“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 27 November 2014 00:00

Per una scrittura dell'esilio

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Il radicamento è forse il bisogno
più importante e più misconosciuto
dell'anima umana.

Simone Weil

 

Parte I

Pensare l'esilio
L'esilio è il luogo della diversità, del contatto con l'Altro per eccellenza. È il luogo di assimilazione dell'altro, in cui l'altro diventa sé e il sé diventa l'altro.

La condizione d'esilio è una condizione di cambiamento, di modificazione rispetto ad uno status precedente. Ad un certo punto dell'esistenza si è in esilio, si verifica una rottura e la realtà trasmuta: si passa da una condizione di essere ad un non-essere provvisorio, incerto. L'esilio apre infatti un varco, una porta sul nulla e, al tempo stesso, apre sull'infinito mare delle possibilità; e l'esiliato è colui che farà di questo grande stato mediano – tra il tutto e il nulla, l'essere e il non-essere – la sua condizione permanente.
L'esiliato è stato privato di se stesso, delle sue radici più profonde e perciò è sempre in ricerca di altro da sé. Ma avviene che cercando l'alterità, egli trova paradossalmente se stesso poiché si riconosce in quella alterità, in quella natura estranea, relegata ai margini.
Dunque l'esiliato è anche colui che erra alla ricerca del sé ma la sua è una erranza feconda, che produce nuove possibilità di incontro e scontro, di essere e divenire con e per l'Altro. L'esiliato è in uno stato di ricerca e meditazione perenne, è in costante viaggio o migrazione. L'esiliato è un nomade. Perciò la patria, che si suppone sia il contrario dell'esilio, si definisce come il luogo di non-ritorno, diventa un luogo ideale e caricato di tutti quei significati che possono rientrare nel campo semantico dell'appartenenza: radici, amore, famiglia, società o istituzione, per fare alcuni esempi. Ecco, l'esiliato sta precisamente ai margini di tutto questo, e soprattutto: della famiglia, della società e dell'istituzione. Ed eccolo allora alla ricerca di un senso di comunione, di condivisione che non potrà mai essere soddisfatto. E allora, dove trovare riparo? Perché l'esiliato non ha alibi, non essendo parte di un società e di un sistema di valori condivisi, non può fare uso di convenzioni o luoghi comuni. Appunto perché non esiste un luogo comune, un luogo di condivisione. L'esiliato è allo scoperto e cerca protezione, salvezza.
E allora, cosa significa pensare l'esilio se non in termini della disperata ricerca della creazione di uno spazio di comunione – interiore o esteriore- in cui riconoscersi? Come pensare l'esilio se non in riferimento ad una costante tensione dell'essere umano alla ricerca di una irraggiungibile pacificazione?
È proprio perché questa condizione non può essere raggiunta che l'esilio è essenzialmente un processo doloroso per l'uomo: poiché è sempre in tensione verso un cambiamento che, subito egli lo presagisce nel profondo, non potrà mai avvenire. Mi viene in mente quella famosa statua del Bernini: Apollo e Dafne. Ecco, la tensione dell'esiliato si legge negli occhi di Dafne che è stata fermata nell'attimo della trasmutazione e sul volto porta tutti i segni dello sforzo, della sofferenza causata da quella terribile – e in fondo desiderata– metamorfosi dell'essere.
L'esiliato è sempre immobile in quel punto di crisi, è in un continuo processo metamorfico che genera in lui sofferenza, fatica. Ma è una trasmutazione che non può trovare compimento, perché non c'è un punto di arrivo, non c'è un qui e un là, non c'è un inizio e un termine; solo una eterna tensione.
Gilles Deleuze, in un intervento su Nietzsche al convegno di Cerisy-La Salle (1972) dice: "Questa è forse la maggiore profondità di Nietzsche, la misura della sua rottura con la filosofia: aver fatto del pensiero una potenza nomade. E anche se il viaggio è immobile, da fermo, impercettibile, imprevisto, sotterraneo, dobbiamo chiederci quali sono oggi i nostri nomadi, chi sono veramente i nostri nietzschiani".
La condizione dell'esilio è assurda, nel senso camusiano del termine, è un eterno presente, in cui non vi è scopo – perché privato di ogni scopo o ragione è l'essere nel momento dello sradicamento – se non nella 'sotterranea', 'immobile' e circolare ricerca dalla patria perduta e inarrivabile.
E che cos'è dunque la patria?

