“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 31 May 2018 00:00

Tre note sul "Macbettu"

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Quello che mi ha emozionato.
Quello che devo dire.
E quello che mi resta.
(Tadeusz Kantor)
 


Uno
Non sappiamo con esatta precisione quando Shakespeare abbia scritto il Macbeth (forse nel 1606, visto che viene dato a corte nell'agosto di quell'anno): sappiamo però che il testo fu pubblicato post mortem, nell'in-folio del 1623, senza passi corrotti e con la divisione già stabilita degli atti e delle scene. Possibile che la versione che leggiamo nei libri sia quindi la trascrizione del copione teatrale ormai in uso alle compagnie, possibile che – rispetto all'opera quand'era ancora fresca d'inchiostro – siano stati gli attori ad asciugarne il dettato, rendendolo a misura di palco, adattandolo alla recita da fare questa sera.

Sappiamo inoltre che venne composto dopo gli altri grandi drammi, che si tratta di un capolavoro della maturità e che rappresenta “il momento culminante della grande fase tragica di Shakespeare”, per dirla con Melchiori. Diciassette anni di vicende reali, risalenti alla Scozia del 1040/1057, sono ridotte dal Bardo in una messinscena i cui eventi accadono nel volgere di pochi giorni, giorni che a noi sembrano appartenere a una notte sola (il buio ininterrotto del Macbeth, “contraffazione” della morte) e che sul palco – se il testo viene dato integralmente – non dura più di due ore e mezza. Soltanto duemila righe, il 93% delle quali in versi, a conferma dell'avvenuta rarefazione della parola (non c'è altra opera di Shakespeare in cui la prosa sia ridotta al 7%). A parte la Commedia degli errori – uno scherzo giocoso, un divertissement giovanile – non troverete un testo più breve nel canone shakespeariano: il Macbeth misura infatti poco meno dei due terzi dell'Otello e del Re Lear, circa la metà dell'Amleto e, nonostante abbia una quarantina di personaggi parlanti, un terzo delle battute appartiene al protagonista.
Un uomo e il suo mondo, ecco quello che abbiamo dunque: ora, al nostro cospetto, per la durata di una tempesta, il battere delle campane, lo spegnersi di queste torce.
Tant'è. Peter Ackroyd sottolinea che la parola “tempo” torna nel Macbeth quarantaquattro volte; per Ricordi nel Macbeth avviene una “compressione cronologica”, Kott scrive che il Macbeth dura quanto il rantolo di un uomo assassinato mentre Franco Quadri afferma che si tratta della “tragedia più immediata di Shakespeare”, tale perché “basata su una rapidità impressionante”; Auden nelle sue Lezioni dice che “Macbeth e la moglie svuotano il tempo di qualunque significato” e che “la sequenza di passato, presente e futuro è spezzata tanto quanto la rotazione del tempo naturale” e Harold Bloom avverte che “nessuna altra opera di Shakespeare si muove con altrettanta velocità” e che ciò che “domina il Macbeth è un andamento divorante”, che distrugge a morsi le lancette dei nostri orologi. Diamine, quanto è “frenetico” il Macbeth, annota John Murry; è talmente frenetico, aggiunge William Hazlitt, che assistendo allo spettacolo e pur conoscendo la trama ci dimentichiamo di quel che avverrà e badiamo solo “all'attimo presente”: “Mentre le altre tragedie di Shakespeare si aprono con delle conversazioni che immettono nell'azione qui invece l'azione erompe fra i rumori di un temporale e gli echi d'una battaglia lontana.” – spiega Bradley – “Essa procede velocemente attraverso sette brevissime scene di crescente tensione, fino a una terribile crisi che viene raggiunta con l'omicidio di Duncan”; giusto un attimo per riprenderci, grazie all'apparizione del portiere – mentre intanto, tra le quinte, gli attori si cambiano il costume – ed “ecco che il ritmo rinnova i suoi orrori”. “È così” – conclude – “che diventiamo spettatori di un'anima torturata da un'angoscia che non concede respiro e che corre, instancabile, verso la condanna”.
