“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 15 October 2021 00:00

La città dei malati

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Vedo Hospes come una città o un piccolo villaggio circondato da mura di plexiglass trasparente. È un materiale al quale ci stiamo abituando. Se, in qualunque posto andiamo, scorgiamo la presenza di pannelli in plexiglass sappiamo che sono lì per proteggerci. Ci tengono separati dagli altri, servono a distanziarci, ad evitarci contagi.

Lungo tutto il palco del San Ferdinando, la quarta parete in plexiglass ci fa prendere le distanze dall’umanità che vive in Hospes. Si tratta, per lo più, di malati con patologie rare e la maggior parte è allo stadio terminale. Ma ciò che vivono, quello che provano, tutto quello che potremmo domandarci sulla loro esistenza non ci riguarda. Noi siamo dall’altra parte della parete. La malattia non ci appartiene. Sono storie dalle quali siamo stati separati e non per nostra volontà. Questa scelta registica ci giustifica. La coscienza è a posto. Siamo seduti in platea, braccio a braccio con il nostro vicino di poltrona. Siamo la pluralità dei colori che riempiono il teatro contro il bianco da ospedale intrappolato sul palco. Eppure chi da Hospes guarda fuori, chi si affaccia alla finestra di plexiglass e guarda verso di noi, vede tutto grigio, un’informe macchia grigia che rattrista il cuore. Ce lo ripetono più volte, siamo come una brutta giornata di pioggia, un ultimo giorno dell’anno che nessuno vuole festeggiare.
Hospes, - ĭtis inaugura la stagione teatrale del Teatro San Ferdinando dopo due anni di chiusura. Riporta quindi in vita il teatro, dona respiro a quei lavoratori dello spettacolo che tanto hanno combattuto per la loro dignità di lavoratori e di essere umani. Lo fa con una storia che parla della dignità che deve applicarsi all’uomo e alla donna fino al loro ultimo respiro e anche oltre, dopo la morte. Tutti gli abitanti di Hospes sono dei destinati alla morte consapevoli rinchiusi in una scatola all’interno di una città di destinati alla morte inconsapevoli. In tutto lo spettacolo, la presenza della morte è così viva che essa danza, parla, dirige e guida le azioni di tutti. Una vera e propria regista sulla scena. Nessuno, eccetto il direttore dell’ospedale, la vede  o la sente ma tutti fanno esattamente ciò che lei vuole. E lei, la signora Morte, è alla fine di ogni azione. Più da lei ci si vuole allontanare e più si finisce tra le sue braccia. Lo sanno bene i personaggi, divisi in due categorie. Da un lato i malati, chiamati con i nomi delle loro patologie. Gioiosi, con la loro voglia di giocare,  ballare,  vivere. I malati, più di ogni altra cosa, desiderano. Qualcuno desidera piccole cose, qualcun altro desidera la vita. E a volte il desiderio è così forte da portare fino in braccio alla morte. Dall’altro i sani, i lavoratori di Hospes, medici, infermieri, un tuttofare un cuoco e un direttore. Ognuno con la propria angoscia, il proprio personale senso di colpa, il tormento che li accompagna nel vivere un giorno di lavoro dopo l’altro. Le storie degli abitanti sani di Hospes sono storie d’amore, famigliari, di genitorialità. Nei confronti dei malati, i sani cercano di mantenere un certo distacco. È loro vietato affezionarsi a chi è certo di dover morire a breve. I dialoghi sono vietati. Si cerca di mantenere il rapporto sul piano della professionalità. Quando le regole sono rotte, si creano crepe negli animi che rendono i sani più malati dei moribondi. Su tutti campeggia Rohhad, disteso su un letto in coma irreversibile e letteralmente sospeso tra la terra e il cielo. Anche lui ancora desidera e il suo desiderio è desiderio di morte. Ma non si pratica l’eutanasia a Hospes ed è l’ultimo giorno dell’anno e Rohhad può resistere e far rimanere l’ospedale in una buona media per numero di morti. Non resta altro che festeggiarlo questo ultimo giorno dell’anno, come un’ultima cena. La morte, la regista della vita di tutti, siede al centro del cenacolo e fa partire il conto alla rovescia che condurrà tutti a sparire.
