“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Alessandro Toppi

Un capasottamento

Il primo dato che colpisce, di Per oggi non si cade, è la forma ovvero la maniera di darsi, il modo in cui si propone e in cui l'opera va recepita e vissuta. Il fruitore cammina, seguendo un sentiero pre-realizzato, mentre ascolta – uno dopo l’altro – i brandelli della storia usufruendo di una cuffia: le sue orecchie sono cinte da voci e rumori, i suoi occhi si relazionano, contemporaneamente, con le istallazioni create dai giovani artisti dell’Accademia. Potremmo definirla una sorta di auto-performance giacché – se tutto è predisposto in partenza perché il fatto artistico accada – questo stesso fatto artistico accade per volontà di chi si muove all’incontro: è a lui che tocca dettare i tempi dei propri passi, che tocca scegliere se stazionare o proseguire, che tocca liberamente dare (e darsi) un ritmo continuo o, piuttosto, una stasi o un rimando, attendendo (e facendo attendere) il prossimo pezzo della vicenda, il prossimo paragrafo del racconto.

Un tentativo andato a vuoto

(la pigrizia)
Il giardino dei ciliegi
è – più di ogni altra opera di Čechov – il racconto della pigrizia, del torpore, dell’atrofizzazione vischiosa di ogni gesto e di ogni parola. Un gruppo di possidenti ha una tenuta, questa tenuta rischia di essere svenduta, persa e abbattuta, ma questo gruppo di possidenti non alza un dito, non si scompone, nulla fa davvero per salvare casa, giardino, ricordi. Non facendo ciò che occorre perde tempo invece con altro: chiacchiera, blatera, canta al suono della chitarra, gioca al biliardo, cita poesie e parti di drammi, discute dei grandi temi della coscienza o balla, s’abbraccia, si sbaciucchia distendendo i piedi su una panchina, poggiando la testa a un cuscino, sorseggiando lentamente il caffè.

Riccardo Barracano

“La morte è povera cosa, ma chiude una ferita mortale”.
Occorre partire dalla fine, per Il sindaco del rione Sanità di Marco Sciaccaluga. Occorre partire dal momento in cui cala il sipario – un rigido velo nero – e, su di esso, compare questa frase, sottratta al Riccardo II di Shakespeare.
“La morte è povera cosa, ma chiude una ferita mortale”.
Occorre partire dall’ultimo segno per comprendere i segni precedenti, occorre partire dalle parole che chiudono per capire il valore delle parole già pronunciate, occorre partire da questa scelta per tentare di comprendere l’intera regia, tutto il lavoro, lo spettacolo intero.
“La morte è povera cosa, ma chiude una ferita mortale”.

Il viaggio del capitano Salgari

Si scrive per vivere molte vite. La tua non ti basta,
già decisa com’è dal principio alla fine. Si scrive
perché ti senti stretto. Perché vuoi essere un altro.
Perché vuoi essere considerato e stimato. Perché
hai bisogno di qualcuno che ti dica bravo. Perché
sei povero. Perché ti vergogni della casa dove stai.
Perché non vuoi fare il mestiere che fa tuo padre.
Perché non hai i soldi per viaggiare. Per pagarti le
donne che vuoi, quelle che vorresti portare al
ristorante o all’opera. Perché vuoi fargliela vedere a
qualcuno, ai prepotenti, agli invidiosi.
                   (Ernesto Ferrero, Disegnare il vento)

Intervista ad Alberto Moravia: il teatro è un romanzo

"E i teatri non mi sembrarono mai così belli, a Segeste, a Ostia, a Epidauro, a Delfo, come quando li vidi vuoti e morti; caldi di sole, con le lucertole guizzanti per le pietre e le erbe fervide d'insetti; deserti di spettatori per tutto il fitto sgretolio dei gradini rovinati; con la campagna distesa e silenziosa là dove, oltre il proscenio, un tempo si erano agitati con visi coperti da maschere i piccoli uomini dalle voci cavernose" e...
“Cosa sta facendo?”

La citavo.
“Lasci stare. Cominciamo”

Ma chi è Mimmo?

Tentata memoria prevede alcune caratteristiche che sono ormai consuete del teatro-documentario-in-forma-di-monologo.
Prevede uno spazio semicircolare di scena, qui definito da tre sedie (una sul fondo e due sui lati) e da sei copie di giornale (appoggiate in terra) nel quale si muove l’unico interprete.
Prevede una drammaturgia con finalità evocative (“ri-cor-dare: ridarsi cuore, restituirsi qualcosa o qualcuno”), che viene replicata in maniera non illusiva per cui agli scampoli recitativi segue il commento, agli accenni di interpretazione seguita una spiegazione o un rimando storico-politico-folclorico locale.

Napoli, Fisciano: ore 18.00

“Se si usa la vita che continua, la tradizione, nel modo
giusto, essa ci può dare le ali. Certo, se ci si ferma al
passato diventa un fatto negativo, ma se ce ne serviamo
come di un trampolino, salteremo molto più in alto che
se partissimo da terra".
                                                (Eduardo De Filippo)

Il gioco di Dostoevskij

È cosa ardua e piena di responsabilità parlare degnamente di Dostoevskij, anche soltanto della sua mania per il gioco, perché la grandezza e la potenza di quest’uomo richiedono una capacità di racconto che non mi appartiene.

Il senso (perduto) del tragico

L’errore più facile da commettere, nel fare recensione di OPS!, è soffermarsi sull’attualizzazione delle tragedie classiche cui lo spettacolo fa riferimento: certamente Medea, Oreste ed Edipo re ritornano in scena sotto forma di labile scheletro di rapporti e avvenimenti, rivestite di un basso contemporaneo volutamente caciarone e banale (tra villaggi vacanza, numeri al lotto e scherzose possessioni demoniache) ma, almeno a chi scrive, sembra che il vero tema del lavoro di Alessandro Errico ed Ettore Nigro sia un altro: OPS! riguarda non le tragedie ma il tragico, non le singole storie ma il sentimento che le rendeva un tempo esemplari e che adesso tramuta, vicende simili e odierne, in notizie che ascoltiamo con attenzione flebile, passeggera, puramente momentanea.

Sulla regia contemporanea. Un libro

“La parola regista appartiene anche alla nostra generazione, non è una parola di cui mi privo, mi piace l’idea che qualcuno mi abbia invitato qui come regista; in quanto colui che – o colei che – dà delle indicazioni a degli attori, inventa delle soluzioni, inventa uno spazio, fa dei ragionamenti attorno a delle parole che un autore scrive per lui o che stanno già là”.

il Pickwick

Sostieni


Facebook