“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 14 October 2018 00:00

Quattro pensieri su una mostra teatrale

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Me lo ricordo il Teatro Studio di Caserta...”
 (Mario Martone)

 
Poi guardavo i miei coetanei: dalla provincia
osservavo il lavoro di Neiwiller, di Carpentieri,
Martone con Falso Movimento”
 (Toni Servillo)

 
Eravamo proprio rivali...”
(Angelo Curti)

 
Ora penso che tutto questo debba trovare un contatto”
(Antonio Neiwiller)

 

Riconoscersi
L'aspetto che mi colpisce di più, nel ripercorrere la storia di Teatri Uniti (una storia che da spettatore, anagraficamente, non mi appartiene se non per l'ultimo scorcio: sto dunque provando a perlustrare una memoria che non è la mia consultando anche libri, pagine di giornale, vecchie locandine) è che questa stessa storia comincia prima della sua effettiva data d'inizio. Tant'è.

Nella prima teca orizzontale della mostra, poggiato nell'angolo sinistro anteriore, noto un ingiallito articolo de Il Mattino, datato 6 giugno 1987 e firmato da Franco De Ciuceis; l'articolo comincia così: “La notizia ha destato enorme interesse e l'atmosfera, ieri mattina nel salone del museo di Villa Pignatelli, era proprio quella dell'evento, con un folto gruppo di giornalisti e di addetti ai lavori. Falso Movimento, Teatro Studio di Caserta e Teatro dei Mutamenti – ovvero tre gruppi storici della ricerca e della sperimentazione teatrale che da Napoli si è aperta e si è imposta a livello nazionale e internazionale – hanno annunciato ufficialmente il loro scioglimento e la fusione in un unico organismo che prende il nome di Teatri Uniti”. E tuttavia – penso – questa cronaca non rende che l'approdo di un viaggio multiplo e parallelo che è cominciato da almeno un decennio, un viaggio nel quale rotte simili ma distinte si sono intrecciate come s'intrecciano i traghetti che, tutti i giorni, eseguono lo stesso avanti e indietro nel mare andando tra un'isola e la terraferma. I tre gruppi per anni infatti convivono, i loro esponenti frequentano le stesse gallerie d'arte, gli stessi cinema e gli stessi concerti, siedono da spettatori nelle stesse platee, s'innamorano artisticamente – o quanto meno percepiscono gli echi – degli stessi interpreti-guida (Leo de Berardinis, ad esempio, o Carlo Cecchi, quando compie le sue incursioni nel teatro napoletano) e ancora: partecipano alle stesse rassegne e agli stessi dibattiti, sono osservati e raccontati dagli stessi critici e talora compiono gli stessi viaggi in Italia o all'estero: che sia verso Roma o verso la Svizzera. Per quanto le loro poetiche siano dunque divaricanti – per quanto l'urgenza dell'uno non rifletta perfettamente i bisogni dell'altro – questi tre gruppi non si limitano a conoscersi, così come ci si conosce e ci si saluta sbrigativamente in un foyer, ma si riconoscono e cioè concedono valore e dignità al lavoro dell'altro al punto che – in occasioni numericamente crescenti, nel corso degli anni – si trovano a collaborare o comunque a guardarsi e a parlarsi, a suggerirsi qualcosa, a riflettere assieme.
In un panorama cittadino e regionale impoverito dall'assenza di politiche culturali credibili, immiserito dall'inesistenza di un teatro Stabile che sia funzionante, governato dal magistero dittatoriale eduardiano da un lato, e da un folklore piedigrottesco dall'altro, questi gruppi dunque formicolano sfiorandosi o toccandosi di continuo e lo fanno fin dalle loro prime esperienze: quando Mario Martone, Angelo Curti o Pasquale Mari hanno sedici anni, Toni Servillo ne ha diciassette e Andrea Renzi quattordici mentre Neiwiller è più grande, sì, ma frequenta gli stessi margini, bazzica per strade analoghe.
“Falso Movimento ha un inizio preistorico” dice in un'intervista recente Martone e nel dirlo rivà col pensiero agli anni del liceo Umberto, al laboratorio su Le rane di Aristotele – fatto tra le pareti di scuola – e a un Faust colto ma acerbo, nel quale convivono frammenti del testo con la messinscena di finti esperimenti scientifici, la resa attorale dei quadri del ciclo pittorico delle Storie di Sant'Orsola di Vittore Corpaccio e il monologo del Kean di Dumas, che viene detto da Angelo Curti in proscenio perché risultasse urlata al pubblico la dannazione dell'attore, la dannazione cioè di chi – a quattordici, sedici o diciassette anni – ha già scelto il teatro come una missione, una condanna e un destino. Servillo, proprio come Martone, comincia con degli amici a fare spettacolo sopperendo “alla povertà dei mezzi” – non c'era infatti una lira – con la “contaminazione dei corpi”. “Raccontavamo” – o quanto meno cercavamo di raccontare – “una generazione che