“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 18 October 2016 00:00

"Un virusse corrosivo". Efestoval, Campi Flegrei

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È Mimma Gallina a darmi lo spunto con cui iniziare questo articolo. Scrive infatti, in Organizzare teatro, che “i Comuni capoluogo con il 30% degli abitanti circa assorbono quasi il 60% dell'offerta di spettacoli”, aggiunge che “le sei città italiane con oltre 500.000 abitanti, dove risiede il 12% della popolazione, assorbono oltre il 30% dell'offerta” e chiude ricordando che “i Comuni fino a 50.000 abitanti, con il 64% dei residenti, si aggiudicano il 38% degli spettatori”.

Mimma Gallina, coi numeri, dice che ci sono “dati allarmanti” che riguardano “le sperequazioni Nord-Sud” ma anche i rapporti di forza tra “centro e periferia” e che i piccoli e i piccolissimi Comuni sono “in molti casi del tutto esclusi dall'attività dello spettacolo”. Non solo: dice che se il decentramento delle attività culturali è stato inteso come uno strumento per attuare una “diffusione democratica del teatro” ciò che sta avvenendo, anno dopo anno, è l'erosione progressiva di questo stesso principio: il teatro diventa elitario diventando sempre più urbano, proposto in offerta (addirittura eccedente) quasi solo nelle grandi città e nei loro centri storici, possibilmente in sale all'italiana ampie, dedite alla reiterazione di un repertorio ristretto e sempre più capaci d'indurre la passività cine-televisiva anche allo spettatore teatrale.
Lontani i dibattiti e i convegni degli anni Settanta, in Campania sono ormai lontani anche i fallimenti delle progettualità post-bassoliniane, poiché gli spazi periferici affidati per bando (l'ultimo nel 2001) alle compagnie selezionate perché rigenerassero artisticamente porzioni di territorio sono – sovente – rimasti chiusi: per fragilità ideativa, per inesperienza gestionale, più spesso tuttavia per mancanza di fondi comunali con cui sostenere il progetto, per l'impossibilità a rimediare all'impraticabilità strutturale dei luoghi o per l'incomunicabilità burocratico-amministrativa, capace di far appassire ogni entusiasmo coi suoi cavilli, i suoi silenzi, con i suoi impedimenti dimostrati a rigore di norma. Ad oggi, dunque, l'unica politica culturale ad ampio raggio che riguarda altri centri che non siano Napoli è, di fatto, quella attuata dal Teatro Pubblico Campano – finanziato dal MiBACT e dalla Regione Campania: una politica votata alla vendibilità commerciale della proposta, alla certezza dell'incasso, alla turnazione di spettacoli basati sulla convenzionalità del linguaggio impiegato; una politica che distribuisce messinscene di cantattori, comicità locale o classici spesso ridati in forma ammuffita; una politica che non investe sul rischio artistico, sul ricambio generazionale, sui nuovi lessici dello spettacolo perché interessata a compiacere le aspettative del pubblico di ieri – garantendosene lo sbigliettamento – più che impegnata a formare la comunità teatrale di domani.
Questa – che è una politica immaginata, voluta e sostenuta col beneplacido delle istituzioni regionali e dei diversi Comuni interessati – ci dice anche della considerazione che si ha del pubblico non-napoletano, degli spettatori che abitano nei medi, nei piccoli e piccolissimi centri: uomini e donne cui basta dare nomi televisivi o titoli che appartengano a un ristretto orizzonte drammaturgico; uomini e donne cui non offrire mai il nuovo – come fossero incapaci di confrontarsi con esso – né lo spiazzamento possibile che potrebbe derivare dal rapporto con forme differenti di teatralità; uomini e donne cui si chiede di sostenere – oramai da decenni – una produzione d'antico retaggio; uomini e donne cui rivolgersi al massimo attraverso un rapporto empatico/distributivo che quasi ricorda quello stabilito un tempo dalla fabbrica produttiva della sceneggiata: riconoscibilità immediata della trama, innovazioni solo apparenti nelle modalità di allestimento, immutabilità dei generi e del loro campionario, presenza della star tanto attesa. Per dirla usando espressioni di Marta Porzio: proponendo al suo pubblico “sempre la stessa forma e gli stessi contenuti teatrali” il Teatro Pubblico Campano abitua questo stesso pubblico “a non vedere null'altro”.
Non è un discorso di poco conto: dentro c'è la sottovalutazione delle capacità intellettuali del pubblico di provincia, dentro c'è una discriminazione sociale e civile che viene attuata attraverso l'utilizzo di soldi, spazio e tempo ufficialmente impiegati in cultura e teatro; dentro c'è un affarismo finalizzato al mantenimento di un sistema, c'è la prospettiva corta della propria sopravvivenza imprenditoriale, c'è un'idea reazionaria – nella migliore delle ipotesi – della massa, del popolo, del pubblico.