Parte II

Pensare la patria
La patria, come si è detto, è il luogo del non ritorno. Ma soprattutto, è spesso il luogo del ricordo, della memoria. La patria è il Paradiso perduto di miltoniana memoria, è il luogo della perfezione in cui l'ideale si imprime e si incarna nel ricordo dell'esiliato. Ma bisogna chiedersi se la patria sia realmente il contrario dell'esilio. Oppure se può darsi che, in un certo momento, l'esilio possa diventare una sorta di patria ricostruita a partire dalla nuova condizione. Non diventa forse il luogo d'incontro, quell'esilio, di una umanità sradicata, incerta, priva di un sistema di valori?
Ma che cos'è un sistema se non una gabbia dalle perfette proporzioni?
Forse è questo il punto catartico dell'esiliato o dell'uomo – avrai compreso, lettore, che per me essere uomo significa essere in esilio: poiché siamo gettati sulla terra senza volerlo e senza coglierne il senso, senza sapere da dove arriviamo e a cosa apparteniamo; perchè in fondo sai, “hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère”, che la patria terrestre è solo un artifizio, uno degli innumerevoli modi per inventare la pace degli uomini; la vera patria è forse quella celeste, atavica, dimenticata, rimossa – ovvero l'assenza di un paradigma di valori universalmente condivisi che guidino l'uomo nel suo cammino morale e spirituale. Ma non è proprio questo che dà valore e sostanza all'esiliato? Non è da qui che scaturisce la sua fecondità, la sua energia metamorfica? Perché il non aggrapparsi a dei valori prestabiliti – se non quello inevitabile che è il rispetto dell'Altro poiché divenuto parte del sé – significa non avere limitazioni, essere nel territorio della libertà.
E dove si manifesta soprattutto il dominio della libertà?

Parte III

Per una scrittura dell'esilio
Il territorio della libertà è, senza dubbio, quello della scrittura e dell'Arte.
Nella sua forma più pura, ideale, il gesto artistico è l'espressione della libertà dell'individuo. Idealmente, lo scrittore – o l'artista – appartiene alla dimensione dell'esilio e, proprio per questo, a quella della libertà. Egli, nella sua essenza più profonda, nel momento della creatività – non influenzata da vincoli esterni, da essa lontanissimi poiché l'esiliato si definisce sempre per ciò che sta al di fuori della contingenza – non si pone limitazioni, è assolutamente libero.
La scrittura dell'esilio, infatti, produce quasi sempre mostri, è una scrittura radicalmente nuova e sovversiva, spesso ibrida; pone la realtà sotto una luce nuova. Questo perché, in qualche modo, l'autore o l'artista è estraneo a quella realtà; e contemplandola di lontano, apporta un dato di novità. Perché i suoi occhi, non sono quelli del padrone – seduto sulla sua poltrona, sui suoi averi, sulle sue certezze – ma sono più simili a quelli del prigioniero che osserva il mondo o la patria da dietro le sbarre; al quale non è concesso il ritorno, ma solo una immobile contemplazione obbligata, un dispatrio senza direzione, senza via d'uscita o speranza di pacificazione. Ed è proprio quello sguardo – proprio perché fuori, perché altro – che apporta qualcosa di nuovo.
Si pensi a scrittori come Joyce, Camus, Ortese – per fare solo qualche nome – e tutto diverrà più chiaro.
La scrittura dell'esilio è infine, una scrittura in transito, generatrice di realtà altre, in perenne dialogo e contraddizione con la ricerca di una sua propria identità; poiché essa è sempre sul punto di distruggersi e crearsi in una incessante metamorfosi, in una costante e dolorsa modificazione.

 

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1) Siamo così certi che l'esiliato non desideri mai il suo esilio?

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