“Fuggono il tempo e l'ora” leggiamo non a caso nel Macbeth; “mi sento il futuro nell'istante” leggiamo inoltre; “se fosse finito, una volta fatto, allora sarebbe bene che fosse fatto presto” leggiamo ancora e, d'altronde, prendiamo il primo atto: nel giro di venti pagine Macbeth – un uomo probo, colmo di coraggio, che lotta raddoppiando i colpi contro i nemici, squarciandoli dal petto all'ombelico, cioè guardandoli negli occhi; un uomo a difesa della patria, che il re definisce “degno gentiluomo” e la moglie “pieno di umana bontà” – passa dall'uccisione dei traditori al tradimento, dal rispetto delle forme all'inganno e dal desiderio degli onori al pensiero dell'omicidio, considera l'assassinio quindi possibile, lo programma e lo immagina – pur non riuscendo a immaginarlo senza provarne paura – poi coglie un'occasione per attuarlo e di sera, quando tutti sono a dormire, si pone sulla soglia della stanza del cugino: l'ostacolo da eliminare per giungere sul trono. “Perché mi rivestite con abiti presi a prestito?” chiede a pagina sette, sentendosi chiamare con un titolo – Barone di Cawdor – che non gli appartiene e per il quale si sente dunque indegno; “Ho deciso e tendo ogni facoltà verso questa terribile impresa” pronuncia invece a pagina diciannove. Due scene dopo, a distanza di cinque pagine, dirà a sua moglie “l'ho fatto”, io ho ucciso.
Ma attenzione. Sappiamo che il teatro si basa sulla riduzione del tempo e che, se è vero che un'ora di teatro può rivelare il profondo incalcolabile che appartiene a un minuto della nostra vita, accade più spesso il contrario e dunque che un'ora di vita, un anno o un decennio, sulla scena siano espressi in un minuto: è per questo che quel minuto diventa significante, è per questo che un gesto ci rimane addosso, che negli occhi ci resta chiara una scena, che una battuta – questa battuta – ce la ricordiamo a lungo. Dunque il tempo abbreviato del teatro rilascia lente dosi di tempo indefinito, produce impressioni ristagnanti, genera indimenticanza. È, per Agostino Lombardo, proprio ciò che capita col Macbeth, del quale non conta “il tempo materiale ma quello psicologico” e che è sì un'opera “fin troppo rapida” ma, proprio nel suo essere rapida, incide con maggior violenza lo sguardo e l'attenzione dello spettatore impiantando nel campo largo della memoria la brutalità con cui è accaduto il fatto, l'estremismo della dinamica, il valore perturbante delle azioni che sono avvenute.
Lo stesso capita, a mio avviso, col Macbettu.
Ventisei scene tratte dai cinque atti di cui si compone il Macbeth per un totale di quattrocentotrentaquattro righe in barbaricino: Alessandro Serra e Giovanni Carroni (a cui si deve la traduzione) usano il 21,7% del testo originario riducendo ulteriormente la quantità di parole shakespeariane cosicché – di quelle che si salvano dalla cancellazione – ne avvertiamo l'inevitabilità, tutto il peso materiale e umano, la validità essenziale. Composta da gocce ricavate da un mare di pensieri, la verbalità del Macbettu agisce come fosse ragione primigenia ed eco delle azioni e, distillata, ha in sé la preziosità che appartiene al canto, alla formula di un rito, al verso del poeta. Essa è traduzione, in alcuni punti; è setaccio in altri, è aggiunta caratterizzante in altri ancora, in altri è riassegnazione di battute, in altri infine è il risultato di tagli apportati ai monologhi di Shakespeare (di cui, talvolta, rimangono soltanto l'incipit e la chiusa) o la conseguenza della fusione tra più frasi che appartengono alla stessa figura: così, ad esempio, della lettera che Macbeth spedisce a sua moglie non ne resta che un frammento di quattro righe; così la dissertazione su cosa sia “un traditore”, che in Macbeth coinvolge Lady Macduff, adesso riguarda Macbeth e il figlio di Macduff; così l'ultimo dialogo tra Macbeth e Banquo ancora vivente è composto fondendo tre punti diversi dell'atto terzo, scena prima; così le streghe fanno proprie le battute di Lennox e di un nobile, contenute nell'atto terzo, scena sesta; così le cinque righe del monologo con cui Macbettu condivide col pubblico l'apparizione del pugnale vengono dette stando tra le quinte perché la parola generi l'immaginazione dell'assente: rispetto del taomai teatrale, rimando alla drammaturgia verbo-ottica shakesperiana, fondamento della poetica di Alessandro Serra, per il quale l'attore – “maschera sonante” – è “un bastone per ciechi”, lo strumento che permette la visione.
Ma – aggiungo – forse è più corretto parlare di fonè scenica per il Macbettu, di una voce (ritmica complessiva) fatta non solo di parole ma anche e soprattutto di ghigni, sorrisi, fischi, schiamazzi e di soffi, sputi, squassi e fruscii (un corpo che taglia lo spazio, un cadavere portato via lentamente, le setole della scopa con cui si spazza il palcoscenico), di tacchi che battono l'assito danzando, di pugni alle pareti e di campionamenti, incisioni acustiche, echi, ripetizioni sonore, coralità detta sottovoce, di stridori sinistri, momentanei e spettrali: lo scroscio del vino versato da Lady Macbeth nella ciotola (“versare” è uno dei verbi-chiave del Macbeth: “versato” è il coraggio, “versato” è il racconto, “versato” è l'odio), il taglio secco del pugnale che fende l'aria, il rantolo accennato di chi muore, il peso sonoro della pietra adagiata sul legno dell'assito, i bicchieri di metallo trascinati sulla tavola di ferro, una battaglia di spade resa scuotendo in retroscena i campanacci; il ronzio di una mosca (animale solito a gustare per primo i cadaveri), che mi riporta al Tito Andronico (lì l'uccisione di un uomo è equiparata all'uccisione di una mosca) e che disturba le guardie destandole dal dormiveglia; la parola “assassinio” e la frase “ha ucciso il sonno” dette e ridette accumulando toni bassi perché diventino un'ossessione; il funerale di Banquo scandito dalla ritmica strumentale della pioggia, che rimanda alla tempesta iniziale del Macbeth e che rende gli udibili resti della notte “inquieta” – appena trascorsa – durante la quale “la terra ha tremato”, “il vento ha abbattuto i comignoli”, “si sono uditi nell'aria dei lamenti, sibili di morte e voci che annunciavano oscuri avvenimenti”; la riapparizione del fantasma di Banquo nel mentre del banchetto, che avviene facendolo passeggiare su una striscia di pane casarau perché – scricchiolando il pane – il tragitto diventi un ritorno dall'Ade, una risalita dall'Inferno, la riemersione da un mare composto dalle ossa dei dannati, che ora vengono calpestate.
A questa fonè scenica appartiene inoltre il silenzio: quello rotto dall'arrivo delle streghe, quello che fa sentire tutto il valore (falso) di un abbraccio, quello ferito dal rantolo di Duncan nel momento in cui Macbettu gli taglia la gola; il silenzio nel quale Lady Macbettu – fissando il volto cadaverico di Duncan – riconosce il desiderio (a un tempo attuato e represso) di parricidio; il silenzio nel quale Macbettu siede sul trono (la schiena diritta, la testa in asse col corpo, lo sguardo nel vuoto, le mani sulle ginocchia); il silenzio in cui lo stesso Macbettu crolla, afflosciandosi come fosse una marionetta alla quale (dio, quel dio che di nome fa “Shakespeare”, il destino, l'andamento degli eventi, le streghe, Ecate, Macduff o la trama – non so) ha reciso i fili.

