“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 30 November 2014 00:00

Di pagina in pagina, di opera in opera

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Di pagina in pagina, di opera in opera. Lasciandosi suggerire le parole dalla visione, facendo seguire allo sguardo le lettere, per comporre brevi lacerti descrittivi, inevitabilmente manchevoli. Generare − così − descrizioni, un accompagnamento d'inchiostro, un andare insieme. Sessantadue artisti. Sessantadue opere. Sessantadue pagine. E, allora, sessantadue micronarrazioni.
Per la decima edizione di "Arte per la Ricerca FiorGen". Cominciamo.


Eccomi 2
, di Riccardo Antonelli, calca il segno sulla tela imponendo il quadro parziale e centrale di un volto del quale siano evidenti, digrossati ed incisi, le linee con cui il tempo misura gli anni di uomini e donne. Occhi dipinti saranno guardati dagli occhi del pubblico, in una frontalità fissa, umanissima, veritiera oltre misura.


Enzo Archetti dipinge la sua Pioggia d’infinito lasciando gocciolare su un cappello, che copre quasi a mezzo viso, un intarsio ageometrico di striature cromatiche, lacerti tonali, strappi colorati, generando così visibile contrasto tra l’altro obliquo e scontorto ed il basso puro, femmineo, pulito: quasi evanescente.


Massimo Barlettani intitola Vermiglio il suo fiore sovraesposto, radicalmente offerto alla vista del pubblico: fiammeggia no i petali, crepitio naturale dall’andamento vellutato, tuttavia attirando al entro dell’opera: al nero fitto, fondo e buio, che sa di sprofondo, d’abisso, d’oscuro profumo primigenio.


Roberto Barni lavora e cesella retouché su carta, curvando e addolcendo una composizione angolare che vive per sovrapposizione. Pluriplanimetria piramidale, accenna al moto e all’immobile e unisce direzioni ostinate e contrarie, lasciando a chi guarda decidere se si tratti di sostegno o di sfruttamento questo rapporto tra superiore e inferiore.


Il Riflesso dell’anima di Gianni Bellini è ciò che dice di essere: un riflesso appunto, albino, chiarissimo, come rubato alla prima luce d’un giorno. Chiarezza specchiante, per cui l’altro sono io ed io sono l’altro in cui mi rimiro. Macchia dolente, sanguigna ed incisa, in basso: tra decoro e allusione sofferta.


Giampaolo Bianchi sfida le leggi ideali della fisica, offrendo Equilibrio imposto o, se si vuole, una taciturna composizione alchemica di oggetti decorati, di esistenze incasellate. Un immutabile senso d’astrazione viene dal bilanciamento delle cose reali, generando un senso di contrasti e di commessure che, quasi magicamente, trovano la loro precaria fissità.


Maurizio Bini e Take a Train: l’olio su tela spande il lume giornaliero di un viaggio, lo scorcio parvente di un tragitto ammirato scivolando, lasciandosi trasportare. Divampa il paesaggio esterno, invisibile a chi osserva il quadro o meglio: percepibile nell’espressione soggetto del soggetto, le dita al mento le pupille su in alto. Acceso dialogo, vive di silenzio e di ammirazione momentanea.


Marco Bongianni, con la sua Danzatrice su tessuto/non tessuto, offre il dettaglio di un ballo, offre una fuggevole creatura aggraziata, immersa nel suo stesso girare mentre il reale trascolora in una patina argentea, bianca e nera di luci, di fari, di proscenio illuminato per lo spettacolo. Tintinna il dipinto, fermato fremito di un carillon da teatro.


La linea d’acqua, di Roberto Braida, allevia lo sguardo di chi l’ammira lasciandolo scorrere verso l’infinito. Una vitrea decorazione marina si stende, piena d’orpelli, di brillii, di riflessi inondandosi in progressione, distendendosi nel blu ombroso che va incontro a un riflesso, a un pallore, un abulìa all’orizzonte. Sorge così un panorama per l’anima che, delicatamente, s’abbandona.