per la prima volta incontrava altri codici espressivi del tutto nuovi” e questo racconto “lo facevamo in teatro e attraverso il teatro” inscenando “un'ingenua, fortissima e adolescenziale” rappresentazione di noi stessi. Neiwiller – il cui volto, da giovane, somiglia a quello di Che Guevara – per anni si aggira per Napoli come farebbe “un personaggio uscito da un romanzo di Kerouac”: squattrinato (le croniche difficoltà, ad esempio, nel pagarsi gli studi) e con una macchina fotografica al collo, Neiwiller macina chilometri tra i vicoli della città ed è proprio attraverso questi viaggi urbani che inizia, cresce, s'impone e matura la sua vocazione artistica, il suo pensiero e l'altro sguardo che ha del teatro: anche per lui valgono Leo e Carlo Cecchi (oltre a Kantor, Pasolini, Paul Klee o Beyus), ad esempio, e per lui – come più tardi per Servillo – vale anche Eduardo, di cui studia il modo “quasi astratto” di interpretare i personaggi, la maniera che “ha di comunicare per segni”, il “suo non fare più che fare”, “la personalizzazione” che  ci mette in un ruolo, “questa forte coscienza delle pause” e “il rigore assoluto” –  quasi “miracoloso” lo definisce – con cui Eduardo fa aderire il teatro alla vita.
Sia chiaro: le storie dei tre gruppi sono differenti e diverse sono le modalità con cui cominciano artisticamente ad esprimersi – Falso Movimento farà volare un aereoplanino radiocomandato in una saletta e comporrà il titolo di una performance sulle magliette degli spettatori, ingabbierà gli interpreti tra le immagini dell'imperante comunicazione di massa, trasformerà Otello in una messinscena di spettri; Servillo e il Teatro Studio di Caserta imporranno (tra il bianco, il nero e il rosso dei loro spettacoli) sempre più la presenza corporea dell'attore – fondamento irrinunciabile di ogni teatro; Neiwiller porterà laboratoriamente e scenicamente con sé, in sé e accanto a sé la tradizione petitiana, la dissoluzione artistica Dada e certi fantasmi pittorico-fotografici o memoriali – ma tutti e tre appartengono a un racconto che a me pare già comune prima che diventi questo racconto in comune chiamato “Teatri Uniti”.
Per contrasto – e solo per un attimo – mi tornano quindi in mente le parole al presente di Gerardo Guccini che in Miseria e Nobiltà scrive quant'oggi invece il teatro manchi di “terreno comune sotto ai piedi”, di “logiche professionali condivise” e di capacità – da parte dei gruppi – di riconoscersi davvero l'un l'altro: “gli stessi attori-interpreti-di-personaggi-scritti, gli stessi registi-di-testi-drammatici sovente non si riconoscono l'un l'altro” scrive proprio così Guccini “e non si confrontano, non si spiano, non si considerano appartenenti a una stessa arte. Ognuno tende a sentirsi il depositario della tradizione sospesa e a negare al collega, che rappresenta testi accanto a lui, il diritto di associarsi alla difesa di un mestiere che pure li accomuna”. Questo non solo rende alla lunga meno ricchi sul piano poetico ma rende più deboli sul fronte produttivo e sul piano umano; e rende più soli; e rende soprattutto più franabili quando le difficoltà, il peso, l'incertezza diventano non più raggirabili. A insegnarmelo – questo rispetto della differenza che, quando necessario, può generare una forza – è proprio la pre-storia di Teatri Uniti perché, per quanto De Ciuceis nell'articolo de Il Mattino scriva che la fusione del 1987 non è il frutto di “stanchezza” o di un “ripiegamento”, scavando nelle vicende dei gruppi s'avverte per tutti come un momento d'impasse: “Durante la crisi che mi ha portato da Falso Movimento a Teatri Uniti” dirà non a caso Martone a Franca Angelini in un colloquio contenuto in Rasoi; “la diversità di Neiwiller tenterà di trovare un'ancora di salvezza nell'esperienza di Teatri Uniti” scrive Marta Porzio ne La resistenza teatrale; quanto a Servillo, per lui valgano le parole ch'egli stesso pronuncia durante un'intervista: “Il Teatro Studio di Caserta è finito perché mi hanno lasciato solo, tutti. Sono rimasto solo. Quell'esperienza” infatti “era nata su una spinta giovanile che in quegli anni ha assorbito e consumato tutta l'energia vitale di quella fase puberale” ma “poi i miei compagni di scuola hanno fatto tutti scelte professionali diverse”; “loro non ci hanno creduto più”, insomma, mentre “io, tra quei ragazzi, ero l'unico che sentiva che nella vita avrei potuto fare solo quello”, solo il teatro. E dunque: o “fondare la compagnia Toni Servillo” o abitare una casa comune, più grande della precedente, nella quale fosse possibile creare assieme e nel contempo rispettare le reciproche autonomie, i percorsi formativi passati e le proprie urgenze creative.







