“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 16 May 2016 00:00

Show Reality

Written by 

Come rappresentare la realtà?
Questa domanda pare una chiave di volta dell’estetica contemporanea. Il tentativo ossessivo di aderire alla realtà percorre l’intero panorama della cultura, dall’esibizionismo pornografico delle passioni tristi che sono il cuore dei reality-show all’iperrealismo delle installazioni autoreferenziali di cui si alimenta la cultura alta (ma chi l’ha messa in alto? Tiriamola giù). E nemmeno si tratta dell’estetica contemporanea in senso stretto. L’arte in sé stessa, fin da principio, non può che chiamare in questione una particolare declinazione del rapporto fra prodotto estetico e realtà.

Nel quarto secolo avanti Cristo, Platone scrive un trattato sulla repubblica ideale e, condannando l’arte come mera copia della realtà, bandisce gli artisti dalla città perfetta. Gli artisti sono i banditi della perfezione. Essi imitano il reale, ma non vi arriveranno mai, il loro fare è inutile e pericoloso, destinato all’incompletezza. Come può l’arte competere con la pienezza di dettagli, con la ricchezza di complessità e contraddizioni, con la totalità del reale? Non può che farne pallida copia, e scolorendo scomparire.
Oppure no. Oppure no, sembrano dire Deflorian e Tagliarini con la voce di Janina Turek. Il tentativo dell’arte di rappresentare la realtà non è solo il vezzo di farne copia, ma istinto di sopravvivenza, che spinge a raccontare il mondo per imparare ad abitarlo. Rinunciare alla perfezione ma non rinunciare alla realtà, accade questo sul palco di Reality, in maniera meravigliosa. Ma accade questo su ogni palco, in ogni teatro, in ogni forma d’arte. E accade questo anche nell’esperienza di ciascuno, nel modo in cui scegliamo di abitare la vita che contiene implicitamente un modo di pensare la realtà. Si tratta dell’umanissimo bisogno di render conto in un racconto di come ci capita di attraversare il mondo. Domandarsi come rappresentare la realtà significa domandarsi che cos’è la realtà per noi. Beninteso, se ci chiediamo che cos’è la realtà, non possiamo trovare risposta, poiché non vi è accesso alla perfezione. Cionondimeno, gli artisti, banditi della perfezione, continuano a ripetere la domanda. E ripetere la domanda è già rappresentare la realtà.
Questa domanda è messa in scena da Tagliarini e Deflorian con la voce di Janina Turek, una donna polacca che ha riempito 748 quaderni scrivendo tutta la sua realtà e nient’altro che la sua realtà: 38.196 telefonate, 23.397 buongiorno, 1.922 appuntamenti, e così via. Janina scrive i fatti della sua vita nella forma di dati, insegue la realtà annotando ogni cosa le succeda, senza aggiungere pensieri o sentimenti personali. Viene definita, questa strana attività dal sapore di missione, una sorta di “registrazione” tramite “prove di descrizione della realtà”. C’è, senza dubbio, qualcosa di maniacale in questo pedinare la vita, tuttavia, assistendo a Reality, non viene in mente alcuna ossessione. Vogliamo bene a Janina, anzi, siamo con lei, nel suo attraversare il mondo ricevendolo in punta di piedi, e non esprimiamo alcun giudizio moral-psicologico su questa impossibile aspirazione alla registrazione totale. C’è una bellezza, una forma di stupore di fronte all’infinità di dettagli inafferrabili della realtà e di fronte allo sforzo di afferrarli comunque, il più possibile.
Reality ci fa incontrare l’immensità della banalità, le azioni minime e involontarie di cui non si parla mai, ma che sono disseminate in ogni istante e accomunano tutti. Ad esempio, è incredibilmente coinvolgente il gesto con cui Janina gira le pile del telecomando, una domenica pomeriggio, seduta in poltrona a casa da sola, con la speranza di vedere un programma televisivo, senza noia e senza entusiasmo, solo come forma di contatto col mondo da annotare su un quaderno. Le registrazioni riguardano spesso quei momenti di distrazione che sono quasi impercettibili, eppure determinano l’umore e la situazione emotiva di ciascuno, mettendo su uno stesso piano il rapporto con le persone e il rapporto con le cose. Si accoglie tutto, tutto è da