Fabrizio Breschi dà forma di ciottoli alla terra de L’isola in fiore, o forma ancora di tondi ideali, leggeri come bolle, o soffici come lembi minuscoli di nubi di passaggio. Vi sorge, in questa geografia trasognata e asimmetrica, un fiore: drappo teso dalle viscere, ostinatezza solenne, naturale che s’impone alla spianata chiara dell’isola.


Similitudini fa del moto un fermo immagine, del corpo un pallore, tramutando le presenze possibili in anime fuggitive e spettrali, divergenti per sagoma ma identiche nel loro andare, passare, partire. S’impone il luogo-non-luogo moderno, offrendo compiute colorazioni scorrevoli mentre strascicano – uomini e donne larvali – la loro processione quotidiana.


Il Bassotto di Luca Canavicchio, realizzato in maiolica, è un arrotolato lucente, un virtuosismo carezzevole, un’esecuzione romantica capace di trasfondere nel corpo la pace, smaniandola però nei dettagli: la coda, curva finitura appuntita, ed il muso, che attenziona l’invisibile, gagliardamente vivissimo.


Massimo Cantini racconta. Il gonfiore teso del ventre trova simbologia esplicita nella cicogna, L’ultima cicogna, la cui creatura ideale vive, a mezzo volto, in primo piano. Sfalsata temporalità della nascita, per cui la tela contiene l’attesa, l’evento e il suo frutto.


Giganteggia – simbolo e rimando storico, emblema della fondazione, eco mitico, racconto sopravvissuto ai millenni, immagine incantata che vive oltre i secoli – La lupa nell’opera di Mauro Capitani; giganteggia arrossata alle mammelle e nella lingua, mentre altro rossore risplende, facendo da sfondo chimerico e richiamando il fulgore delle battaglie, degli incendi, della civiltà che divampa.


Appariscenza cosparsa di turgore cromatico, mureria solidissima e intarsiata da segni lampeggianti, brevi punti di colore, incrostazioni verdognole, linee che intersecano il loro andamento distorto, i loro ghiribizzi bianchissimi. Equilibrio di Giuliano Caporali è una partitura immobile eppure vivace, che bilancia la pietrificazione della base con le circostanze fortuite, le esposizione serpentine.


L’opera di Myriam Cappelletti, è una quadreria bicomposta, un duplice gioco liquido capace di rendere, l’andante perlustrativo degli animali, nel momento in cui questo si svolge. Stilizza geometricamente, componendo come per aggiunta o affissione di pannelli: onde, piante, riflessi e correnti vivono come simboli, attraverso i quali spazia La direzione del pesce.


Come afflitta decade, tintinnante resto di bronzo dorato, sciagurato dettaglio di un corpo che diventa emblema di quel corpo. La testa nominata Ortensiae, pregiato ritratto annerito, inciso da gesti lineari, intagliato e limato come s’intaglia e si lima un gioiello, uno splendente invetriato, una pietra preziosa. Sul trespolo in marmo s’imbatte, il lavoro di Claudia Chianucci, facendo contrastare materiali e colori.


La Donna di Fiori di Simone Cioni è una fabuleria, uno scherzo colorato dell’immaginazione, una creatura che alberga nei sogni avvampanti, colmi di filamenti giallastri delicati, mielosi. Sconclusionata meraviglia fantastica, vie tra sipari celesti, inafferrabili effigi volanti e una dimora turrita, plasticamente ricurva. Il gioco, diffonde, mentre indirizza il puntale dell’ombrello alle nuvole.


È nel momento in cui il giorno scolora, concedendo discesa al tramonto e poi alla notte, che Claudio Cionini coglie Montréal. Tremuli, gli edifici s’impongono come scuri torri angolari, moderne e annerite, da cui s’emana la modernità della luce, capace di fondersi, romanticamente, con gli ultimi barbagli solari. Quiete, dall’alto, mentre continua – urbana – la vita.