A Napoli c'era Lucio Amelio...”
(Achille Bonito Oliva)

 "Era rigido, dolce, giusto, arrabbiato, geniale”
(Anna e Giuliana Amelio)

 
Lucio, completamente fuori dalle logiche e dalle
strategie culturali dominanti, intuisce che bisogna
cominciare a intrecciare un dialogo”
(Michele Buonuomo)

 
La mia galleria è un teatro scintillante di idee, di
passioni, di cazzeggio sublime e di fortissima amicizia”
(Lucio Amelio)

 

Una foto di gruppo
Nascosta nell'incavo della parete di destra, la prima che si fiancheggia facendo ingresso alla mostra, c'è una foto a colori: l'ha scattata Cesare Accetta e ritrae Lucio Amelio. La foto sta lì, in alto, come stanno certe foto che ritraggono i nonni nel soggiorno dei nostri genitori e fissandola non sai se sei tu che la stai guardando o piuttosto è lei che sta guardando te. Nella foto Lucio Amelio è su un balcone dalla ringhiera verde, che ha la base di muratura parecchio sbrecciata: la mano destra è poggiata alla ringhiera mentre quella sinistra non si vede; forse è infilata nella tasca dei pantaloni o della giacca, forse è piegata dietro la schiena o scorre lungo l'esterno della coscia. Il corpo è infatti posizionato di lato rispetto all'obiettivo e dunque – mettendomi frontalmente rispetto all'immagine – dà la sensazione che Amelio dal balcone stia osservando l'infilata di reperti che mi sta sulla destra e che compone la mostra: che la stia proteggendo con lo sguardo, proprio come i nostri nonni proteggono il presente e il futuro familiare standosene nelle cornici salottiere dei nostri genitori?
Questa è una foto importante e per me dice più di quanto sembra che dica. “Non ci sarebbero stati Teatri Uniti o la cosiddetta nuova drammaturgia” (pensate a Moscato, Ruccello e Santanelli) “se non ci fosse stato un contesto locale esternamente vivace intorno; se, cioè, non si fossero create le condizioni che hanno reso possibile l'esistenza di una Napoli alternativa alla sua immagine più stereotipata e comunemente diffusa” scrive Marta Porzio ne La resistenza teatrale; non ci sarebbero stati Teatri Uniti – aggiungo io – se non ci fossero stati degli “angeli custodi” (così, a un punto, la Porzio li definisce) che hanno contribuito a rendere eterogeneo, sussultante, internazionale, sboccato e coltissimo il discorso artistico parlato qui a Napoli.
Tra questi proprio Lucio Amelio, ad esempio.
Il padre lo vuole ingegnere ma lui si ribella, scappa di casa e fugge lontano – Parigi, Berlino, poi Torino; s'iscrive ad Architettura ma poi lascia, prende la tessera del Partito Comunista e intanto continua a viaggiare, lavorando per mantenersi e nel frattempo cominciando a frequentare musei e atelier continentali nei quali l'arte contemporanea si manifesta con maggior forza e con maggior inventiva. Amelio fa questo fino a uno spaventoso incidente che avviene a Barcellona, nel 1964: segue il ritorno forzato a Napoli, la lunga degenza passata stando disteso ed immobile in un letto e – ripresosi (“sono morto e poi sono resuscitato” dirà) – si mantiene con il lavoro d'interprete presso l'Italsider e intanto inizia a investire nel proprio sguardo, nel proprio entusiasmo e nell'idea che non sia più il tempo di viaggiare da Napoli verso il mondo ma di portare il mondo qui a Napoli. Amelio deve proprio al teatro (e in particolare al Teatro Esse, che lo ospita) la nascita della suo primo spazio artistico – la Modern Art Agency – ossia un appartamento/galleria di tre stanze: in una, che funge da cucina, “mangio vivo e dormo” dirà in un'intervista mentre “le altre due le dedico all'arte” e – quando dice che le dedica all'arte – non si riferisce solo alla pittura o alla scultura ma anche alla danza, alla poesia, al teatro e alla letteratura. Per quattro anni Amelio, a Parco Margherita numero 85, ospita infatti spettacoli, performance e reading, mette in connessione artisti nazionali, internazionali e locali, pone l'uno di fronte all'altro teatranti e architetti, drammaturghi e musicisti, critici che si occupano della scena e studiosi che diventeranno professori presso le Università di Salerno e di Napoli. Non basta. Dirige, per un biennio, anche un bollettino/rivista intitolato Made In “che mette sullo stesso piano arte, teatro, danza, architettura e l'abitare” e –  quando da via Martucci si trasferisce nella vicina Piazza dei