 


Due
Nel Macbeth la terra è una “landa desolata” e il castello nel quale avvengono gli orrori “un luogo ameno”. Nonostante sia giorno domina l'ombra e perciò “l'oscurità seppellisce il viso della terra” anche quando la terra dovrebbe essere baciata “di luce viva”. Predomina la “coltre del buio”, il tetro manto dell'aldilà: a guardia degli alberi stanno i gufi, stride la civetta, le fiamme delle lampade paiono “soffocare” mentre “in alto fanno economia”: “le stelle nascondono i loro fuochi” e dunque il mondo pare una stanza dal tetto nero e nella quale “hanno spento tutte le candele”. Resta solo la luna, che al massimo consente l'intuizione di una presenza, di scorgere l'esistenza di un muro, di intravedere un profilo, una sagoma, un'ombra che cammina. “La luce non veda i miei desideri segreti” dice Macbeth, poi dice di più: “L'occhio non guardi quel che fa la mano”: che non si “affacci dunque il cielo per gridare: fermati!” impedendomi il delitto.
Dev'essere per questo – penso – che il palco su cui va in scena il Macbettu è una spianata penombratile in cui, tra luce e assenza di luce, ha la meglio la seconda: rari bagliori illividiscono lembi dello spazio, battendo sul fondale di metallo o impattando sul legno dell'assito, strappando all'assenza di visione pochi oggetti, certi momenti. Un catino, una lama, una verga, qualche pietra, un tavolo, una sedia che fa da trono, sette pezzi di corteccia, bicchieri e brocche mentre un cadavere viene trascinato tra le quinte e un altro, morto da qualche minuto, risplende all'improvviso passeggiando lentamente. Il corpo di guardia del sovrano sembra un brago di maiali in quest'oscurità; Lady Macbettu approfitta del buio per serrare tra le cosce il sesso, strappandolo così ai nostri occhi di curiosi; “un povero attore” – ormai giunto alla fine della sua recita – se ne sta tra due americane del teatro come sta un toro in un recinto prima della corrida o come un detenuto sta in una galera, in attesa di condanna. In questo buio si alza per contrasto bianca la polvere, meglio: si alza grigia la cenere ovvero ciò che resta degli uomini, a lungo andare, quando sono morti. E d'altronde leggo nel Macbeth che le streghe volano “nell'aria sporca”, che tutt'intorno c'è “il fumo dell'Inferno” e che Macbeth vorrebbe che “la memoria” si tramutasse in “nebbia”, magari poi dissolvendosi come “il fiato fa nel vento”. Non si dovrebbe vedere nulla, insomma, anzi meno di nulla e a Lady Macbettu sembra non basti neanche la notte: forse per questo a un punto serra con le mani gli occhi al marito, non comprendendo tuttavia che il buio è il presupposto fondativo per le immagini. Tant'è che – in questo regime detenuto dalla sera – la luce ogni tanto fa comunque capolino, penetra inchiodandosi sul pavimento, si ribella e complotta col regista imponendo segni in palcoscenico, valorizzando un movimento individuale o collettivo, svelando il rimosso della trama. Tre streghe – che dovrebbero essere donne e che tuttavia, nella confusione tonale dominante, sembrano uomini che “portano la barba” – danzano sul perimetro di un cerchio vuoto come stessero svolgendo chissà quale rito propiziatorio, senza il quale sarebbe impossibile rievocare il ritorno dei defunti o, più semplicemente, cominciare l'ennesima replica dello spettacolo. Un chiarore improvviso della coscienza (o è un suggerimento di Serra al personaggio?) disegna un corridoio diagonale che, dall'angolo destro anteriore del palco, porta all'angolo posteriore sinistro, lì dove, accanto a Duncan, ci sta il trono: se vuoi conquistarlo è questo il tragitto che devi compiere. Lady Macbettu – che è una creatura fatta di notte, tanto da celare il viso dietro la cortina dei capelli – dal fondo della notte emerge quando è il giunto il momento di uccidere. Una schiera di fari, col manto esterno in plastica nera, sta sull'americana anteriore calata dal soffitto: simili ai “corvi che gracchiano” dai rami nel testo di William Shakespeare.