L'Efestoval – escluso un preludio che coincide con la messinscena di Kohlhaas, con Marco Baliani, avvenuta nel Complesso di San Nicola da Tolentino – si svolge nei Campi Flegrei e, in particolare, a Bacoli, Baia e Torregaveta; si svolge cioè nell'extra-urbano ad Ovest della metropoli, lì dove la Napoli onnicomprensiva e accaparratrice non riesce ad arrivare coi suoi tentacoli. L'Efestoval si svolge dunque in uno dei tanti territori regionali desertificati di teatralità: volendo fare un censimento approssimativo dei teatri presenti oltre il confine occidentale napoletano, costituito dal quartiere Pianura – dunque prendendo in esame il territorio che da Quarto arriva a Monte di Procida – si notano solo un cine-teatro (a Quarto), che funge soprattutto da sala per la proiezione delle partite del Napoli o da sede di un cineforum invernale, e un teatro – la Sala Molière, a Pozzuoli – che abita una parte dell'ArtGarage: centro dedicato alla danza classica e contemporanea. Il resto, comprendendo anche la zona domitia che cinge il litorale flegreo con distese di villette a schiera, parchi acquatici che compensano col cloro l'inquinamento marino e complessi residenziali con cancelli difensivi all'esterno, propone come luoghi di aggregazione e cultura i cinema dei centri commerciali o i multisala posti accanto a bowling, distributori di benzina e McDonald's.
La prima funzione (geo-politica) esercitata dall'Efestoval è dunque quella di sottrarsi all'abbraccio sedativo di Napoli per cercare di praticare teatro nel proprio contesto d'appartenenza; lì dove un teatro – inteso come edificio – neanche esiste:


“Nei crateri propulsivi e tellurici
sul quale picchia batte e si dimena
con la forza dell'ostinazione demiurgica
contraria capatosta e poco amena
dalla costanza, del lavoro dal dentro,
dal sottosuolo 'ncuorpo addo' se sventre,
lavorando dal basso umile manifesto
campa ogni Cristo malussanto Efesto”.