Martiri (“non pagando la luce, abitando dentro a una specie di armadio, lavorando a lume di candela”) – non smette di tessere relazioni, di generare occasioni di confronto e di conoscenza reciproca e di internazionalizzare per differenza ed eccesso il pensiero creativo in città: qui porta ad esempio Kounellis, che attraversa il golfo di Napoli stando su un peschereccio; invita Twombly, l'artista americano che rifiuta il concetto di business; piazza in una cornice le scarpe che Stanley Brouwn consuma andando avanti e indietro per Spaccanapoli; qui espone statue viventi, organizza una retrospettiva di Manzoni in cui tutto è presente ma nulla è in vendita e inizia un lungo periodo di collaborazione e di amicizia con Beyus (sì, proprio il Beyus che sarà tanto caro a Neiwiller e che lo spingerà a scrivere e mettere in scena La natura non indifferente: “Non ho il senso ultimo di quello che faccio./ Vorrei che niente fosse finito./ C'è sempre qualcosa che ritorna e scompare/ a cui non saprei dare un nome./ Questo stesso enigma, però,/ mi spinge fino in fondo alle cose”). Perché sia chiaro il ruolo avuto allora da Lucio Amelio io penso in particolare al 1979: è l'anno in cui riesce a introdurre l'arte contemporanea nei musei tradizionali napoletani (il Grande Nero Cretto di Burri viene esposto infatti a Capodimonte, tra le tele di Caravaggio e i paesaggi seicenteschi di Claudio di Lorena) ma è anche l'anno in cui “invita Martone e compagni a presentare una nuova performance per la rassegna Nuova Creatività nel Mezzogiorno da lui organizzata” ricorda ancora la Porzio, che aggiunge: “è proprio in questa occasione che si costituisce operativamente il gruppo che, nell'agosto di quello stesso anno, deciderà di chiamarsi Falso Movimento”. Lucio Amelio è dunque fondamentale per Neiwiller e Martone tanto quanto si rivela decisivo per Toni Servillo (“c'era il lavoro fondamentale di un gallerista che si chiamava Lucio Amelio” dirà Servillo ad Anna Barsotti) e lo è non solo perché “sprovincializza Napoli portando in città esperienze di arte figurativa e performing arts che sui ragazzi di diciotto anni com'ero io avevano un impatto fortissimo” ma anche perché è “tramite Amelio che i gruppi della post-avanguardia napoletana sono invitati a presentare la propria ricerca nelle gallerie d'arte nazionali e internazionali”.
Per tutti questi motivi la foto di Lucio Amelio è per me più importante di quanto non appaia: perché dice di quella pluralità di uomini e donne che – collaborando tra loro, scambiandosi pareri e favori, moltiplicando gli appuntamenti e facendo così del proprio impegno una inquieta semina creativo-organizzativa – hanno facilitato, permesso, accompagnato o consentito la nascita di quel che esiste tutt'ora. Per questo, aggiungo, l'immagine di Lucio Amelio la intendo in realtà come una foto di gruppo: in lui, nel suo corpo immortalato e messo a parete, convivono – ad esempio – Vittorio Lucariello, che per i teatranti napoletani fece dello Spazio Libero ciò che fu la fabbrica di Andy Warhol per i pittori americani; Arturo Morfino, poiché al suo Play Studio suonava musica di cui altrimenti non avresti mai sentito una nota; Mario Franco, al cui Cinema Altro – che la Questura tentava di chiudere (“ogni tanto qualche funzionario inviava la polizia a mettere i sigilli”) − veniva proiettato di tutto: dall'horror al musical, dall'espressionismo tedesco a Orson Welles, da James Dean a Méliès, Godard, Ėjzenštejn e Totò; nel corpo di Lucio Amelio convivono coloro che animavano le presentazioni nella saletta Rossa della libreria Guida, Giuseppe Bartolucci e la sua critica teatrale indipendente – fatta “viaggiando in treno su e giù per l'Italia, a proprie spese e in seconda classe” – e  lo stesso Cesare Accetta, che la foto a Lucio Amelio l'ha scattata ma che in quegli stessi anni ha anche aperto il suo Studio Memini “per ospitare mostre, performance, concerti e noi, appena formatici con Falso Movimento, vi realizzammo dei lavori” come ricorda in una lettera scritta a penna blu Mario Martone. E d'altronde: guardate le foto in bianco e nero di Toni Servillo e Mario Martone e pensate a Cesare Accetta; pensate a Cesare Accetta e immaginatevi palazzo Marigliano, che è il luogo in cui c'era lo Studio Memini ma è anche l'edificio in cui abitava Neiwiller.