ricordare. In un radicale rifiuto della gerarchia, non è possibile accordare più o meno importanza ad un singolo evento, dal momento che ogni banalità dell’incontro col mondo colpisce. Reality è una celebrazione delle coincidenze, del caso, della scoperta, della sorpresa di vedere per la prima volta un albero già visto cento volte prima. Deflorian e Tagliarini disegnano Janina come una soggettività aperta al mondo che viene, la cui intenzionalità è messa in questione. Lungi da qualsiasi intellettualismo, dal gesto nasce il pensiero, dalle scarpe che strofinano sullo zerbino scaturisce la decisione, dal corpo sorge la scelta.
È con eccezionale ironia e commovente leggerezza che Deflorian e Tagliarini fanno incontrare al pubblico le registrazioni di Janina. Parrebbe di poter dire che Reality rappresenta la realtà di una donna che non ha fatto che rappresentare la realtà. Ma sarebbe troppo facile risolvere questa prova teatrale con un gioco di parole e sarebbe ingiusto limitarsi ad una riproposizione della definizione di meta-teatro, trito e ritrito far teatro del teatro. Deflorian e Tagliarini propongono qualcosa di più profondo, che intreccia realtà del teatro e teatro della realtà.
“Per fare finta bene, deve essere tutto vero” suggeriscono gli artisti. Vi è una cura invisibile nella costruzione della scena. Con Janina, che di volta in volta entra nel corpo di Deflorian o in quello di Tagliarini, sembra di poter toccare i quattro riflettori, le due sedie di legno, la coperta bianca, lo zerbino, la borsetta, le chiavi, la poltrona con il telecomando, il piccolo tavolo di ferro, il vaso con i fiori, il tavolo di legno che viene apparecchiato con piatti, posate, tovagliolo, mela e tazza di caffè, e infine i cocci della tazza di caffè rotta (un’altra o la stessa?) e la paletta della scopa con cui i cocci vengono raccolti. Ogni oggetto è traccia di una registrazione, è un pezzo di realtà con una materialità plastica.
La scena si apre con il tentativo di rappresentare la morte di Janina. È un tentativo effettivo, che si svolge sotto gli occhi degli spettatori: Tagliarini e Deflorian provano a morire, e fanno ridere provandoci. Cercano di rivivere la situazione di Janina ricostruendola in maniera puntuale, con una borsa della spesa di plastica rigida, immaginando l’asfalto grigio – di un grigio dell’est – della strada lungo la quale Janina camminava quando ha avuto un infarto. Per fare finta bene, deve essere tutto vero. La domanda è esplicita: come rappresentare la morte? L’azione che apre la scena è la sola esperienza che mai si può fare e ripetere. Possiamo avere esperienza soltanto del corpo morto dell’altro. Ecco allora che serve l’Altro, il numero due degli attori in scena, il passante che sfila accanto al corpo morto. “Io vedo la mia morte solo attraverso di te”.
I quaderni di Janina, tutti scritti in terza persona, si possono leggere come una modalità con cui la donna affida all’alterità la propria verità. Vi sono poi, accanto ai quaderni, alcune cartoline che Janina spediva a sé stessa e conservava. Sono le uniche tracce della sua voce in prima persona. In una di queste, la donna si chiede se stia vivendo o fingendo di vivere. È reale questa vita in cui non si fa che rappresentare la realtà? Janina non risponde, e nemmeno noi possiamo. Possiamo però ripetere la domanda. Andare a teatro. Fare teatro. Tendere una coperta bianca davanti al corpo del danzatore balinese che continua a muoversi con una perfezione invisibile, quasi bandita.

 






N.B.:
su Reality si veda anche: Francesca Saturnino, Deflorian/Tagliarini, la vie est un point de vueIl Pickwick, 3 marzo 2016





Reality
ideazione e performance
Daria Deflorian, Antonio Tagliarini
a partire dal reportage Reality
di Mariusz Szczygiel
traduzione Marzena Borejczuk, Nottetempo 2011
disegno luci Gianni Staropoli
foto di scena Silvia Gelli
produzione A. D., Festival Inequilibrio/Armunia, ZTL-Pro
con il contributo di Provincia di Roma, Assessorato alle Politiche Culturali 
lingua italiano
durata 1h
Milano, Teatro Elfo Puccini, 12 maggio 2016
in scena 11 e 12 maggio 2016

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook