“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Alessandro Toppi

Riflessioni e domande sulle direzioni di Luca De Fusco

Dunque, si è conclusa la settima edizione del Napoli Teatro Festival Italia.
E puntualissimo è arrivato il bilancio entusiastico che ne ha fatto il suo
direttore, Luca De Fusco. Ma i giudizi di De Fusco (gli dice qualcosa il
motto "Cicero pro domo sua"?) lasciano il tempo che trovano.

Nell’ambiente teatrale napoletano di oggi due cose vengono tenute in
sommo onore: l’omertà, al cui confronto quella che vige tra i mafiosi
è una barzelletta (o, a scelta, un valzer di Strauss ballato da un chierichetto
e una conversa), e il trasformismo servile nei confronti del potente di turno.
(Enrico Fiore, da 'Controscena.net')

La testimonianza di uno spettatore inadeguato

"Tornai in Francia. Senza noie passai la frontiera, ma fatto qualche chilometro nella campagna francese, alcuni gendarmi mi fermarono. I miei stracci erano troppo spagnoli. 
'Documenti!'
Mostrai dei pezzetti di carta sporchi e tutti strappati a forza di piegarli e di dispiegarli.
'E la scheda?'
'Quale scheda?'
Apprendevo così l'esistenza dell'umiliante scheda antropometrica. La consegnano a tutti i vagabondi. A ogni gendarmeria ci mettono un visto. Fui sbattuto dentro" (Jean Genet, Diario del ladro).

Prime note sul Teatro di Tino Caspanello

Avvertenza.
Non si tratta di una vera e propria recensione né di uno studio dotato di profondità e di ampiezza adeguata. Si tratta di prime note, scritte celermente, per avviare un confronto con la drammaturgia di Tino Caspanello. Scrittura − quella di Caspanello − che vive (anche) dell’eco

Mosca, tre anni, un diario

Scriverò un giorno una Storia della vita quotidiana nella
Mosca del 1919. − Non conosco altra Rivoluzione!
(Marina Cvetaeva)

 

“Mi sarebbe difficile andare avanti in ciò che faccio più volentieri, se non tenessi talvolta un diario. Non che io adoperi poi quelle pagine: esse non costituiscono mai la materia grezza per il mio vero lavoro. Ma un uomo come me, un uomo che conosce la violenza delle sue impressioni, sperimenta ogni particolarità di ogni giorno come se si trattasse del suo unico giorno, un uomo che vive di vere e proprie esagerazioni e, d’altronde, non combatte questa sua natura perché ciò che gli preme è lo spicco, l’acutezza e la concretezza di tutte le cose che compongono una vita, un uomo del genere esploderebbe in pezzi se non si calmasse scrivendo un diario”.

Noterella gaddiana sul Mussolini teatrale

“Un deficiente paranoico incantò in qualità di ‘genio’, di ‘profeta’, di ‘uomo inviato dalla Provvidenza’ milioni di italiani e di donne italiane (che pure loro ci ebbero a metter becco, le care pollanche, e vent’anni ci razzolarono in co-co-co-co gloriosi, su quel letame). Reperì nella sua immensurabile trivialità il pentacolo della facile magìa, la formula porca e lo strumento inane della incantagione. Si esibì e fece due doppî lustri una sola rota del tacchino: col bel pretesto psicagogico: che a trascinar le folle gli bisognava ingoiarle d’un mito, che fu quel funerario carnovale di coltella, di bande nere e di testoni di cartone, vuoti e funebri: e davanti a tutto quel nero funebre e tutti gli altri testoni funeratori il suo provolone alopecico di testa di cavolo massima e la sua facciaccia sozza e la su’ bocca sguaiata. Bagascia ladra, pescò su un letamaio dei miti un mito qualunque: lo spulizzì e grattò quanto gli venne fatto con le merdosissime unghie sue. Quel bandierone funebre lo issò all’antenna del fallo universo di fra il delirio d’un popolo delirante d’amore (finto), festante e commediante nel nero pantomimo delle smargiassate”.

Appunti sul Vanja di Tuminas

(primo appunto)
Rimas Tuminas comprende che in Čechov chi parla parla mentre chi ascolta non ascolta. Comprende che ogni frase è destinata a evaporare, a sfumare, a ridursi in un pulviscolo verbale. Comprende che mentre Vanja blatera Sof’ja non presta attenzione; che mentre Astrov disserta Elena pensa ad altro; che mentre Marija ciancica tutti gli altri sbuffano, sognano, vagheggiano illudendosi coi giochi o giocando con le illusioni. Per questo genera, in dialoghi fittizi, dei monologhi effettivi.

La vita, la morte e il teatro

(proviamo a ragionare)
Sul palco del San Ferdinando vediamo due quinte che non sembrano pareti di un interno ma che – dichiaratamente – restano palese materiale di scena per il teatro: se ne vedono le basi di legname, la loro dimensione è ridotta rispetto allo spazio complessivo e, le porte che contengono, non sono porte per davvero quanto un richiamo (metaforico) al presunto tema dell’opera (la morte): hanno perciò la forma di una bara.

Sono, questi due rettangoli, elementi destinati a una platea; sono arredo simbolico; sono soglie interne a un palcoscenico che rimane un palcoscenico e – almeno per chi scrive – hanno due funzioni opposte, differenti ma in stretta relazione. Occorre dunque analizzarle separatamente per tentare di capire le ragioni della scenografia e, attraverso queste, il senso posibile di Dolore sotto chiave.

(la quinta di sinistra)
La quinta di sinistra ha un telefono, unico mezzo effettivo di contatto con l’esterno, strumento di relazione con ciò che vive lontano e fuori scena. Da qui entra Lucia, dando inizio all’opera. Cammina lentamente, si avvicina alla tavola centrale, l'apparecchia come deve: tovaglia, bicchieri, posate, piatti. Lucia sembra svolgere una funzione quotidiana ma, in realtà, compie un gesto pre-rituale ovvero attua e concretizza la premessa perché, il rito che deve accadere, accada veramente. Scriviamo perciò che Lucia completa e perfeziona l’allestimento; conduce in palco gli oggetti che servono per lo sviluppo della trama; permette a Rocco di trovare ciò che gli occorre perché compia i gesti successivi (esempio: rompere un piatto gettandolo per terra). Per intenderci: se Lucia non apparecchiasse la tavola, Dolore sotto chiave non potrebbe esistere e non potrebbero esistere Rocco, Elena e utto ciò a cui assistiamo.
Sempre da sinistra entra Rocco. Indossa una giacca imbiancata sulle spalle: come se non venisse davvero da una piazza o da una strada ma da un retro-palco impolverato, da un vecchio magazzino di costumi, da un’attrezzeria nascosta e laterale. Rocco ha in mano una lettera ovvero ha in mano un testo scritto e – questo testo – definisce natura e condizione del personaggio, influenza i suoi comportamenti, determina anche la maniera in cui l’opera finisce, in cui lo spettacolo si chiude. La lettera, quindi, è un foglio della trama, è un’indicazione di ruolo, è un destino già segnato.
La porta di sinistra è la soglia che, varcata, permette l’esistenza, il mostrarsi e l'apparire e – se è un luogo di provenienza – diventa soprattutto il limite che separa assenza e presenza sull’assito: venendo da un retro che è il retro del teatro si percorre un corridoio, si passa da fuori a dentro, si passeggia fino ad arrivare al rettangolo in legname, lo si supera aprendo la porta, ci si affaccia giungendo al centro dello spazio. Da sinistra si giunge fino alla platea, allo sguardo degli astanti, al pubblico: da sinistra si arriva a teatro, si arriva al teatro.
Dunque, passato questo limite, comincia la vita ma la vita – in Dolore sotto chiave – è una recita, un’interpretazione, una menzogna.
Perciò: “Ma chi ti ha messo al mondo?”. Risposta implicita: l’autore.
Perciò: “Sono riuscita a nasconderti la verità”. Ovvero: ti ho mostrato una finzione.
Perciò: “Ma tu sei falso, tu sei un ipocrita”, cioè: sei un attore.
Perciò: “E cominciò la farsa”; “Hai recitato questa buffa e triste commedia”; “L’hai recitata bene la farsa. Tu e tutti gli altri: il portiere, sua moglie, i vicini…”.

(la quinta di destra)
Il rettangolo di destra ha la stessa forma, le stesse caratteristiche (fatta eccezione per il telefono). In questo caso la sua funzione è stabilita dalla trama: porterebbe in una stanza in cui dovrebbe riposare un terzo personaggio – Elena, moglie di Rocco – ridotta ormai allo stremo e, per la quale, ogni visita, rumore ed emozione, potrebbe esserle fatale. In realtà scopriamo presto che Elena è morta e che Lucia nasconde al fratello la sua fine. Ma, allora, la quinta di destra non porta al terzo personaggio ma alla Morte in quanto Morte. Azzardiamo perciò scriverdo che – mentre da sinistra si genera la vita – da destra si accede all’oltretomba, all’inesistenza, alla sparizione. A questo punto: se certamente le due porte sono soglie che portano alla nascita e alla morte va detto che – nascita e morte – vanno intese teatralmente: da un lato ci si avvia alla possibilità di manifestarsi in quanto attori, ruoli e personaggi; dall’altro questa possibilità sfuma, termina, si annulla.
Se, come abbiamo già scritto, la vita di Dolore sotto chiave è una recita allora ciò che si offre è teatro ed è il teatro – quindi – che si frappone tra la vita e la morte, al centro del palco del San Ferdinando.
Inoltre: non è forse il presente il tempo del teatro? Ed allora finché si sta in ribalta (prolungando l’attimo presente) si continua a esistere. Così da un lato (oltre la porta di sinistra) abbiamo il prima, ovvero ciò che precede la trama e la sua realizzazione pratica (ed infatti Rocco racconta la sua storia amore stando a sinistra); dall’altro (al di là della porta di destra) abbiamo il dopo, ovvero ciò che segue (ed infatti da destra verrà l'atto che chiude lo spettacolo).
Possiamo perciò  sintetizzare così:
− sinistra: nel retro c’è il passato, la sua soglia porta al presente, il presente è il compimento della recita.
− destra: oltre c’è il futuro, la sua soglia porta al buio e ciò che contiene è il nero che segue alla recita quando la recita è finita.
E in mezzo? In mezzo c’è l’adesso del teatro, che dura fin quando può durare. Il teatro vive infatti opponendosi alla morte ma muore della sua stessa vita: si sbriciola progressivamente, col procedere delle battute; si sfalda, si consuma, si riduce finendo a causa del suo darsi. Somiglia − per fare un paragone − a una candela, che vive per bruciare e che brucia fino a morire.
Il teatro è come una candela. 


(la candela, il prologo e la novella)
C’è questa candela, che apre e chiude Dolore sotto chiave diventandone segno evidente, simbolo effettivo. Portata in palco quando Lucia non è ancora entrata, non ha apparecchiato e non ha detto ancora una battuta, viene poi spenta da un soffio, provocando il buio e – con il buio – la fine dello spettacolo.
Chi porta (all'inizio) e spegne (alla fine) la candela? Un personaggio in aggiunta che – nei confronti del pubblico – svolge il ruolo di nocchiero, di banditore e portatore della visione. È in fondo questo personaggio che anticipa l’opera, annunciandone a suo modo temi evidenti e temi più nascosti, in una sorta di prologo poetico detto in endecasillabi napoletani.
Ma il testo da dove è tratto? È l’ampio frammento iniziale di una novella pirandelliana: I pensionati della memoria. E allora da I pensionati della memoria leggiamo: “A me tutti i morti che accompagno al camposanto, mi ritornano indietro. Fanno finta di esser morti, dentro la cassa. O forse veramente sono morti per sé. Ma non per me, vi prego di credere!”.
Vi leggiamo ancora che i morti “se ne rivengono meco, tutti, a casa mia. Ho la casa piena”; che “ma che morti! Sono tutti vivi. Vivi, come me, come voi; più di prima”; che però sono “disillusi” ovvero hanno compreso quanto sia fasulla la realtà mentre non è altro che una finzione: “un’illusione”, appunto.
Vi leggiamo infine: “Ahimé, c’è forse altra realtà fuori di questa illusione? E che cos’altro è dunque la morte se non la disillusione totale?”.
Per Pirandello i morti sono dunque disillusi perché la vita è un’illusione ovvero un insieme di bugie, una mascherata, una pantomima. Ne segue che – fin quando non si muore – possiamo continuare ad ingannare, ad ingannarci, ad essere ingannati. Come capita a teatro, finché il sipario non è chiuso.
Naturalmente ne I pensionati della memoria è facile vedere anche la conferma dei temi più cari a Pirandello: basta pensare all'immagine delle figure che penetrano in casa chiedendo di essere inserite in una commedia, perché possano vivere davvero la propria storia, la propria vita, il proprio strazio (il pensiero va a Personaggi, La tragedia di un personaggio, Colloqui coi personaggi; racconti da cui deriva Sei personaggi in cerca d’autore). E infatti – continuando con la novella – ancora vi leggiamo che i morti  “possono aver la consolazione di viver sempre, finché vivo io. E se n’approfittano! V’assicuro che se n’approfittano”. Qui, a parlare è direttamente Pirandello ossia il creatore, l’autore, il drammaturgo: i morti mi entrano in casa, mi chiedono di andare in scena, io acconsento con gran fatica permettendo loro di (ri)vivere, attraverso la scrittura. Essi così (ri)vivono: finché io scrivo, finché “vivo io”.
È questa tipologia di pirandellismo a cui Eduardo De Filippo s'ispira quando compone Dolore sotto chiave.
Allora questo becchino che dice il prologo, che porta la candela permettendo l’apertura del sipario, che soffia sul moccolo, imponendo la conclusione di Dolore sotto chiave è un rimando all'autore e – se è l'autore (Pirandello, De Filippo, De Filippo che guarda a Pirandello) – Lucia e Rocco sono due personaggi, la loro stanza è una scenografia e la loro vita non è che una trama “recitata bene”.
Come da copione.

(lo spettacolo)
Col prologo, dunque, si tenta di relazionare De Filippo a Pirandello (è pirandelliana una parte della produzione di Eduardo De Filippo; è pirandelliano questo Dolore sotto chiave, che evoca – per fantasia di situazione e metateatralità allusiva – altre scritture dello stesso Pirandello: si pensi alle novelle La trappola, Sgombero o La camera in attesa da cui l’autore siciliano trae La vita che ti diedi) ma, ciò che vediamo in palco, è una resa corretta e detta bene ma certamente non innovativa del testo di Eduardo.
Saponaro rispetta il dettato mutandolo solo parzialmente: aggiunge qualche battuta per evidenziarne alcuni aspetti impliciti (la gelosia possibile di Lucia per l’amore tra Rocco ed Elena) mentre taglia qualche frase ma eccesso; cancella alcuni personaggi secondari (la signora Paola) e di altri accorpa le battute (il fotografo Musella, lo scultore Tremoli) assegnandole a una figura sola (il professor Ricciuti).
Inoltre: di Dolore sotto chiave Saponaro ricorda che fu scritto come radiodramma e lo ricorda facendone riascoltare – inizialmente – brevi estratti d'annata; gioca con lo spazio (per cui si può ritornare da una stanza passando dove dovrebbe esserci una parete); induce all'accensione di un faro con l'utilizzo di una frase (a fondoscena, quando Rocco dice: "Apri la finestra, luce, luce!"); sottolinea la valenza metateatrale attraverso incisi ad hoc (“Mangiavi in fretta e scappavi da lei” diventa, ad esempio, “Non ti interessavi più al teatro, mangiavi in fretta e scappavi da lei”); stabilisce una relazione diretta con gli astanti spingendo − il dialogo che Lucia e Rocco hanno con il “Signore” − in ribalta e in piena luce: perché questo “Signore” coincida con il pubblico.
E se un dubbio forte rimane sulla scelta di far interpretare a un attore maschile la figura femminile (l’unica ragione che riusciamo a immaginare è la mascolinizzazione di Lucia, figura dominante della casa; se non si vuole risalire alle separazioni pre-spettacolo senza le quali avremmo visto in palco Cristiana Minasi) va sottolineato il tono bigotto ma con accenno da recitazione evidente con cui la stessa Lucia declama la preghiera finale (“Madonna mia, datemi la forza di vivere…”): come si preparasse già ad un nuovo ruolo (quello di zia), in vista di un'ipocrisia successiva.
Sia chiaro tuttavia che, i suddetti, sono  brevi segni re-interpretativi del testo eduardiano, offerti in uno spettacolo che si mostra consueto, controllato, tradizionalmente pseudo-eduardiano e che nel quale la recitazione si limita al buon riporto ma che non osa (come pure avrebbe potuto) con l'innovazione ulteriore. Pirandelliana l'origine insomma, poco pirandelliana ne è stata la resa: si potrebbe riassumere così.
Dolore sotto chiave, per il resto, si conferma un buon gioco da palcoscenico, in cui De Filippo contrappone la recita effettuata (quella di Lucia: “Elena deve vivere. La terrò in vita io”) alle recite mancate. Dice infatti Rocco: “Il dolore era mio lo capisci, e lo avrei sofferto tutto, tutto intero: fino in fondo. Mi sarei disperato, mi sarei strappato i capelli, avrei passato notti intere a piangere…”; poi così conclude: “Adesso come faccio a piangere? Dimmi tu come faccio? Non ne sento né la disposizione né la voglia”. Ovvero: ora mi è impossibile recitare ciò che avrei dovuto recitare allora e che non potrò recitare più. Quello spettacolo, insomma, non può essere questo spettacolo (questo è il motivo, ad esempio, per il quale Rocco rifiuta la solidarietà del professor Ricciuti: perché è giunta quando non è più tempo, quando non ci sono più le condizioni).
Naturalmente – come accade spesso con De Filippo – la finzione specchia il vero ed il vero contiene la finzione per cui Dolore sotto chiave ironizza molto con la propensione umana e naturale alla doppiezza, all’impostura, all'ipocrisia; propensione per la quale le parole sono un artifizio, una costruzione, un'invenzione accomodata. Ma − questo aspetto − non è che una variante ennesima del concetto eduardiano per cui “Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri, nella vita, recitano male”: è (brutto) teatro il nostro quotidiano; è (brutto) teatro il nostro "parlare tanto per parlare"; è (brutto) teatro questo teatro che insceniamo con tutti, tutti i giorni, in tutte le occasioni.
È (brutto) teatro che soltanto l'arte del Teatro smaschera contrapponendo − alla menzogna della verità − la verità della menzogna.

 

 

 

Napoli Teatro Festival Italia
Dolore sotto chiave
di Eduardo De Filippo
regia Francesco Saponaro
con Tony Laudadio, Luciano Saltarelli, Giampiero Schiano
scene e costumi Lino Fiorito
luci Cesare Accetta
suono Daghi Rondanini
assistente alla regia Giovanni Merano
produzione Fondazione Campania dei Festival, Napoli Teatro Festival Italia, Teatri Uniti
in collaborazione con Università della Calabria
lingua italiano e napoletano
durata 50'
Napoli, Teatro San Ferdinando, 19 giugno 2014
in scena 19 e 20 giugno 2014

 

Appunti sul Vanja di Savignone

(una vecchia casa)
Marcelo Savignone riempie il palco di ciarpame: un tavolo, un divano, tre sedie, un mobiletto con sopra un orologio e un posacenere, un giradischi, un carrello a due piani e – su ogni piano –  un vassoio con bottiglie da liquore e bicchieri di misura differente. Ancora: un lampadario, un tavolino esagonale, una sedia a rotelle, un grosso baule dal cui orlo s’intravedono cuscini, una chitarra, un violino. A destra, con la testiera alla parete di fondo, piazza un letto su cui adagia un cane di cartone; nell’angolo sistema una panca, altre sedie le colloca a sinistra. Poi, nel mezzo, c’è una porta gialla.

A Mosca! A Mosca!

(tre scene).
Primo atto. Irina – “uccellino mio bianco” – festeggia l’onomastico, sorridendo e saltellando come una bimba che ha appena ricevuto in dono i giocattoli. È mezzogiorno, fuori c’è il sole, in casa suona allegra la musica, le conversazioni producono risate mentre nel salone, il rumore dei piatti e dei bicchieri, dice che si sta apparecchiando la tavola per la colazione.

Appunti sul Vanja di Konchalovsky

Lo Zio Vanja di Konchalovsky è tradizionalmente contemporaneo: il regista, infatti, incastona l’interpretazione verista in una cornice metateatrale per cui piena partecipazione al ruolo e sosta laterale visibile (in attesa di guadagnare il centro della scena) si alternano di continuo; prevede un palco sul palco elevando perciò alla seconda il livello di finzione; fa della parete di fondo uno schermo su cui proiettare grandi immagini che rimandano all'autore prima ed alle vie trafficate di Mosca poi; propone il cambio scenografico a sipario aperto; concede un protagonismo apparente ai servi d'assito; allude poeticamente ad una fantasmatica dama bianca che sembra un angelo della vita possibile ma che è, anche, una metafora della nostalgia, della poesia, della mancanza (basterebbe pensare che penetra lo spettacolo e tocca la testa di zio Vanja, ispirandogli la consapevolezza che gli mancava); fonde il naturalismo dell’oggettistica (quasi un ritorno allo Stanislavskij che accumulava ciarpame) con l’assenza di pareti casalinghe, collocando il gran bazar russo all’interno di uno spazio neutro ed oscuro.

il Pickwick

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