 

 

La scena continua ad essere umana, troppo umana”
(Attilio Scarpellini)

 
Così inventammo, tentammo, esplorammo, discutemmo”
(Peter Brook)

 
Ogni spettacolo è un castello di sabbia, un'effimera 
cattedrale che, col passare degli anni, perde i contorni,
tremola, si assottiglia nell'acqua della memoria. Che
 resta, se non uno stridulo cliquetis di parole? Restano
scheletri di partiture, stinte fotografie, lingue ingiallite di
ritagli e testimonianze, non sempre attendibili”.
(Angelo Maria Ripellino)

 
“La dove nulla rimane come fu, lo spettatore sa che l'ultima
possibilità è la sua”
(Georges Banu)


Fragile e umano, il teatro
Gli oggetti contenuti in un museo non sono solo oggetti ma, per chi gli presta ascolto, hanno la funzione di conchiglie: permettono di riascoltare (o di credere di riascoltare) il rumore del mare. Soglie materiali dalla quali dunque sorge l'eco, gli oggetti museali producono ricordi, memorie e ritorni parziali e del tutto soggettivi di quel tempo che fu: un po' come per Amleto, che toccando il teschio di Yorick, ricorda l'infanzia perduta – adesso che suo padre è un fantasma, sua madre è stata uccisa e suo zio è carne per i vermi – così noi badiamo a ciò che resta provando a ricostruire un po' di quello che manca: sono le rovine rimaste su questo campo di battaglia che una volta era animato da attori – direbbe Daniel Mesguich –; sono i residui di vecchi galeoni inghiottiti dall'oblio: afferrandoli, come per le conchiglie, ne percepiamo di nuovo il viaggio che hanno compiuto.
Passando la mostra di Teatri Uniti – osservando quindi le bacheche orizzontali e scorrendo tra i pannelli laterali su cui sono impresse le locandine degli spettacoli, le date d'esordio e le tournée nazionali e internazionali –  ciò che mi attira di più non quel è successo e che ricordo chiaramente (lo spettacolo che ho visto e rivisto, quello di cui ho letto nei libri o sui giornali, quello di cui ho veduto la trasposizione in tv o l'ultimo di cui ho scritto) ma ciò che invece sarebbe dovuto accadere e non è accaduto. La mostra infatti presenta accanto ai successi i fallimenti, le operazioni morte prima di nascere, i tentativi mancati, le messinscene che il sipario non lo hanno aperto mai: neanche una volta, nemmeno per un minuto. In questi casi non si tratta di ricostruire ciò che è esistito, dunque, ma di immaginare quel che sarebbe potuto essere e non è stato. Ecco una richiesta di disponibilità del San Carlo, ad esempio, che viene respinta perché ci sono i Mondiali di calcio e la sala è prenotata per dei concerti sul tema; ecco un progetto di riqualificazione architettonica che non ha seguito, il programma di un festival che non viene realizzato, la richiesta per l'utilizzo di una drammaturgia che non ottiene risposta, ecco il preventivo per un Ulisse di Joyce che la città non vedrà mai o gli articoli che raccontano un film la cui produzione viene devastata dalla morte di Theo Anghelopulos: si sarebbe intitolato L'altro mare e – leggo – “inevitabilmente lo avrebbe portato a confrontarsi con il dramma della Grecia precipitata nel baratro della crisi economica”.