Il Paesaggio di Emilio Colombini è un arabescato di tocchi allusivi, d’accenni arroccati. Fissandone la costruzione apparente produce chiaroveggenza, immaginazione, l’apparenza: pare di scorgere, così, torri ed altane, mansarde, comignoli, viuzze; pare din scorgerne una vita in fermento, la sua forsennata andatura, la sua affollata solitudine.


Ha il volto dispiaciuto dall’addio, come percepisse il distacco piangendo ma senza versare lacrime, accompagnando con lo sguardo celeste ogni passo di chi si lontana, di chi s’abbandona. Il saluto dell’inverno di Elio De Luca è, così, una pastellata creatura sfumante, che s’attarda guardando, mentre t’offre la bianchezza di una mano infreddolita.


Un lume fa piovere tocchi di colore. La carta fa da parete, una linea orizzontale è il limite dello scorcio. Sinuosa s’alza la striatura del fumo, dilagando in altezza. Tratti veloci affastellano un volto maschile. Questa solitudine, qui, adesso. È l’Interno di Fabio De Poli: poetico, rabbuiato, pensante.


Incontro angolare di elementi, tocco, acqua e terra che si fronteggiano in alto e alla destra di chi guarda, agitando un colore verso l’altro, lasciandolo quasi spumare, facendolo riemergere per minuscoli lembi, qua e là, nell’ampio piano abbrustolito. È una convergenza esteticamente vigorosa Movimento mare di Salvatore Esposito: calcando i colori offre l’inevitabilità dello scontro, dell’impatto reciproco, dello sconcerto cromatico.


Celeste paesaggio chimerico, apparenza sfuggente, spettarle demonia dell’ambiente per cui ciò che è reale appare fantastico, ciò che è fantastico ha fattezze quasi reali. Ammalia, Landscape di Paul Fabre, evocando un’effige inafferrabile, che ha fattezze simili ai luoghi gelati, inquieti, immersi nel pallido polverìo della luna, in cui un’anima inquieta trova – forse – il proprio giaciglio ideale.


Pesci mediterranei, di Stefano Festa, è un allegorico teatrino innaturale, in cui, ogni elemento visibile, assume una forma geometricamente marcata. La linea diventa perciò  protagonista, cesellando sagome nette, in rilievo, colte in un perpetuo andare e venire, osservarsi e osservare. Ne viene una corografia palesemente inverosimile e, perciò, artisticamente veritiera.


Franco Mauro Franchi, con Figura seduta sul cubo, dà forma alla stasi, al peso, alla grossezza cadente. Tornisce i volumi, ingravandoli appositamente sul basso, riuscendo così a dare – a chi osserva – la schiacciante maestosità della fermezza. Come su un trono, questa donna mancata regina, signoreggia: mastodontica, ostenta grandigia semplice, bonaria vanagloria.


Strappato il velario sovrimposto da Danilo Fusi, un volto propone i suoi Sguardi invitando alla compartecipazione condivisiva. Come dal retro della tela – immagine riposta che trova il suo varco, imponendo alla luce la sua stessa esistenza – s’affaccia il tenue biancore di una donna: gli occhi delicati, i tratti come in trasparenza. D’un colorito livido, mestamente chiede attenzione.


Il Colle barocco di Giuliano Giuggioli è una molieriana figura naturale, una parvenza reale e campestre ad un tempo, orlata di grano che sembra alludere all’oro. Un sorriso imperialregio, appena accennato, fende il terreno mentre boccoli e barba sono i larghi tappeti paglierini Una corona d’alberi fa nobiltà: più in alto solo le nuvole, più in alto solo il cielo. Più in alto solo Dio.