“La mente s'era persa dietro a cose dimenticate” dice Macbeth nell'atto primo, scena terza, alludendo alla promessa di grandezza che un tempo quest'uomo aveva fatto a sua moglie, per lenirne il dolore causato dalla morte prematura del figlio. Io, al contrario, adesso mi perdo dietro le cose che ricordo del Macbettu: le guardie immaialite, ad esempio, forse tali perché le streghe se ne vanno in giro a “uccidere maiali” o perché Lombardo, ora ricordo, per la Mondadori ha tradotto il Macbeth associando al sonno delle guardie l'aggettivo “porcino”; il masso con cui il sicario si appresta a schiacciare la testa a Banquo, rimandando all'uccisione del sonno da parte di Macbeth poiché i massi – nel Macbettu – fanno da cuscino; le tre streghe che se ne stanno appese al tavolo come stanno appesi in una caverna i pipistrelli: perché sono creature della notte? O perché quello del Macbeth è un mondo messo sottosopra, “contro natura”, nel quale i gufi hanno la meglio sui falchi e i cavalli si divorano tra loro tanto quanto fa un cugino con un cugino, un amico con un amico, un barone con un re? E poi il mucchio di pietre formato in proscenio man mano che succedono gli eventi, mucchio col quale il portiere brinda, per poi lasciargli il boccale, e al quale Macbettu confessa l'ultimo monologo, stando seduto sul trono, in fondo sulla sinistra. I nuraghi, certo, e la Sardegna delle tombe dei giganti e delle pinnettas, sicuro, e l'isola come un masso galleggiante, figurarsi, ma soprattutto – mi viene da pensare – le pietre porose che ricevono, assorbono e rimandano ciò che viene detto fin dall'antichità negli anfiteatri e dunque ecco le “pietre parlanti” del teatro, che accolgono, serbano e ridanno – raccontando a posteriori, come fanno i testimoni – le vergogne che sono avvenute in scena: “Tu, sicura e ferma terra, non ascoltare i miei passi, non sentire quale direzione prendono, per timore che le tue stesse pietre parlino” non a caso dice Macbeth all'inizio del secondo atto, poco prima di ammazzare Duncan, per timore che di ciò che ha fatto resti qualcosa.
E qualcosa resta, infatti, in chi ha veduto; fossero anche frammenti minuscoli strappati a tutto il resto: l'abbraccio vigoroso tra Macbettu e Banquo mentre dicono “E più forte ci legheremo”, il pugno che Banquo da alla macchina della pioggia generando all'udito un altro crollo di pietrisco, la maniera nella quale Macbettu gira intorno a Banquo – circondandolo – quando ha deciso di ucciderlo; l'apparizione della guardia, che precede quella del re, e il suo andare nervoso avanti-e-indietro mentre Macbettu l'osserva, elaborando il piano del quale proprio la guardia diventa strumento e vittima ulteriore. Ancora: la secca cornice di una porta (soglia tra la notte e il giorno) che dondola al cospetto del portiere ubriaco, mostrandone la difficoltà a mettere a fuoco il mondo, e questa porta che poi gira su se stessa segnalando la confusione vorticosa che assumono gli eventi; Lady Macbettu, la più alta in quanto segno di aspirazione o desiderio o fissazione di “grandezza”, quando si pone tra Macbettu e Duncan; l'apparizione del trono vuoto mentre da destra parte il funerale del sovrano; l'invito a cena rivolto da Macbettu a Banquo, senza guardarlo (come guardo in faccia un amico che ho appena condannato a morte?); la lingua con cui Lady Macbettu risigilla la lettera che gli ha spedito il marito leccandogli la testa, giacché è in testa che sono i pensieri che Macbettu – per la prima volta – ha messo in ordine scrivendo la missiva; l'impiccagione della donna, che pende in retroscena e che, vista di profilo dalla platea, fa delle braccia il cappio dal quale pende in avanti il capo.
Adesso mi pare di ricordare – ma potrei sbagliarmi – anche l'esistenza di una geometria, basata sul triangolo: quello, ad esempio, nel quale s'imprigiona Macbettu e che è formato dal trono (vertice basso), dalla bara (vertice alto a sinistra) e dal nuraghe (vertice alto a destra) o quello, forse più difficile da scorgere, che chiude in sé il trono e che viene disegnato sulla cenere quando il corpo di Banquo viene trascinato dall'angolo posteriore destro al centro del proscenio e, dal centro del proscenio, all'angolo posteriore sinistro. D'altronde – penso – il triangolo vuol dire “tre” e “tre” è il numero contenuto e ripetuto ossessivamente nell'opera di Shakespeare: tre sono le streghe e tre volte una di loro dice “lo farò!”, tre sono gli effetti deleteri del vino e tre volte “bussa” dice il portiere, “tre volte il gatto striato ha miagolato” recita la formula ripetuta dalle streghe, attorno al calderone, e la formula recita ancora che “tre volte si è lamentato il riccio”; tre sono le apparizioni e “se avessi tre orecchie ti sentirei” dice a un punto Macbeth mentre “nove volte nove” (cioè tre volte tre per tre volte tre) leggo nell'atto primo, scena prima, del Macbeth: sarà per questo – chissà? – che Macbettu, nel Macbettu, convoca le streghe giocando a un due tre stella: volto alla parete, le chiama dicendo “Uno duos e tres, tocca muru!”.