Queste testimonianze episodiche, più fragili delle altre perché non sostenute dalla memoria prodotta da una esistenza effettiva, galleggiano tra le molte che mi aiutano invece a ricostruire rapporti, relazioni e amicizie, presenze ed assenze, partenze, passaggi e ritorni: quel nugolo cioè di affetti e di stime, di collaborazioni ancora in essere oppure interrotte che contraddistinguono la vita pluriennale di una compagnia. Un'intervista di Sergio Marra (oggi ufficio stampa del Nazionale di Napoli) a Neiwiler nella quale Neiwiller gli dice “sposo semplicemente l'idea di una difesa dell'arte che passa attraverso una difesa di se stessi” così inducendomi a cercare sui manifesti degli spettacoli i nomi degli interpreti più fedelmente neiwilleriani (Loredana Putignani innanzitutto, e Salvatore Cantalupo, Marco Manchisi, Antonello Cossia, Maurizio Bizzi, Claudio Collovà e naturalmente Tonino Taiuti); oppure: la traduzione del Riccardo II da parte di Enzo Moscato (“Peccato, peccato ca Riccardo 'o rre / cura non se piglia pe sta terra, ne' le port' ammore”) che collego alla traduzione di un canto dell'Odissea operata da Mimmo Borrelli, serbata nell'ultima teca della mostra; ancora: la doppia locandina di Rasoi, doppia perché tra l'una e l'altra replica uno dei nove interpreti cambia (Roberto De Francesco è sostituito da Vincenza Modica) così come capita per il Tartufo, in cui gli attori che mutano invece sono due (Bruna Rossi e Flavio Albanese prendono il posto di Mariella Lo Sardo e Roberto De Francesco); non basta: i disegni rosa/rosso pastello di Lino Fiorito per il Calderon o per Le voci di dentro; le brochure che riportano le parole di Thierry Salomon in merito alle Troiane ("Queste donne di Troia sanno nel profondo che nonostante quello che accade, anche le cose più orribili, esse continueranno a vivere") e le frasi che invece Licia Maglietta dedica a un progetto che provvisoriamente s'intitola Testi segreti ("Una donna che racconta due brevi storie estremamente rarefatte nella tessitura narrativa e che ci porta a radiografare le nostre follie") mentre la richiesta inviata a Cesare Garboli per utilizzare una sua traduzione – “Gent.mo dr Garboli, mi rivolgo a Lei per chiederLe l'autorizzazione a utilizzare la Sua traduzione de Il misantropo in un allestimento dell'opera di Molière che Teatri Uniti intende realizzare con la regia di Toni Servillo, il cui debutto è previsto per il prossimo mese di settembre” – mi affascina soprattutto per la risposta battente di Garboli che prima scrive “Ricevo vostro fax per Misantropo / sta bene, prego contattare Siae / trasmetterò mio benestare / cordiali saluti e buon lavoro” poi aggiunge “ho telefonato al n. 407506” – il numero al quale Teatri Uniti lo rimanda, nel caso voglia delucidazioni sul progetto – ma “risulta sempre occupato”.
C'è in tutto questo un'umanità e una fragilità che ha a che fare con la natura stessa del teatro – che è imperfetta, fugace, di per sé matericamente misera − tant'è che, a un certo punto, mi viene da credere che lo stesso allestimento della mostra, così com'è stato concepito, cerchi di riflettere la momentaneità e la povertà artigianale che appartiene al teatro in quanto teatro: per questo –  penso – sui pannelli le indicazioni tematiche sono scritte col gessetto (basterebbe una passata di mano per cancellarle); per questo le didascalie poste sopra i reperti, accanto ai bozzetti o sotto le foto, sono scritte a penna sul lembo stracciato di un post-it.



