“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 13 October 2016 00:00

"Indivisibili": magia di periferia

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Non è mia abitudine recarmi al cinema avendo già letto le sinossi, mi faccio di solito attrarre dal nome del(la) regista, e/o dal titolo, e/o dalla locandina. Chiamo questa “suggestione cinematografica”. Invece l’altro giorno non c’era nulla di tutto questo che attirasse la mia attenzione e ho dovuto leggiucchiare un minimo i contenuti di qualche film, perché avevo una voglia matta di andare al cinema dopo i mesi estivi.
La scelta è alla fine ricaduta su Indivisibili, film presentato quest’anno alle Giornate degli Autori alla 73ª Mostra del Cinema di Venezia.

Terzo lungometraggio del regista Edoardo De Angelis, questo film affronta l’intimo, quasi insondabile, legame emotivo, psichico e fisico tra due gemelle siamesi, unite all’altezza del bacino. La vicenda si ispira alla storia vera di due gemelle siamesi inglesi, Daisy e Violet Hilton, nate nel 1908 nel Sussex da una barista single, adottate dalla padrona del bar in cui lei lavorava, e indotte a una vita di esibizioni e spettacoli (le vediamo anche recitare nel film Freaks) a divenire fenomeno simil-circense.
Le due gemelle de’ noantri si chiamano Dasy e Viola, vivono il passaggio tra l’età adolescenziale e quella adulta – una scissione – e lavorano (per fare guadagnare la famiglia, non certo per scelta autonoma e consapevole) come cantanti neo-melodiche in quella terra martoriata da eventi ambientali e dalla malavita che è il Casertano.
Tra cerimonie fastose dove il kitsch è superato da un surrealismo fatto di squallore (anche situazionale) nazional-popolare immerso in un fasto imbarazzante e da un vissuto familiare in bilico tra il trasognato (le due sorelle), il fatalista (il contesto) e lo squallido (lo sbando esistenziale che diviene sfruttamento dell’”handicap” delle due figlie da parte dei due genitori), le due ragazze iniziano ad emergere da una fissità rassicurante e intraducibile (l’essere non solo “con” un’altra persona, ma essere “proprio” anche un’altra persona) che limita i movimenti e le azioni, ma non i sogni e i desideri. E allora succede che Dasy s’invaghisce del produttore di Anna Tatangelo, che la circuisce con astuzia maschile adulta. Da lì, dall’esplodere della prima fantasia erotica, parte il moto di ribellione di Dasy, e il processo di liberazione di entrambe. Due corpi uniti non possono andar bene per l’esperienza dell’”amore”, che è monopolio del corpo dell’altro, esclusività, possesso. Allora Dasy tenta di capire se è possibile separarsi dalla sorella, da colei i cui sogni percepisce col suo corpo, il cui cibo ingerito sente lievitare nel suo stomaco. Da qui la fuga per trovare qualcuno che dia loro i soldi necessari per l’operazione di separazione, avendo saputo per la prima volta da un medico (interpretato da Peppe Servillo) che la stessa è possibile, dopo l’ostruzione all’operazione da parte della famiglia, che smetterebbe così di avere i soldi per vivere – nessuno dei due genitori ha un lavoro – e per sputtanarsi i soldi tra hashish ed elettrodomestici inutili – la madre, e gioco d’azzardo – il padre, padre che oltretutto i migliaia di euro guadagnati dalle due ragazze negli anni se li è, per l’appunto, giocati. Allora le ragazze si mettono alla ricerca di qualche amico, conoscente, personaggio in vista, in grado di aiutarle economicamente, in un contesto di desolazione paesaggistica ed etica: incontrano il prete della comunità, che per induzione familiare e culturale stimano, ma che è un personaggio privo di scrupoli, affamato di soldi e faccendiere, sfruttatore della condizione di debolezza dei migranti, a cui spilla soldi in nome di santi e madonne, e che difatti rifiuta categoricamente di sostenerle, spingendole anzi a desistere, visto che anche lui vuole sfruttare la loro condizione eccezionale per fini pubblicitari e pecuniari. La fuga rocambolesca continua, finché non incontrano di nuovo il produttore, che le fa portare sulla sua barca, ricca di suggestioni che imitano le atmosfere di David Lynch – e che, a dire il vero, sono a tratti un po’ forzate e improbabili: tra scene di feste fatte di alcool, nani, ballerine di lap dance, sguardi perversi, l’intensità del film si perde un po’, si disperde il suo semplice, intenso lirismo. Le ragazze intuiscono il pericolo di essere insidiate in questa situazione (il manager musicale tenta un vero approccio sessuale con Dasy, dopo averle offerto copiosamente da bere) e saltano giù dalla barca, in piena notte, in mare. Le due naufragano a riva, dove la mattina vengono ritrovate, vive. Purtroppo per loro, ricomincia l’incubo dello sfruttamento imprenditoriale: l’amorale prete, corrotto interiormente, le utilizza per mostrare a tutti cosa voglia dire perdersi e ritrovarsi, pentirsi dei propri peccati, e induce il padre (rimasto nel frattempo solo, visto che la fuga delle ragazze ha provocato lo scoppio della già latente crisi tra i coniugi con l’abbandono del “tetto coniugale” da parte della moglie), infila una lama dentro un palmo della mano delle figlie, per creare stimmate da mostrare ai fedeli in una processione agghiacciante. L’amaro in bocca della mancanza di speranza per le due ragazze s’impasta di sangue: Dasy tenta il suicido, con lo stesso coltello che le è stato affondato nella mano. Cambia la scena: ritroviamo le ragazze, entrambe, ancora, vive, e finalmente separate l’una dall’altra, in ospedale. Viola abbraccia con il corpo e la voce la sorella ferita. Sono di nuovo una cosa sola, e cantano, dicendosi forse che potranno ora finalmente vivere come tutti gli altri, in libertà e autonomia, ma che il loro legame spirituale e materico re(si)sterà, intatto, sempre.
Un film complessivamente molto buono e convincente, con qualche parte che poteva essere meglio realizzata per dare al tutto una solidità che si trova nei momenti più privati e nei dialoghi; un film senz’altro intenso, toccante. Bravissime le due interpreti, le gemelle Angela e Marianna Fontana. Il cinema italiano sa essere valido quando fuoriesce dai cliché spesso fallimentari dell’imitazione nordamericana e della stereotipizzazione dell’italiano medio, e quando racconta invece spaccati profondi di intimità e, al contempo, di realismo socio-culturale, quando mette al centro le periferie, geografiche, economiche, dell’anima, con uno sguardo attento e delicato dall’interno, come De Angelis ha saputo fare.

 

 

 

 

 

 

Indivisibili
regia
Edoardo De Angelis
sceneggiatura Nicola Guaglianone, Barbara Petronio, Edoardo De Angelis
con Angela Fontana, Marianna Fontana, Antonia Truppo, Massimiliano Rossi, Tony Laudadio, Marco Mario De Notaris, Gaetano Bruno, Gianfranco Gallo, Peppe Servillo
fotografia Ferran Paredes Rubio
montaggio Chiara Griziotti
musiche Enzo Avitabile
produzione Trump Limited, ‘O Groove
distribuzione Medusa Film
paese Italia
lingua italiano, napoletano
colore a colori
anno 2016
durata 100 min.

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