“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 17 October 2016 00:00

Mario Monicelli. La commedia umana

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“I cialtroni, i poveracci, i buoni a nulla, i fannulloni, gli scansafatiche, i lazzaroni, i picari. Sono questi i personaggi del mio cinema. Troppo sprovveduti per fare i malviventi, troppo pigri e opportunisti per diventare persone rispettabili – anche se la rispettabilità spesso cela realtà ben peggiori. Sono dominati dall’incertezza, ma è proprio questa condizione precaria a stimolarli, a tirar fuori il meglio che c’è in loro, sempre sapendo di vivere alla giornata [...]. Quasi tutti i miei personaggi credono di essere quello che dicono e non si accorgono della loro inettitudine. E questo li rende simpatici. L’ironia presuppone una consapevolezza che non hanno” (pp. 45-46).
Nell'estate del 2016 è giunta in libreria la nuova edizione del volume, pubblicato per la prima volta nel 2005, che raccoglie in più di trecento pagine la lunghissima conversazione tra Sebastiano Mondadori e Mario Monicelli.

Nel libro il regista, con il suo inconfondibile piglio ironico ed al tempo stesso risoluto, ricostruisce uno spaccato di storia del cinema nazionale. Si tratta di un racconto di parte, fatto da un protagonista assoluto della commedia all'italiana, capace di fornire al lettore alcune chiavi interpretative di un modo di osservare e mettere in scena gli esseri umani.
La critica ha a lungo considerato negativamente la commedia; in essa vedeva il qualunquismo mentre invece, secondo Monicelli, attraverso il cinismo la commedia ha svelato gli aspetti più ignobili degli italiani. Il regista ricorda come gli artefici di quel tipo di cinema passassero al setaccio il costume dell'epoca al fine di smascherare le piccolezze della gente qualunque rovesciando tanti luoghi comuni con cattiveria, senza pietà. “Perché la commedia è cattiva, anzi spietata. In questa ottica la verosimiglianza assume un ruolo decisivo. È un’esigenza, ma anche un’arma nel nostro gioco al massacro” (p. 24). Molti degli autori della commedia all’italiana si erano formati nei giornali umoristici di epoca fascista ed avevano dovuto aggirare il divieto del regime di fare satira politica ricorrendo ad un registro “surreale” capace di far ridere sui vizi dell'epoca pur senza riferirsi direttamente alla realtà.
Secondo il regista la commedia ha sempre tentato di raccontare l’Italia vera e questa era un Paese di perdenti usciti dalla tragedia della guerra che speravano in una vita migliore e non di rado Monicelli ha messo in scena questi poveracci alle prese con situazioni più grandi di loro al fine di assistere, spietatamente, alle loro incapacità ed al loro fallimento. Col passare del tempo le cose sono cambiate e, sostiene amaramente il regista, oggi manca “la responsabilità critica. Il buonismo e il politically correct strozzano all’origine ogni intento dissacratorio. La satira invece si regge sul contrario: il suo principio è abbattere le ipocrisie del senso comune” (p. 43).
Se lo sguardo degli autori della commedia era rivolto agli aspetti più spregevoli della gente comune, allora, afferma Monicelli, Alberto Sordi è davvero riuscito ad incarnare l'animo dell’italiano. Uno dei bersagli preferiti dalla commedia è l'individualismo “generoso di parole e gretto nell’animo” di tanti personaggi sempre pronti a criticare istituzioni e gerarchie sociali ma poi irrimediabilmente schiacciati da una realtà contro cui non riescono ad opporsi realmente.
A ben guardare dal Decameron di Boccaccio alla Mandragola di Machiavelli, dalle commedie dell’Ariosto al teatro di Goldoni, la letteratura italiana ha sempre amato ridere delle miserie umane e prendersela con i deboli. “L’accanimento sul più debole è un comportamento tipicamente italiano, che in Toscana raggiunge vette tremende. Nei due film Amici miei, appena uno fa un passo falso, gli altri lo distruggono. Ma il divertimento era quello, infierire sempre e non risparmiare nessuno. La commedia non si deve mai fermare davanti a nessuno. È questa la sua forza. E la sua crudeltà. Perché senza crudeltà non si fa ridere” (p. 46).
Anche la miseria si è rivelata una fonte inesauribile di comicità e la risata ha fornito una possibilità di riscatto, un gesto liberatorio dei perdenti nei confronti delle regole sociali. Persino la morte trova posto in questo genere di film così come nella tradizione della commedia dell’arte.