 


Tre
Dieci anni fa Alessandro Serra ha realizzato un reportage fotografico tra i carnevali della Sardegna: è stato a Lula, Bitti, Bosa, Orgosolo, Gavoi e ha assistito alla reiterazione di una cerimonia ogni volta misterica, ubriacante, con la quale il popolo – al netto del folklore a favore dei turisti – compie i riti agrari, si augura fortuna, allontana la fame, la miseria e la violenza (attraverso la forza simulata e controllata) e, guardando al cielo, respinge da sé la morte. Si tratta di feste totemiche, catartiche, militaresche e spaventose, dominate da uomini barbuti che, in vesti di vecchie, chiedono un po' di latte alternando sorrisi sfatti ad allusioni sessuali, in cui sfilano plotoni di maschere in costume, nei quali i bambini assumono il ruolo di sacrificati o di sacrificanti e in cui scorre a fiotti il vino, quando non scorre il sangue. D'altronde per capirne la forma e la sostanza basta pensare – come fanno Dolores Turchi e Sergio Atzeni – al termine sardo “carrasagare”, cioè “carnevale”, che è la contrazione di “carra 'e segare” che significa “carne viva” da “lacerare”: così come avveniva, ricorda la Turchi in un suo libro, già nelle feste dionisiache, dalle quali nasce il teatro.
“Mi colpirono” dice Serra “i suoni cupi prodotti dai campanacci”, simili a quelli prodotti dalle armi usate in battaglia, e “i canti a tenore, che un tempo mi facevano paura”, mi colpirono “la lingua asciutta, scontrosa, ieratica, nella quale non c'è un modo per dire ti amo” e “le pelli di animali, le corna, il legno, il sughero” – materie primordiali come quelle citate da Shakespeare nel Macbeth: la paglia, il marmo, il legno, la pietra, l'acqua –; mi colpì “il vino rosso”, lo stesso che Lady Macbettu versa ai porci, e la sfilata “dei Mamuthones” che, procedendo “con l'incedere di un ritmo antico”, dava l'idea di “un'incombente forza della natura che sta per abbattersi” sull'uomo – ecco la foresta di Birnam, che avanza condannando il traditore – e “mi colpì il ballu tundu”, che nel Macbettu le streghe compiono all'inizio, e “il buio inverno”, durante il quale l'isola illividisce, tra l'oscurità celeste e il grigio della terra infreddolita. I canti funebri, le formule magiche delle attidoras e il bagassa pride (”bagassa” sentiamo più volte nel Macbettu) ossia la sfilata delle streghe, di cui vediamo una rimanenza quando le serve di Ecate si moltiplicano e traversano in orizzontale il palcoscenico tenendo un cuscino sotto la guancia destra. Infine “mi colpirono” aggiunge Serra “gli uomini ubriachi, capaci di cose inimmaginabili e, al tempo stesso, di rispettare un ritmo all'apparenza ineseguibile”, “mi colpirono la potenza dei gesti e della voce”, “la precisione formale delle danze” e la “percepibile presenza di Dioniso”.
Nietzsche mette in relazione Dioniso col Macbeth, Gordon Craig ne L'arte del teatro dedica un capitolo all'irrinunciabilità del fantasmatico nei testi di William Shakespeare mentre Peter Brook, in una conferenza tenuta a Berlino, dopo aver chiesto il permesso di poterla pronunciare senza destare il fastidio di nessuno, usa la parola “metafisica” per dire che – quando guardiamo una messinscena tratta da Shakespeare –  dobbiamo osservare non solo le relazioni tra chi agisce in assito ma anche se c'è un rapporto tra la terra e il cielo, tra la scena e l'oltre-tetto: “D'altronde l'architettura del teatro elisabettiano si presentava come una struttura a più livelli, non dovremmo mai dimenticarlo” dice Brook: “c'è un livello qui, ad altezza uomo, e c'è un livello più in alto, che serviva di tanto in tanto”: quando appare un fantasma, torna un morto, compaiono le streghe, avanza lo spettro di un re che desidera parlare con suo figlio Amleto. “A noi” – che stiamo facendo di tutto per secolarizzare l'oltremondano, annullandone il valore – “tutto questo può apparire strano” ma strano non era invece “per Shakespeare e per il suo pubblico” spiega Brook “perché, in un tempo nel quale regnava insicurezza, era un bene pensare che dietro il caos esistesse una strana possibilità di comprensione, in rapporto a un ordine diverso, che non aveva niente a che vedere con il politico”. “Questo sentimento” – continua Brook – “è presente in tutte le opere di Shakespeare e se rifiutiamo di accettare l'esistenza di un mondo degli spiriti, faremmo meglio allora a bruciare queste opere” o a mandarle al macero.