Giovanni Gorini denatura la visione, associando lembo a lembo e colore a colore. Si procede perciò per astrazioni dimostrative, per associazioni allegoriche, affidate alla possibile indole di chi guarda. Ampi tagli cromatici, giustapposti o associati come capita ai fastelli di carte o di codici, generano una geografia dell’impressione, una mappatura interpretabile, un viaggio attraverso la pluralità possibile della percezione.


In collina. Fabio Grassi. La matita rifinisce il panorama, incidendone i bernoccoli gibbosi del terreno,  le storte sporgenze, le nuvole affumicate; rendendone le curvature d’erba e i sentieri in salita, l’alta direzione degli alberi e la tonale policromia di quest’ampiezza che monta, si gonfia, s’alza per cedere, lentamente, con languore naturale e benigno.


Dura petrosa, la Cava di Graziano Guiso guarda la luna, che la guarda a sua volta. Seduzione reciproca, bianchezza che cerca e trova bianchezza, impone all’osservatore un silente discorso amoroso, quieto, notturno, composto dai refoli freddi del vento, da parole taciturne, da uno scambio di sguardi immobili, astratti, sospesi.

 
Tessuta è la tela di Lorenzo Lazzeri, finemente rifinita agli orli interni dai fili annodati, a chiudere e serrare le trame del Tappeto volante. Nel centro, in un gioco di richiami ordinati e precisi, due pesci s’involano dando la direzione al moto dello sguardo. È così che il mare ed il cielo, ambedue, indirizzano l’uomo e la donna che osserva.


Fiera, prorompe statuaria la bestia, la cui muscolatura è un chiaroscuro materico, che dona concretezza all’idea di forza tranquilla, di energia che riposa. Indomito ma  adesso trasognante, il cavallo solitario se ne sta, pensosamente, dirigendo lo sguardo senza furia, scolpito mentre vive, semplicemente. Solitaire, di Susan Leyand.


Issato quale castello campestre, dominus architettonico della terra che circonda, Il nuraghe in fiore di Massimo Lomi è il signore-padrone delle genti floreali, vestite a festa, che s’addensano intorno balenando petali bianchi, gialli, vermigli e rosa, celesti, blu cobalto. Alto più delle nuvole, osserva in silenzio il nuraghe: simile al re che guarda i suoi sudditi.


Lastricata cementeria urbana, spazzata come da un vento di tempesta che ne piega la perfezione architettonica, sovrastrutturata, a più piani. Metallica è l’apparenza, e fugace, e improvvisa come lo scorcio che appare a una svolta, per un attimo, prima che sia sorpassato. Sotto il cavalcavia di Riccardo Luchini fa paesaggio inghiottendo nella tela, quasi voracemente, un lembo scultorio della nostra contemporaneità cittadina.


Sembra d’ascoltare il sibilo che fa il silenzio d’estate, quando l’uomo riposa ed a vivere è soltanto la natura accaldata, resa placida dalla temperatura infiacchente. Sembra di percepire l’eco – e soltanto l’eco – del mare: morbido, celeste, lontano. Sembra di poterla vivere davvero, questa Marina calabra di Salvatore Magazzini, osservandola.


Memento memo. Frammento che rivive. Passato che non passa e che torna. Immagine che ridiventa sembiante prendendo forma visiva, compattezza cromatica, nuova chiarezza ostinata. Andrea Mancini dipinge un’estate che non ha termine se non quando avrà termine chi rimembra, chi ripensa, chi ricorda. 


La figura si appresta allo sguardo, godendo la conquista del suo Belvedere. Curva, caparbia, presa nello sforzo solitario che precede la consolazione dello sguardo, l’osservazione dell’assoluto che la cinge. Altura ideale, il tronco colosso centrale voluto da Marco Manzella: a fare da appoggio, da trespolo, a fare da trono alla donna regina, più alta delle alte cime degli alberi.


La fissità serena in apparente concordia, invece svela la sua duplicità lasciando emergere – dalla crosta pluricromatica – un volto spurio, d’ammiccante vuotaggine, anatomicamente languido fino alla trasparenza. Piccole carezze merita lo sguardo evanescente e l’incarnato deserto della donna, dipinta da Giovanni Maranghi, che protende il braccio: quasi a reclamare la sua verità muscolare.  L’immagine, serena, dona e chiede conforto.


Simile ai portenti immaginati dalla follia romanzesca d’America o della Russia che vive l’antinaturalismo chimerico, In maggio con Big Fish – di Gianfranco Masini – inscena l’umore farsesco, il grottesco più esplicito, facendo accumulazione zoomorfica: oltre misura e oltre logica. Sogno o son desto? Non v’è risposta quando, l’Arte, agisce come un demone scherzoso, come un diavolo ironico.


Frontale, a vista, salvifica si fa la ricordanza: Emilia nel ricordo di Eleonora, di Fabrizio Michelucci, è un ritratto in assenza che, attonito, viene compiuto dialogando con l’immagine di chi più non appare. Tortuosa dialettica, tra passato e presente, offre un volto livido, annerito, di vitalità spiritata. Reliquia, l’opera commemora.


Der strand des lebens (La spiaggia della vita). Lea Monetti. Quadro di ricchezza povera, di povertà ricca, allusione a una vita picaresca, in cui la spiaggia è casa momentanea, un cartone fa da tavola, mentre i frutti – piccole rimanenze odorose – contrastano il rifiuto della plastica, accartocciata dall’uso. Penombra violacea sul fondo, con un barlume di rosso che stinge, scottando i fiori invasati nella bottiglia.


The Lamp, di Giancarlo Montuschi, è una sceneria fumettartistica: rimando al disegno delle strisce, agli avvampi da telecartoon, a certe sofisticate apparizioni da street art, fulmina l’osservatore imponendo il colore, dispensandolo tra le forme informi dell’ambiente marino e il dominio della figura centrale: sagoma eroica dalla carica elettrica.


Chiaroscurali, gli Agli di Sergio Nardoni sono una creatura pittorica medusea, tentacolare, che estende la rete dei suoi capillari secchi pungendo il buio dello sfondo, tagliandone il nero. Immersa in un mare monocromatico, la bianchezza si fa così turgida, piena, vivissima: come un’apparizione notturna, come un abbaglio improvviso che non scompare ma resta, fissato allo sguardo.


Elisa Nesi inquadra la natura, stimolo della fantasia. Repertorio di gioie, di artefatti, tavolozza dalla consistenza di un petalo sono le ali di una farfalla – la Precis Clelia – che contiene il blu dell’oltremare. Dunque venature, circoli cromatici e chiazze, pallori in forma di macule, arrotondamenti curvilinei diventano un'attraente giocoleria tonale, meraviglia della creazione. Occorre così ripeterlo: Precis Clelia, contiene il blu dell’oltremare.


Simile a certe favole vlatavine, nelle quali si sforma la sostanza reale prendendo i gonfiori dell’immaginazione, Colori di un incontro (di Francesco Nesi) muta guisa al mondo dandogli parvenza fantastica. Si procede per mare, mentre inizia la scesa del manto stellato e la luna – ciondolo celeste tenuto dal filo – fa da compagna vicina a due isolette lontane. Suona, in aria, un violino.


Bianco su bianco. Bianco nel bianco. Bianco al bianco è La ghiandaia di Alessandro Nocentini. Come parvenza segreta della carta, scovata dai pochi tratti cromati: il nero, il grigio, l’amaranto danno così rilievo alla figura – altrimenti – nascosta. Albina pennuta, appena apparente, come annebbiata: la si nota amorevolmente, con sorpresa.


Le idee migliori sono sempre circolari titola Armando Orfeo, dipingendo un trasognato non-luogo prospettico, da barcollìo morbido, nel quale archi e scala e bolle, voli d’aerei di carta e tonda reiterazione del titolo assumono le fattezze dei dolci sogni sconnessi, in cui si passeggia incantandosi o si vola scendendo le scale.