In Roma città aperta, uno dei capolavori del cinema neorealista, ad un certo punto si assiste ad una scena in cui un personaggio colpisce un altro con una padellata sulla testa e, secondo Monicelli, questa breve sequenza rappresenta uno dei gesti più farseschi della storia del cinema italiano ed in tale azione è possibile scorgere la discendenza diretta dal neorealismo alla commedia. Come il neorealismo, sostiene il regista, anche la commedia, che è prima di tutto un modo di guardare la realtà, discende dalla strada. Secondo Monicelli, dopo Rossellini ed il primo De Sica, il neorealismo perde il rapporto diretto con la realtà, tanto che i disperati messi in scena da De Santis risultano decisamente meno credibili dei “cialtroni” che popolano la commedia che, da parte sua, non ha mai rinunciato alla situazione drammatica; ha solo scelto di raccontarla da un altro punto di vista, divertente se non addirittura, in alcuni casi, farsesco, pur mantenendo risvolti amari.
L'abbassamento del linguaggio a livello della gente comune a cui ha fatto ricorso tanto il neorealismo quanto la commedia si è contrapposto a quel cinema borghese in cui l’italiano parlato dai personaggi era quello dei libri o dei doppiatori dei film stranieri. Si iniziò così a far parlare i personaggi in maniera più realistica introducendo anche qualche termine volgare. I detti popolari, i proverbi ed i luoghi comuni vennero utilizzati per rivelare con immediatezza i personaggi piccolo-borghesi o proletari della commedia.
Detto del rapporto tra commedia e neorealismo, la vera scuola per la commedia è stata, secondo il regista, la commedia dell’arte. “La vita messa in scena dalla parte del popolino infrangendo le regole sociali si insinua nella maniera italiana di vedere il mondo. I suoi protagonisti sono poveri, vecchi, dediti all’arte di arrangiarsi e condannati a essere oggetto di scherno, botte, sopraffazioni” (p. 28).
“Con l’eccezione di alcune derive scollacciate, pur nelle sue notevoli differenze e negli sbalzi qualitativi, è stata per un certo periodo il termometro della società, fornendo di film in film delle fotografie della realtà italiana. L’attenzione a quanto accadeva sotto i nostri occhi è sempre stata una prerogativa del genere, come del resto del polar francese o dei racconti polizieschi americani” (p. 223). Certo, la commedia all’italiana non era l’unico modo per affrontare la realtà del tempo, di questo il regista è ben consapevole, ma resta il fatto che attraverso l'idea di smascherare con spirito ludico i vizi, i difetti, i tabù, i pregiudizi degli italiani si è arrivati alla “rappresentazione di una società spogliata del suo velo perbenista e colta nella sua più vera pochezza ha messo il pubblico davanti a se stesso” (p. 44).
Rispetto al tipo di rappresentazione “oggettiva” proposto da un’opera drammatica, sostiene Monicelli, “il punto di vista ironico aggiunge una conoscenza, che diventa distacco, diciamo pure superiorità, in grado di gettare una luce più profonda sul fatto stesso. Profonda ma immediata nella ricezione del pubblico. La profondità è data dalla maggiore riflessione dell’ironia, dalla rielaborazione del fatto nudo in un contesto diverso, da un’angolazione meno diretta ma più arguta. L’immediatezza nasce dal rovesciamento del dramma in risata, con una forza ulteriore di coinvolgimento e quindi un numero maggiore di spettatori” (p. 111).
Monicelli colloca la morte della commedia all’italiana nel corso degli anni '70, quando iniziano ad invecchiare i suoi autori e diviene sempre più complicato raccontare un'Italia attraversata dalle lotte e, successivamente, dal terrorismo. Inoltre, ricorda il regista, un ruolo importante nella morte della commedia spetta anche all'avanzata della televisione ed al ringiovanimento del pubblico.
“Ormai nel ’77 stavamo invecchiando tutti, è vero, però lavoravamo ancora a pieno ritmo. Il problema riguardò la commedia ma anche il cinema italiano in generale, che rappresentava il proprio tempo. Già il Sessantotto fu un primo impiccio. Era difficile sfuggire a schematizzazioni o a schieramenti ideologici. In particolar modo gli autori seri si staccarono difficilmente da questi cliché. Il terrorismo invece segnò proprio una cesura. Non sapevamo come raccontarlo. E cosa raccontare. Ci mancava del tutto il rapporto con questi ragazzi e la loro realtà. Quelli della mia generazione sono sempre stati attivi. Io vado ai cortei ancora oggi, figuriamoci. Ma di loro non sapevamo niente. Chi erano, cosa pensavano, come parlavano. La realtà è che ci siamo rifiutati. La commedia all’italiana ha dato il suo meglio quando la trattavano come spazzatura. Si raccontava una storia e basta. Poi i critici hanno cominciato a costruirci sopra delle teorie, a scoprire significati, e allora molti hanno cercato di intellettualizzare la commedia, di elevare la comicità, che è una contraddizione in sé” (p. 62).
Risulterebbe impossibile dare conto in questo scritto dell'interminabile carrellata dei film passati in rassegna dal volume, ci limitiamo, pertanto, giusto a qualche breve riferimento ad alcune delle tante pellicole realizzate dall'autore e trattate dal libro.
Relativamente a La grande guerra Monicelli ricorda come questo film venne realizzato a partire da una netta avversione nei confronti della visione agiografica del comportamento eroico dell'esercito italiano. L'intenzione era quella di abbandonare quella “visione alimentata per anni dal fascismo con l’esaltazione della patria e della guerra, dal nazionalismo monarchico anche in funzione antisocialista, ma condivisa a tutti i livelli della popolazione” (p. 137). La grande guerra avrebbe voluto essere un film corale, capace di raccontare la “massa d'uomini” da cui, di tanto in tanto, emergeva una vicenda personale, ma “la presenza di Gassman e Sordi ci condizionò già in fase di sceneggiatura, in cui la loro importanza cresceva naturalmente. Poi durante le riprese fu spazzato ogni dubbio: erano di una forza tale quei due! Però a livello di immagine questa soluzione di inquadratura sintetizzò bene il contrasto tra i due soldati e l’esercito” (p. 142).
Il film I compagni, invece, nasce dalla volontà di Monicelli di mettere in scena la storia di un gruppo di persone che progettano un’impresa più grande di loro. Il periodo in cui viene realizzato il film (primi anni '60) era contraddistinto da un clima decisamente reazionario ma il film ambiva a collocare la vicenda al di fuori della stretta contingenza per parlare, più in generale, della situazione di chi si trova sostanzialmente senza diritti di fronte a condizioni di lavoro al limite della sopportazione umana e nel film si volevano mostrare le condizioni di un ragazzo costretto a lavorare in fabbrica.
“Per far comprendere il peso di quattordici ore in fabbrica abbiamo scelto di annoiare un po’ lo spettatore. Soffermandoci sulla ripetitività del lavoro, in mezzo al frastuono di quei macchinari, alla polvere, al controllo severissimo a cui erano sottoposti: dovevano persino chiedere il permesso per andare in bagno. In questo modo ci si cala subito nella realtà degli operai. Stanchi, esausti, sfruttati come bestie. Una premessa che giustifica la decisione 'all’umanità' dello sciopero, innescato da un incidente un po’ scontato, che a dire il vero non volevo mettere. In un simile contesto era difficile alleggerire l’atmosfera. Credo che siano state fondamentali la simpatia dei personaggi e l’attenzione per i risvolti ironici. Il ferroviere che dice di non vedere mentre gli operai stanno rubando sotto i suoi occhi il carbone rende ridicolo il ruolo di Mastroianni, che vuole indottrinarlo e convincerlo della giustezza della loro causa” (pp. 148-149).
Spesso si sono cercati nel film riferimenti precisi alla politica, mentre la volontà del regista era quella di raccontare la storia di un gruppo di operai “sprovveduti ma volenterosi di capire e di darsi da fare, che nel corso di questi trenta e passa giorni di sciopero maturano una consapevolezza più forte della sconfitta” (p. 149).
L’armata Brancaleone è un film costretto a fare i conti con l'assenza di fonti storiche attendibili, dunque in esso è stato messo in scena “un mondo barbaro, violento, sostanzialmente povero e privo di regole di civile convivenza, di cui si aveva un’immagine un’altra volta falsata dai manuali di storia, che lo dipingevano in termini cavallereschi [...]. L’amore ideale, il canone dell’amor cortese che ci spacciavano a scuola si rivela per quello che è: una pagliacciata. Brancaleone ha un rapporto ambivalente con le donne. Che sono sante o puttane. Da venerare o da violentare. Sebbene gli capiti più spesso di essere assalito lui stesso” (pp. 155 e 159).
Nei confronti degli autori più recenti Monicelli non lesina critiche: “Odio [...] quei cinefili fanatici che rintracciano citazioni nascoste e significati incomprensibili. I cinefili sono la rovina del cinema. Purtroppo noto che i nuovi registi hanno un po’ la tendenza a parlare sempre di cinema, anche quando non lavorano. La loro formazione è soltanto cinematografica: misurano la realtà attraverso il cinema. Io mi ricordo le discussioni di politica con Age, Scarpelli, Comencini, De Concini. Ci infervoravamo. E ci credevamo” (p. 58). Circa il mondo dei giovani, il regista ammette di essersene occupato poco nel suo cinema, ma dichiara di interessarsi ad essi fuori dallo schermo: “Seguo e quando posso frequento la vita dei centri sociali, mi appassiono alle rivendicazioni dei no global e alla loro diversa visione del mondo, vado in corteo con loro. Allo stesso tempo li capisco molto meno di quanto mi vanti. In molte abitudini e modi di pensare mi stupiscono” (p. 131).
Queste quasi trecentocinquanta pagine che compongono il volume, che si leggono tutte d'un fiato, oltre a ricostruire uno spaccato importante di storia del cinema italiano ci raccontano qualcosa dell'uomo Monicelli. Giunti all'ultima riga dell'ultima pagina, oltre al desiderio di riguardarsi, per l'ennesima volta, alcune sue pellicole, resta l'amaro in bocca per la scomparsa di un regista e di un uomo come Mario Monicelli.

 

 

 

 

 

Mario Monicelli
La commedia umana. Conversazioni con Sebastiano Mondadori
Il Saggiatore, Milano, 2016
pp. 342

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