L'Efestoval deraglia dunque le traiettorie consuete, spinge ad uscire non solo da Napoli ma dal suo centro storico, fitto di sale teatrali, e induce al viaggio verso altre strade, altri luoghi, altri panorami: non è un caso – anzi, è una circostanza simbolicamente straordinaria – che, assistendo a I giganti della montagna di Roberto Latini dall'alto del Parco Monumentale di Baia, si scorga Napoli solo come parete di fondo e la si scorga vedendola dai Campi Flegrei, dall'altra parte ovvero da questa parte: all'opposto dell'immagine da cartolina, al contrario da ogni veduta ordinaria. Così, questa scelta di campo, diventa il primo fondamento di Efestoval: siamo di qui, quindi stiamo qui e qui tentiamo di costruire qualcosa che non c'era. D'altronde scrive in Teoria e tecniche per l'organizzatore teatrale Franco D'Ippolito che se è vero che a un festival si possono chiedere tanti elementi qualificanti – dall'incontro tra discipline diverse alla presenza di prime nazionali, a seconda del tipo di evento cui si vuole dare vita – c'è un aspetto che non può essere subordinato ad alcun altro e che deve (meglio: dovrebbe) fungere da primo comandamento: “Ciò che si chiede ad un festival, in ogni caso, è di trovare una precisa relazione con un determinato luogo; interpretare una tradizione, una funzione o una vocazione e – se non ci sono – crearle”.
Non si tratta di usare gli scorci paesaggistici in funzione turistica, si tratta invece di nutrire coerentemente l'identità del festival con l'identità del posto in cui accade. Così Giduglia, di e con Patrizia Aroldi, va in scena presso la Comunità Dedalo, ovvero un centro terapeutico riabilitativo dell'Unità Operativa di Salute Mentale di Pozzuoli; Dissonorata, di e con Saverio La Ruina, avviene nell'ex Scuola Media di Baia, della cui esistenza si fecero promotrici in particolare le donne occupando direttamente i locali o sostenendo l'occupazione condotta dai propri mariti; I giganti della montagna di Roberto Latini appaiono invece nel già detto Parco Monumentale di Baia, in cui convivono i resti della storia passata con una bellezza naturalistica, segreta ed amena, che ricresce rigenerandosi di continuo. Non basta: Memorie e versi dei Campi Flegrei sorge – col sorgere dell'alba – presso il molo e sulla spiaggia di Torregaveta, esattamente lì dove annegarono le due ragazze rom di cui si narra in SEPSA di Mimmo Borrelli mentre lo stesso Borrelli non può che organizzare il Memorial Bombolone nel parcheggio della Villa Comunale di Bacoli, sotto il cui strato di cemento giace la terra battuta del Maremorto: il campo nel quale si sono formate più generazioni di calciatori locali. Infine Sogni in compresse, con la regia di Maura Perrone e Roberta Serretiello, concede agli ospiti della Comunità Dedalo la possibilità di calcare l'unico palcoscenico flegreo, quello dell'ArtGarage: così, mentre la comunità ospita il teatro (Giduglia), il teatro ospita gli appartenenti alla comunità (Sogni).


“Caldere sotterranee, i nostri figli, sono:
bombe che non hanno mai avuto il dono
di un detonatore. Mine che non scoppiano
mai: ma inutili, giammai si accoppiano.
Tanti artigiani che devon raccontarsi
la solitudine del loro rinnegarsi.
Costruire prima in sé, poi fuori
e fuor di sé, armarsi a muratori”.


L'Efestoval, da questo punto di vista, non lascia indietro nessuno: viverlo per intero – dalla conferenza stampa di presentazione all'ultimo degli spettacoli, essendo presente anche  agli eventi collaterali – significa entrare nell'officina di un cantiere navale o nell'umida cella di un'azienda vinicola, significa passare d'avanti alla Piscina Mirabilis o avere alle spalle la Cumana, in sosta al capolinea; significa conoscere Giacomo Illiano detto “Sampei” – uno dei due cozzecari che ancora, in Campania, coltivano i mitili con metodo naturale – o il vecchio Di Meo, che ti racconta delle ottanta vendemmie cui ha già preso parte e te lo racconta avendo in una mano i grappoli appena raccolti e nell'altra le cesoie. Significa – soprattutto – imbattersi in coloro che, di questo territorio, si prendono già cura durante tutto l'anno e già prima della creazione dell'Efestoval stesso: ragazzi, giovani e giovanissimi, impegnati quotidianamente nell'alimentare il dibattito e la pratica sociale, politica e culturale in loco; significa conoscere Marina Commedia o Luna Rossa, ad esempio, e IoCiSto, associazione che si è impegnata a promuovere il confronto tra le diverse realtà culturali del territorio, che ha organizzato laboratori di programmazione partecipata, che ha recuperato il Parco Cerillo e che si preoccupa delle condizioni di praticabilità della Biblioteca comunale.
Ecco, dunque, la forza primigenia dell'Efestoval, ecco il nucleo di base che lo concretizza, ecco Carla e Nicoletta, Salvatore e Lucia, Marika e Davide, Serena e Mariano, Wanda e Cecilia; ecco i cinquanta giovani – a loro mi riferisco – che lavorano in biglietteria e come maschere di sala, che sono agli stand o si occupano dell'accoglienza, ecco i cinquanta giovani – formatisi durante l'anno, attraverso laboratori specifici – che scattano le foto degli spettacoli o chiedono di scattarti una foto con la maschera-simbolo di Efestoval; che aggiungono e tolgono le sedie; che sistemano i fari o ti accompagnano lungo il percorso che ti porta dall'ingresso alla platea, dandosi il cambio, facendo tra di loro staffetta. Eccoli:


“Ergere muscoli, forza ed energia
formare ciclopi, fabbri delle incudini:
non degli automi senza autonomia,
figli di una scure contro le inquietudini,
contro il potere di chi si lamenta
e che 'il tutto sembra inutile'… ostenta”.


Eccoli “ergere la scure contro le catene” – per continuare a usare i versi di Malussanto Efesto, di Mimmo Borrelli –; eccoli reagire a chi “opprime sempre l'ingenuità” dandosi da fare, facendo parte, attivandosi. Giovani, torno a sottolinearlo, che generano col proprio impegno occasioni e nuove possibilità; giovani che sorreggono le idee della direzione artistica credendoci; giovani che provano a “mettere sottosopra il suolo e le menti” e ad “aprire il senno al sonno dei sogni”. Giovani poiché solo dai giovani può venire il riscatto, può nascere qualcosa di diverso in questo pezzo di terra che – nei decenni passati, dalle generazioni precedenti – è stato invece inquinato e colmato di cemento, deturpato e ha visto sporcata la propria bellezza, che è stato abbandonato dalle istituzioni nazionali e sventrato dal malaffare partitico locale attraverso un consociativismo intercorso tra amministrazioni pubbliche, costruttori d'abusi edilizi, sversatori di liquami, massacratori della terra e del mare. E allora, leggendo ancora Malussanto, mi sembra di comprendere il senso di questi versi:


“Costruir per ammazzare i padri
che hanno rimboccato in maniche di ladri,
la nostra esistenza messa al precariato
delle brecce e sotto i piedi ed al costato”


mi sembra di comprendere – in queste parole – la rabbia e il bisogno di riscatto, la voglia di discontinuità rispetto a chi ci ha preceduto e la presa di coscienza che è venuto il tempo di assumersi la responsabilità concreta del cambiamento poiché:


“Se ostile è la vita e la nostra realtà,
se ostile è chi ci priva della libertà
'i essere scieme, ma con controllo:
allora na mazzola ce vuttamme 'ncuollo.
Ostile è un martello contro Dio,
una carezza ad ogni spantechijo,
un pugno chiuso erto anche alla lotta
contro chi, purtroppo, non ci ascolta:
poiché senza sputo, ira e indignazione
urlo, travaglio, maglio di scintilla
e la fatica nella mano dell'azione
nun rompe tenaglie e manco li pupille
spalancate al miracolo r' 'a bellezza,
che è l'unico rimedio contr'arretratezza”.