 

 

“Così Napoli, dove è così difficile vivere”
(Fabrizia Ramondino)

 
“Al mare non ci pensava. Non è uscito di casa
per andarsene al mare”
(Luigi Compagnone)

 
“Non voglio dire quanti anni avrebbe oggi”
(Ermanno Rea)

 

“E sorrise alla sua immagine nello specchio, e
brevemente considerò il passato di questi giorni
trascorsi e di questa pioggia che scendeva e che
se lui tendeva l'orecchio poteva ancora avvertire
giù da basso, considerò il crollo di via Tasso e la
voragine di via Aniello Falcone, e le bambole coi
capelli neri, i nastri di velluto e il vestito a fiori, la
voce come di moltitudine che era discesa dagli
spalti del Maschio Angioino incontro alla città”
(Nicola Pugliese)


“Questa è la mia città senza grazia”
Nel documento che sancisce e descrive la nascita di Teatri Uniti a un punto leggo che la compagnia “ripensa al rapporto con la propria città” e con un “sistema teatrale confuso che fa della confusione una forza distruttiva” (pare qui di leggere Eduardo e il suo L'arte della commedia). Non solo: leggo pure che il progetto di Teatri Uniti potrà assumere “caratteristiche diverse” – potrà “essere spettacoli, serie di spettacoli, laboratori, ospitalità o incontri, debordare verso altre arti, essere un libro o un'esposizione” – e che potrà riguardare “non un solo spazio”, non un solo palcoscenico: “verrà esercitata una funzione di stimolo verso i teatri, le sovrintendenze e le amministrazioni locali” infatti “per individuare spazi e luoghi adatti ai diversi progetti, rivelando così questi spazi alla città; al tempo stesso Teatri Uniti ha nei suoi scopi statuari la nascita di un Teatro Stabile per la ricerca a Napoli e sin dall'inizio si pone quindi il problema dell'identificazione di tale spazio, della sua progettazione e della sua realizzazione”.
Nel discorso produttivo, organizzativo e artistico di Teatri Uniti – nel suo discorso politico – Napoli torna continuamente: come luogo di nascita, contesto di confronto e di scontro, fonte di ispirazione, serbatoio corporeo e ideativo, terreno fecondo e biblioteca drammaturgica; torna Napoli come sede e come scelta reiterata nel tempo – noi rimaniamo qui, come qui scelse di rimanere Paolo Ricci mi viene da scrivere; rimaniamo in questa città che troppo spesso è stata abbandonata dalla sua borghesia intellettuale e dai suoi illuminati scrittori – e torna ancora e dunque Napoli come opportunità e sacrificio, come possibilità e mancanza, come spazio nel quale riuscire è difficile (e in cui gli sbagli commessi sono quotidiani) ma nel quale tuttavia continuare ad agire. Questa Napoli – che è la città delle saittelle e delle salette teatrali piene di meraviglia e penombra, certo, ma che è anche la città del lassismo e della faciloneria istituzionale, del riclico continuo di sé, delle politiche culturali assenti, dei cronici ritardi nei pagamenti, delle rendite di posizione inscalfibili e dei sindaci-masaniello-del-popolo – torna di continuo anche nei reperti della mostra che non racconta quindi solo la storia di una compagnia teatrale ma anche un trentennio di teatralità cittadina. Così quando leggo uno stralcio d'articolo scritto nel 1994 da Antonio Tricomi per La Repubblica –  “Ore 12: nella sala riunione del Mercadante prende la parola Mario Martone. Tra le mani ha un documento firmato Teatri Uniti. La compagnia rompe gli indugi e chiede ufficialmente, per la durata di due anni e a costo zero, la gestione del Mercadante. È il colpo di scena che caratterizza la giornata” (poco sotto, tra l'altro, Mariolina Mirra invece annuncia: “Metto a disposizione del Comune la mia esperienza di imprenditrice privata”) – penso subito alla  complessa vicenda del Teatro Stabile di Napoli, vicenda che tra entusiasmi ed errori va da Achille Lauro, che voleva farne macerie, a Luca De Fusco, che oggi dirige il Nazionale – con l'avallo del MiBACT – come una fabbrica produttiva, classicheggiante e culturalmente autoreferenziale.
Ancora.