La stregoneria fu proibita in Inghilterra nel 1542 ma le streghe non smisero certo di agire: “Per gli abitanti dei villaggi, i lavoratori, i piccoli contadini, i bottegai” – e finanche per Giacomo I, successore di Elisabetta – “la stregoneria continuò ad influenzare la realtà attraverso mezzi soprannaturali” scrive Thomas: “curando la gente dagli incantesimi” (nel bene) o (nel male) “facendo scherzi, provocando tempeste e maremoti, danneggiando gli animali o ferendo e uccidendo donne, uomini e bambini”. Nel 1562 un nuovo decreto punì “le apparizioni delle streghe” – come se una strega potesse essere afferrata e messa in cella – e bollò come crimine “l'invocazione degli spiriti maligni”; un paio di anni e “l'omicidio per mezzo di stregoneria accertata” divenne punibile con la condanna a morte. “È il mondo di William Shakespeare” ci dice Brook, di cui il teatro diventa un'espressione rivelatrice ed è per questo che – nel Macbeth – fisico e metafisico coesistono, che la dimensione del visibile sfocia nella resa dell'invisibile e l'azione, oltre ad essere “orizzontale”, è anche “verticale”.
Nel Macbettu le streghe appaiono scavalcando la parete che funge da fondale, compiendo un movimento che dall'alto le porta in basso; osservo Macbettu che più volte alza lo sguardo verso il tetto del teatro (conscio, dunque, dell'esistenza di una dimensione oltremondana) e lo sento “corpo vuoto risonante” quando d'improvviso rilascia parole con la voce delle streghe, che gli insufflano i pensieri e – quando le “bagasse” compiono il rito su di lui – “operano” (letteralmente) stando in piedi (cioè in verticale) sul corpo di Macbettu, steso sul tavolo (dunque in orizzontale). Si tratta di frammenti che mi servono per dire quanto Serra tenga in conto proprio l'aspetto metafisico del Macbeth e la relazione che esiste tra gli spiriti e la materia, relazione decisiva per comprendere un'opera in cui tre streghe annunciano a un uomo che diventerà sovrano e quest'uomo – invece di attendere il compimento del destino – cede alla foga, provocando una carneficina: “Se il Caso mi vuole re allora il Caso può incoronarmi senza che mi muova”, dice Macbeth, e nella stessa pagina tuttavia si chiede: “Allora perché cedo a una tentazione” che “mi rizza i capelli” e che “fa sbattere il cuore sulle costole?”.
“Onore a te”, gli  hanno detto insomma le tre donne: “l'assassinio” ha inteso fraintendendo Macbeth.
Ma il sovrannaturale del Macbettu non è solo tematico e non rivela solo la disfunzione in atto tra il Potere e il suo esercizio, tra il Desiderio e la voglia becera, tra l'Onore e la sua concretizzazione pratica, accumulatrice, amorale e rovinosa; il sovrannaturale del Macbettu è anche uno specifico teatrale e segnala una vocazione compositiva perché Serra – rendendo il testo in un'altra lingua (in questo d'accordo con Peter Brook per il quale il dettato di Shakespeare, se tradotto fedelmente, produce un “suono ampolloso” mentre occorre trovare un altro lessico, un proprio “modo poetico”, intendendo per “poesia” un “linguaggio carico di d'intensità”) – e dando forma nuova all'opera riesce a far “risuonare i corpi e le voci degli attori in un coro che vibra all'interno di uno spazio organizzato” (la concezione di “messa in scena” espressa da Serra nel volume Teatropersona) realizzando una cerimonia calcolata al millesimo e al millimetro e così generando quella forma falsa con cui, da millenni, il teatro ri-vela l'informe effettivo del reale “attraverso la visione”.
E dunque.
“I rituali che facevano incarnare l'invisibile furono all'origine del teatro, ma ormai” − scrive Brook ne Lo spazio vuoto confessando delusione“questi rituali sono andati perduti” poiché “abbiamo smarrito il senso della cerimonia” che al massimo affidiamo a un funerale, al Natale o a un matrimonio. E tuttavia talvolta in noi riaffiorano le parole antiche, gli istinti atavici e sopiti, “i vecchi impulsi e sentiamo” che “dovremmo avere di nuovo rituali” che siano in grado di generare “un'esperienza che vada oltre la ripetitività del quotidiano”.
Il teatro può essere ancora un rito, sembra invece dirmi Serra col Macbettu, può essere ancora una cerimonia: a patto che rispetti le sue forme autentiche, che scriva con le immagini la sua poesia, che preservi l'attore in quanto celebrante.