 
Non basta “'a critica pe' piglia' cunzenzo” – dice Malussanto – poiché “chi critica  pe' mettere sempe scumpiglio senza mai mettere mano  a lu periglio” produce “sulo collera”: occorre invece agire. Criticare sì ma col “fare e tentare” dunque, dando un aiuto “che 'nn'adda essere carità, ma comunione cu 'i mmane ra spacca' e vutta'”. Non fermarsi alla denuncia, ultima soglia della rassegnazione, ma compiere il passo successivo: generando una re-azione fattiva.
Sia chiaro: l'Efestoval inverte l'ormai consueta (e a tratti furba) relazione che viene stabilita tra l'evento (e suoi ideatori) e il contesto di riferimento (e suoi abitanti): non si tratta di ottenere fondi pubblici per fare il proprio teatro usando, per paravento o come risarcimento “politico”, gruppi più o meno ampi di cittadini né si tratta di “giustificare” il finanziamento della propria pratica artistica attraverso una socialità laboratoriale di maniera, che risulti soltanto a referto; si tratta invece di coinvolgere residenti, associazioni, volontari in un progetto che abbia al centro la teatralità e che diventi un modo ulteriore con cui prendersi cura del territorio. Si tratta di fare del teatro – inteso come pratica scenica, inteso come risultato artistico – un costruttore di neopolis e di neociviltà o, se preferite, di farne un mezzo per creare microcomunità d'ascolto e di partecipazione; si tratta di “battere la pietra e farne un tempio, battere l'oblio del comodo a scempio” e di farlo insieme, giacché solo assieme è possibile questa rivolta, questo riscatto, questa rigenerazione soggettiva e collettiva.
Ecco, dunque, un altro tratto fortemente identitario dell'Efestoval; un tratto di matrice generazionale, un tratto fortemente innovativo se penso che tale pratica è realizzata in una Regione che – anche in ambito culturale – soffre di passatismo, di napolitudine centralistica e che serba la tradizione come materia da teca presepiale; una Regione nella quale latitano le opportunità concrete perché si verifichi un cambiamento di persone e prospettive tanto tra gli operatori di settore quanto tra gli artisti impiegati sul palco: una Regione le cui leve del comando teatrale appartengono ai socialisti d'intramontabile era craxiana, variamente riconvertitisi nelle loro dipendenze e amicizie di partito; una Regione che ha un Festival da cui è scomparso il Fringe, che ha un Teatro Stabile (diretto da Luca De Fusco) incapace di ospitare la drammaturgia contemporanea, campana e nazionale, e che annovera come direttore del circuito regionale, da trentatré anni, sempre lo stesso uomo: quell'Alfredo Balsamo che, per sua stessa ammissione, è “non competente nelle scelte degli spettacoli di compagnie giovani e di danza”.
Così praticando, così facendosi, l'Efestoval contrasta l'andamento generale costituendo se stesso nel tempo, da un lato radicandosi territorialmente e dall'altro formando i suoi stessi agitatori sul campo, i suoi organizzatori, i suoi prossimi esecutori: è una scelta che guarda al futuro, in una terra culturalmente abituata a contemplarsi contemplando il passato.


“Efesto” – ci dice Malussanto Efesto, il componimento che sto usando come guida in versi in questo ragionamento sul festival – “nella mitologia greca è il Dio del fuoco, r' 'a tecnologia, della scultura e della metallurgia, dell'invenzione  e dell'ingegneria”. Efesto – continua Malussanto – “è di cattivo carattere”, almeno in apparenza, e non “'dice manco na parola” ma “sott' a sta scorza annasconde dint' 'i muschele chella forza r' 'i vraccia, 'ngengina, mane e spalle, ca perzino 'nt' 'i cervelle ce sponta li calle”.
L'ultima sera di Efestival osservo Mimmo Borrelli: spossato ed al tempo stesso ancora scattante, Borrelli saluta, discute, presenta, mette in relazione, spiega, accompagna all'ingresso o all'uscita, s'intrattiene coi giornalisti e con gli spettatori, spesso si guarda attorno stando di lato, quasi ai margini, come sul perimetro; durante Dissonorata di La Ruina sceglie di starsene dietro, in piedi, braccia conserte sul petto: sguardo ora alla platea, ora al palcoscenico. Per tutto l'Efestoval – fatta eccezione per le due mattine e l'unica sera in cui ha preso posto in palcoscenico, per eventi gratuiti – Borrelli non ha detto “manco na parola” traducendo il suo impegno – la sua direzione artistica – in concreta “forza r' 'i vraccia, 'ngengina, mane e spalle” al punto che, ora che ci penso, “perzino 'nt' 'i cervelle” deve  avere sentito “li calle”.


“'A fucina soja se trova dint' 'i viscere
r' 'u pappamonte addo' ogni preta sconce
lavora insieme ai suoi ciclopi a mescere,
ncopp' 'i cunie, martielle e accuonce:
adderizza chello ca ca' stuorto cumpare
sturzella tutto chello ca deritto pare”.