Accanto all'articolo de La Repubblica noto non solo il programma di una stagione teatrale che non fu (e che prevedeva, ad esempio, un testo di Scarpetta con Tonino Taiuti; un testo di Petito con Carpentieri; Totò principe di Danimarca di Leo De Berardinis, la messinscena de L'altro sguardo di Neiwiller e una rassegna che avrebbe dovuto mettere in rapporto il cinema partenopeo col MoMa di New York: “da ricercare finanziamenti autonomi” c'è scritto a penna) ma vedo anche e soprattutto un libretto bianco-azzurro che fa riferimento a Napoli Scena Internazionale e cioè alla rassegna avvenuta tra il settembre/ottobre del 2005 e il gennaio del 2006: il libretto accanto ha un foglio battuto a macchina su cui sono riportate alcune considerazioni assai urgenti: “risulta positiva l'articolazione in sezioni che permette di caratterizzare il progetto con la valorizzazione di alcune peculiarità (teatro napoletano nel mondo, focus, coproduzioni)”; “è invece da stigmatizzare la tempistica della programmazione” e l'assenza di “certezza di disponibilità delle risorse finanziarie sia pubbliche che private”, assenza di certezze che non permette il superamento della “radicata abitudine all'estemporaneità”; “va immediatamente intrapresa” – infine – “una strategia di realizzazione che preveda entro il prossimo mese di maggio la presentazione del progetto”. Ebbene: leggendo e rileggendo più volte questo foglio penso a quel che sarebbe dovuto/potuto essere, a quello che è stato finora (e a quello che non è diventato ancora) il Napoli Teatro Festival Italia mentre – quando m'imbatto nelle cronache dei giornali che fanno riferimento alla riapertura del Teatro Garibaldi di Santa Maria Capua Vetere – rifletto con rammarico e rabbia su com'è stato condotto il Circuito regionale negli ultimi trent'anni: rifletto sugli spettacoli che ha deciso di distribuire e sugli artisti di cui invece si è dimenticato; sugli interventi mancati in merito alla formazione del pubblico, sul sostegno (mai attuato) alla giovane creatività regionale e sull'eterogeneità della proposta artistica, che non ha realizzato.
Questi reperti – proprio questi – per me sono uno schiaffo chiarificatore così come dovette essere (perdonate il paragone azzardato) allora e a suo modo uno schiaffo ben assestato Il silenzio della ragione ovvero l'ultimo capitolo de Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese che, preferendo la visione al reale, finalmente riduceva in stracci l'oleografia del lungomare, la vivacità degli scugnizzi, il pomeriggio trascorso in villa comunale, la parlatina con gli sconosciuti nell'autobus e l'abitudine a “difendere la natura dalla ragione”, abitudine che per la Ortese permette e facilita “il sonno delle popolazioni” e della cui esistenza dovette rendersi conto addirittura Raffaele La Capria (che con la Ortese fu poi durissimo) quando scrisse Ferito a morte –  eccolo questo andamento eternamente presente, quasi oblomoviano, che spasima, vibra ma poi si acquieta e ristagna e che si adegua di continuo a se stesso venendo a patto coi suoi ritmi, le sue debolezze, le sue défaillance; andamento che nel capitolo della Ortese trova forma nel corpo di Compagnone, che non scrive più nulla e che passa i pomeriggi stando in terrazza; negli avventori del bar Moccia, che se ne stanno con funzione decorativa a via Chiaia, e nelle frasi di Prunas, con cui la Ortese di fatto termina il reportage narrativo: “Non è possibile che non succeda mai niente. Un giorno forse capiterà qualcosa.” – afferma Prunas – “Allora forse mi farà piacere essere rimasto qui ad aspettare. 
Ecco. Uscendo dalla mostra, fermandomi per un attimo nel cortile delle carrozze di Palazzo Reale – lo stesso nel quale da due anni il Napoli Teatro Festival Italia ambienta la rassegna “Osservatorio”, che è dedicata alle compagnie più giovani ma che di fatto non “osserva” nessuno (non sono infatti presenti ai loro spettacoli né i critici nazionali né gli operatori di settore) mi trovo d'improvviso a chiedermi: perché? E per quanto tempo ancora? E davvero, da queste parti, può andare soltanto così?
È l'ultimo lascito – involontario, chissà – che mi regala la mostra.








Trent'anni uniti 1987-2017
curatela Maria Savarese
coordinamento scientifico per Teatri Uniti Laura Ricciardi
realizzazione SCABEC, Fondazione Campania dei Festival, Teatri Uniti
in collaborazione con Polo Museale della Campania
Napoli, Palazzo Reale − Sala Dorica
1 luglio-2 ottobre 2018


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