 

 

 

leggi anche:
Alessandro Toppi, Frammenti di vita, da Hopper al teatro (Il Pickwick, 11 luglio 2017)

 


sul Macbettu leggi anche:
Michele Di Donato, Impressioni sparse sul “Macbettu” (Il Pickwick, 9 maggio 2018)
Rossella Porcheddu, Teatropersona. Macbeth in Barbagia (Teatro e Critica, 5 dicembre 2016)
Simone Nebbia, Chi scriverà il classico del presente? (Teatro e Critica, 8 maggio 2018)
Andrea Porcheddu, Il Macbeth barbaricino a colpi di coltello (glistatigenerali, 3 ottobre 2017)
Sarah Curati, Shakespeare in Barbagia (Paper Street, 26 ottobre 2017)
Massimo Marino, Macbettu Napucalisse (doppiozero, 6 aprile 2017)
Enrico Fiore, Se lo spettro di Banquo frantuma sotto i piedi il pane casarau (28 febbraio 2018)
Vincenzo Sardelli Il Macbeth di Teatropersona (KLP, 7 giugno 2017)
Sotera Fornaro Sardegna: tra epos e tragedia (Stratagemmi, 28 mggio 2017)
Francesco Bove Cosa succede se in Scozia parlano sardo (L'armadillo furioso, 1 marzo 2018)

 

 

 

 

Macbettu
di
Alessandro Serra
tratto da Macbeth
di
William Shakespeare
regia, scene, luci, costumi Alessandro Serra
con Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino
traduzione in sardo e consulenza linguistica Giovanni Carroni
collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini
musiche pietre sonore Pinuccio Sciola
composizioni pietre sonore Marcellino Garau
foto di scena Alessandro Serra
produzione Sardegna Teatro, Teatropersona
con il sostegno di Fondazione Pinuccio Sciola, Cedac Circuito Regionale Sardegna
lingua sardo
durata 1h 20'
Roma, Teatro Argentina, 6 maggio 2018
in scena dal 4 al 6 maggio 2018




Alessandro Serra

Macbettu
contributi di Fernando Marchiori, Enrico Pau
Nuoro, Ilisso Edizioni, 2017
pp. 151

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