Forzo, sapendo che nessuna idea è davvero coniugabile al singolare, che nessun uomo è davvero un'isola a se stante. Forzo ed immagino che la direzione artistica di Borrelli abbia avuto come fondamento la Parola – un pensiero articolatosi in progetto, volontà, necessità da tramutare in pratica – e che questa Parola, di genesi apparentemente personale, sia comunque venuta dalla pregressa relazione col contesto d'appartenenza, con la terra in cui è nato. Ma la Parola – il pensiero, il progetto – non basta: diventata energia corporea potenziale e dunque primo getto, scatto e proposta, ha bisogno degli altri.
Spazio, tempo, relazione.
La Parola s'articola come s'articola un testo definendo la propria stessa esistenza: si diffonde marcando il territorio; diventa sincronica nella diacronia, scandendosi come strumento di coinvolgimento costante nella dimensione lunga della preparazione dell'evento; si fa messaggio, materia di comunanza e catena. Lega – la Parola – chi l'ha detta con chi l'ascolta e, dopo aver indotto la ricezione, obbliga alla considerazione di sé ossia a prendere posizione, a decidere: facendola propria o rifiutandola, accogliendola o lasciandola stare, compartecipandola o rimanendo immune dalla sua influenza.
La Parola – il pensiero, il progetto – diventa pratica collettiva, rafforza l'unione, nel suo farsi genera l'atto, il presente, ciò che accade. Questo procedimento vi ricorda qualcosa?
Leggo e rileggo le programmazioni 2015 e 2016 dell'Efestoval: da N'gnanzou di Pirrotta a Kohlhaas di Baliani, dall'Odissea di Perrotta a I giganti di Latini, da Capatosta di Colella a Patria puttana di Moscato o Dissonorata di La Ruina (per citare solo alcuni tra gli spettacoli). Quale filo rosso emerge? Quale legame, quale costante, quale elemento unitario, pur nella diversità delle proposte? Il fondamento è sempre la Parola – che deriva dal rapporto con un contesto di partenza, ora concretamente territoriale (la Sicilia e la Calabria, l'Ilva di Taranto e le serpentelle dei Quartieri Spagnoli), ora metaforicamente drammaturgico-letterario (Omero e Pirandello, l'ingiustizia della Legge o il viaggio come soglia e destino) – ma la Parola, invasato il corpo, definisce con la sua messa in scena la propria esistenza: marca il territorio costruendosi la platea; da diacronica si rende sincronica facendo dell'allora l'adesso dello spettacolo; diventa messaggio, materia di comunanza e catena unendo l'attore e il pubblico, l'autore e l'uditorio.
Scrive ancora D'Ippolito, nel suo Teoria e tecniche per l'organizzatore teatrale, che “il festival prefigura, molto più che in altre forme, un intreccio insolubile di implicazioni artistiche e organizzative” quasi come se le une si dovessero rispecchiare nella altre, che le une debbano confermare le altre, che le une siano il rafforzamento (e la conseguenza) delle altre. È proprio questo che intendo sottolineare – in ultimo – dell'Efestoval: la connessione ideativa, addirittura epidermica, tra il modo in cui è stato organizzato ed il teatro che ha proposto, reiterando – sul palco e attorno al palco – un processo creativo quasi analogo (individuo e collettività; territorialità e definizione dell'uditorio; condivisione e affezione del pubblico; compartecipazione e sensazioni permanenti dell'esperienza vissuta) che dice – più di quanto io possa mai dire – della sua coerenza identitaria, presupposto e ragione essenziale perché l'Efestoval sia oggi riconoscibile e riconosciuto e domani ancora sostenuto, atteso, ricreato.
Merito di Borrelli, merito di chi gli è stato accanto.
Così – da chi lo ha pensato per primo all'ultimo dei suoi spettatori – nei Campi Flegrei è vissuto questo festival, così è avvenuto.
Così ci si aspetta che possa ripetersi l'anno venturo.



 

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Efestoval − Festival dei Vulcani
ideazione Marina Commedia, Luna Rossa, IoCiSto
all'interno del progetto Flamma Ventus. Giovani indigeni di una terra ardente
con il sostegno del Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale
della Presidenza del Consiglio dei Ministri
direzione artistica Mimmo Borrelli
Napoli e Campi Flegrei, dal 12 al 30 settembre 2016


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