Lo spettacolo, diretto da Davide Iodice su un testo di Fabio Pisano, è molto delicato, in linea con la sensibilità del regista. Il tema trattato potrebbe sembrare una proposta difficile per il pubblico e invece tutto appare lieve e incontestabilmente bello. Il lavoro sul corpo che hanno fatto gli attori, le musiche, la costruzione e orchestrazione delle scene con i loro ritmi e movimenti sembrano trarre ispirazione dagli spettacoli di danza. E proprio come se fossimo invitati a partecipare ad una danza, possiamo lasciarci trasportare nel mondo di Hospes senza sentircene intrappolati e mantenendo una certa leggerezza nello spirito. Nello spazio ridotto del palco, la vastità dell’ospedale è resa evidente dai numerosi cambi di scena a vista operati dal tuttofare, che muovendo sul palco poltrone, tavoli, panche, un altare, ricrea le numerose stanze. Dall’ufficio del direttore alla cappella, dalla mensa alla sala riunioni, dalla sala ricreativa alla stanza dei desideri irrealizzati. Chi è che non ha un desiderio irrealizzato? A Hospes è possibile entrare una sola volta nella vita nella stanza dei desideri irrealizzati ed è permesso solo ai pazienti. Eppure c’è chi da Hospes vuole scappare. E allora il palco diventa una distesa di corridoi sempre uguali, tutti bianchi. Perché è il bianco il colore di Hospes: bianco è il colore dei camici, delle pareti, dei volti degli ammalati. Contrapposto alla scala di grigi di fuori. Un fuori che viene proiettato sul fondo e che sembra emanare dall’umore dei personaggi: un grigio bosco che sembra una radiografia polmonare, dei grigi tralicci, una grigia scultura d’argilla che si sgretola. Si tratta della stessa scultura in argilla, che ci ha accolti nel foyer, dello scultore Michelangelo Fornaro, che ci ricorda che tutto ha una fine, che tutto lentamente scompare. In mezzo c’è il nero della morte e il rosso del desiderio d’amore di Purpura una donna storpia e bella che  con tutta sè stessa desidera.
Lo spettacolo si chiude con una sorta di rottura tra la finzione e la realtà. Due uomini con le tute bianche praticano una disinfezione del palco. Sulla parete in plexiglass attaccano due lunghe buste trasparenti. Si tratta di qualcosa che abbiamo già visto, nelle immagini al telegiornale delle RSA. Le stanze degli abbracci dati attraverso il cellophane. È il momento di ricordarci che fuori dal teatro quella parete in plexiglass non esiste, che tutto ciò che accade nel mondo ci riguarda perchè non ne siamo separati, che possiamo abbracciare e occuparci di chi è rinchiuso in una RSA o in un ospedale e sa per certo, solo perché più consapevole di noi sani, che ogni giorno ci avviciniamo un po’ di più alla signora Morte.





Hospes, -ĭtis
drammaturgia
Fabio Pisano
regia Davide Iodice
con Angelica Bifano, Carolina Cametti, Antimo Casertano, Orlando Cinque, Daniel Dwerryhouse, Noemi Francesca, Damiano Rossi, Giulia Salvarani, Ilaria Scarano, Sebastiano Sicurezza, Aida Talliente, Emilio Vacca, Francesco Vitale
scene Tiziano Fario
costumi Daniela Salernitano
luci Loïc Francois Hamelin
video Michelangelo Fornaro
musica in scena:
loop station, giocattoli, strumenti non convenzionali
Aida Talliente
tastiera Ilaria Scarano
violoncello
Giulia Salvarani
clarinetto Daniel Dwerryhouse
training e studi sul movimento Chiara Alborino
foto di scena Marco Ghidelli
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale
lingua
italiano
durata
1h 30’
Napoli, Teatro San Ferdinando, 12 ottobre 2021
in scena
dal 12 al 17 ottobre 2021

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