, non facente parte dello stesso ciclo cui appartengono, ad esempio, Il consenziente o Il dissenziente, La linea di condotta, L’eccezione e la regola. In cosa differisce? Nel fatto – sempre parola di Brecht – che “esige degli attori”. Potrebbe sembrare una minuzia ma questo “esige degli attori”, invece, è fondamentale.

Votte fore!

Non deve essere un caso che Mimmo Borrelli, nel riapparire teatralmente a Napoli, riceva come luogo di destinazione e di scena l’ampio spazio interrato della Chiesa del Purgatorio ad Arco. Non deve essere un caso perché lì, in effetti, stazionano ossa e teschi senza nome e rimasti senza preghiera, fermi nell’ampia soglia tra il Paradiso e l’Inferno, in attesa di sapere a quale futuro sono destinati. Non deve essere un caso perché è come se, la natura di questo evento teatrale, ci dicesse che il posto che tocca alla nuova drammaturgia napoletana (ed al nuovo teatro di Partenope) è un posto nascosto, residuo, celato o affossato, ridotto, periferico quando non intimo, segreto, privato. Altrove dai grandi teatri cittadini, altrove da uno Stabile sempre più incartapecorito su se stesso, altrove anche da una serie di piccole e medie sale che (come dare loro torto, talvolta?) fanno sempre più fatica a fare scouting, ad ospitare il nuovo, ad azzardare il diverso.

In una parola: Teatro

L’impressione è che, questa volta, Fausto Paravidino abbia fatto del tema un pretesto e della forma il vero tema. Non conta ciò che viene detto dagli attori né ciò che davvero viene compiuto sul palco: conta il modo di dirlo e di farlo. Ma se ciò corrisponde al vero allora siamo in piena esaltazione del teatro attraverso l'esercizio del teatro. “L’estetica è pratica” dice Peter Brook, a cui ruberemo pertanto la frase per uno dei titoli dei capitoli di cui si compone la recensione e quello che deve fare chi scrive, trovatosi al cospetto di Exit, è semplicemente prendere nota dell’insieme di trucchi e di giochi (solitamente nascosti) che Paravidino utilizza, smascherandone l’utilizzo medesimo. Potremo così scrivere di un triangolo amoroso come pura scusa argomentativa, di una voluta banalità delle parole (e del loro vero utilizzo) e poi dilungarci sulla fattura visiva e testuale dell’opera. Proviamo.

Una regia sbagliata

Luca De Fusco incastona Antonio e Cleopatra sul fondo scena, impone a mezzo palco un velario, fa dello spazio di ribalta una passerella per qualche luogotenente, una o due serve, un soldato, un generale, un ufficiale, una sentinella. Reitera il gioco delle video proiezioni (già usate in Antigone e in Un paio di occhiali) confermando la sua ultima propensione a fare del teatro un cineteatro post-brechtiano, tra gigantografie di volti e sguardi-ossessione, e costringe gli interpreti a recitare – più che a favore del pubblico – a favore delle telecamere perché, le telecamere, imprimano sul telo l’immagine. Ma l'epicità presunta (il rimando della re-citazione) si unisce al contrario dell’epicità (l’immedesimazione assoluta): ne viene una contraddizione insanabile.

Appunti sulle puttane di Moscato

Forse il senso di Patria Puttana è già tutto contenuto nel suo inizio, nella sua prima immagine: i tre camerini i cui sipari vengono aperti, mostrando altrettante figure intente al trucco e all’attesa; la musica che colma il silenzio; la parola che prende il posto della musica per cui – portatisi tra la soglia del proprio camerino e la ringhiera posta in avanti – i tre cominciano il proprio racconto, con-fondendo le voci in un’ecolalia fatta d’intrecci, sovrapposizioni, disturbi reciproci.

La nostra vita schifo

“Se poi domani mi sveglio e non ho un lavoro,
non ho una casa e, tutto quello che volevo fare
nella vita, non l’ho fatto che importa?
Basta che siamo insieme”.
(Il nostro amore schifo)

il Pickwick

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