Le case dei poeti non sono quelle che vediamo ai cigli di strada, incolonnate fino agli angoli, poste una accanto all’altra in forma uguale e precisa; sono – dice Cristina Palandri – le difformi casupole ridondanti, manierate, fatte di ribalderia allegra; sono le case costruite di fantasia, con lo sguardo matto e diverso che hanno i folli, i diversi, i bambini.


L’esattezza di Gabriele Palandri (Erno) disegna la toponomastica d’anima di un momento, nel quale l’attesa è il futuro, il pensiero è l’azione. Spasimi di consapevolezza immobile, lenti quanti sono lenti i riflessi dell’acqua trasparente, mentre fa turrita presenza un rossore che divampa. Così s’attende, così si vive, Prima della scelta.


Il Paesaggio toscano di Luciano Pasquini è una ciurmaglia selvatica, florida, colma di pieni cromatici e senza ritrosia, senz’ombre, senza vuoti sprofondi. Ovunque la furia s’esprime con gioia, tenendo come su un trono scintillante e rigonfio la decina di case centrali, innalzate quasi a simbolo di quiete da ogni turbamento, che non può che starsene lontano. Si contempla così, con larghi sospiri.


Antonio Possenti regala a chi osserva una figura alchemica, muta parlante; regala un giocoliere dal viso infossato, le spalle ricurve, le braccia lungo l’addome mentre le dita tengono minuscoli marionettismi simbolici. Lunare clown silenzioso, celestiale vagabondo, ambigua creatura invernale, portatore di negromanzie, d’artifizi, di misteri in questa città annuvolata di bianco, sulla quale scintillano gli astri.


Tornito d’ebano, appena scalfito dalla luce, è il volto senza titolo – e dunque senza nome – di Giovanni Sanesi. Negli occhi ha il riflesso luminoso della visione, cui offre attenzione massima, assorbita, piena d’accanimento. Ci costringe quasi, guardandolo, a guardarci le spalle, volgendo gli occhi nostri nel punto esatto in cui sono diretti gli occhi suoi.


Accade altrove la vita: forse accanto, forse lontano. D’essa Piero Sani ci offre gli scampoli, il prima oggettivo, certi avanzi già usati e che fanno poesia dell’attimo precedente, inducendo chi osserva ad immaginarne la vitalità ormai trascorsa, passata oltre quadro. Una Sedia in giardino, il cencio fruttato, il pavimento di coccio che collima col prato. Dove continua ciò che non vedremo.


Le figure contrapposte di Marcello Scarselli sono una difforme partitura geometrica, una scrostata ambivalenza chiaroscurale. Incasellate nei tratti sottili, guardano guardandosi, facendo riflessione di sé con l’altro. Simili a busti senza spessore, simili a uomini scoloriti e inquadrati, se ne stanno controllandosi: senza mai concedersi il sollievo reciproco della libertà.


Chi sei, pastellata creatura che pende nel quadro? Chi o cosa aspetti, chi o cosa tarda, quanto manca perché l’appuntamento fissato si compia? Contemplo la sottigliezza diafana del tuo polso, il tallone sostenuto dal tacco, contemplo l’occhio sinistro, nascosto da un nugolo di capelli scostati. Esisti? O sei parvenza? Disegno di un’anima o corpo reale? Chi sei, rispondi, donna In attesa?


Colorata palingenesi animalesca, cruenta quasi nel movimento, rivoltosa nei colori, ossessiva nella propensione al tumulto tranquillo di figure nette o accennate. Fastello dinamico di varianti e controvarianti, Pietro Soriani divaga associando la forma all’informe, trascinando il tratto, ornando fulgori a un pianale celeste. Ad un tempo, sa di visione innaturale e di scorcio quieto, vivo.


Paola Staccioli orna una terraglia finissima, striata d’azzurro, che poggia senza quasi far peso su piattini di sfoglia, simili a gusci distesi di conchiglia. D’oro di maglia, sul viso flette la luce, un pupattolo si mantiene In equilibrio, reggendosi a un manico e, così, godendo dell’insù della vertigine, con eleganza.


L’equilibrio è l’orchestrazione che suona, con le mani, Paolo Staccioli. Qui compone – contrappeso sublimato nel Dondolo – due brevi sagome che, come messe a bilancia, sono l’una la ragione della postura dell’altro. Labilità ondulatoria, colta nel suo fluttuare lentissimo e resa immobile, così, con maestria.


“Non so ballare sulle punte/ nessuno mi istruì/ ma spesso, dentro la testa,/ una tale gioia mi possiede,/ che se avessi nozioni di balletto/ mi esprimerei in piroette/ da fare impallidire una troupe/ e ammattire una prima donna”. Ma “nessuno sa che so quest’arte/ che cito – agile – qui/ e nessun manifesto mi vanta/ è tutto esaurito all’Opera”. Serena Tani, la sua Emily Dickinson.


Leda, regina di Sparta, figlia di Testio, moglie di Tindaro e madre di Elena e di Clitennestra. Per lei Zeus sentì un fuoco nel petto e per ammirarne le carni dolcissime si mascherò in cigno, giungendo a pungerle i pensieri, ad occuparne i destini. Dall’amore ne sarebbero sorti i Dioscuri. E Leda, Stefania Valentini, così colse su carta.


Le Terre di confine, di Paola Vallini, sono un crogiuolo cromatico, una passante sublimazione di colori, un’offerta natìa, celere, composita, che deriva dalla tenace passione di tingere moti perenni, alchemiche astrazioni creative. Così polveri e strade, mura, recinti, luminarie, acquosi scorci e piazze, finestre, focolari prendono la sostanza d’una visione poetica, improvvisa, addensata.

 

 

 

 

 

 

 

 

Arte per la Ricerca FiorGen – X Edizione
curatore
Filippo Lotti
banditore Roberto Milani
opere di Riccardo Antonelli, Enzo Archetti, Massimo Barlettani, Roberto Barni, Gianni Bellini, Giampaolo Bianchi, Maurizio Bini, Marco Borgianni, Roberto Braida, Fabrizio Breschi, Daniela Caciagli, Luca Canavicchio, Massimo Cantini, Mauro Capitani, Giuliano Caporali, Myriam Cappelletti, Claudia Chianucci, Simone Cioni, Claudio Cionini, Emiliano Colombini, Elio De Luca, Fabio De Poli, Salvatore Esposito, Paul Fabre, Stefano Festa, Franco Mauro Franchi, Danilo Fusi, Giuliano Giuggioli, Giovanni Gorini, Fabio Grassi, Graziano Guiso, Lorenzo Lazzeri, Susan Leyland, Massimo Lomi, Riccardo Luchini, Salvatore Magazzini, Andrea Mancini, Marco Manzella, Giovanni Maranghi, Gianfalco Masini, Fabrizio Michelucci, Lea Monetti, Giancarlo Montuschi, Sergio Nardoni, Elisa Nesi, Francesco Nesi, Alessandro Nocentini, Armando Orfeo, Cristina Palandri, Erno Palandri, Luciano Pasquini, Antonio Possenti, Giovanni Sanesi, Piero Sani, Marcello Scarselli, Lelia Secci, Pietro Soriani, Paola Staccioli, Paolo Staccioli, Serena Tani, Stefania Valentini, Paola Vallini


Auditorium, Ente della Cassa di Risparmio di Firenze
inaugurazione
30 novembre 2014
giorni della mostra 1, 5, 6, 11, 12 dicembre
catalogo http://www.accademiadeisensi.net/Art3dot0/AxR14.pdf

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