“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 18 May 2016 00:00

Il respiro del buio

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Cosa sente un corpo che non vede? E cosa sente un corpo che sente di non esser visto? Come si ascolta nel silenzio, come si scruta nel buio, come si rende palpabile ciò che, etereo, sfugge al tatto? Luce e respiro, cecità e asfissia – sotto l’inesorabile scorrere del tempo – si fanno carne e anima nel raccontare un sogno d’amor perduto, un delirio d’amor negato.

Sabbia che scende e buio che invade, il respiro del tempo a scandire, granello dopo granello, un tempo senza luce: Sin Aire, prima produzione del Nostos Teatro di Aversa è poesia rarefatta, afflato vibrante che s’effonde in racconto scenico per immagini e parole di quanto di intangibile, di ineffabile e di delicatamente devastante possa esserci nell’animo umano.
Il buio è pervasivo, dal buio una figura d’uomo spunta in tutta la sua corporeità, mentre due donne, bendate, dall’aspetto diafano ed etereo, della corporeità non saranno che accenno residuale, simbolo fragile e tenue, bipartito in una dualità di anima e corpo che riconduce ad essenza unica e primaria, la cecità un antro più buio del buio che quest’essenza confina reietta. Dall’alto un filo di sabbia colerà imperterrito da una piramide rovesciata, inondando, sommergendo ma soprattutto ricordando l’ineluttabilità del fluire del tempo.
Rarefatta la luce, rarefatta la parola, Sin Aire è racconto per accenni, per simboli e brandelli, amour fou e impossibilità d’amare, fusione e scissione ad un tempo di anime complementari, dilaniate da un connubio sentito come necessario, percepito come impossibile, la cecità nascosta dietro una benda e l’incapacità di accettarla, perché “bisogna vedere per amare”; la vista, senso percepito come indispensabile al pari del respiro, quel respiro spezzato dalla follia di chi non accetta, di chi è incapace di accettare, obnubilato da una cecità che non è negli occhi ma nella mente.
Chi è cieco davvero? Lei che non possiede la vista degli occhi? O lui che non riesce a vedere il fondo del proprio cuore, fermandosi alla superficie di quel che i propri sensi riescono a percepire, incapace di vedere l’amore oltre il buio che avvolge lo sguardo di lei?
Apnea d’amore inconcluso, a Sin Aire s’assiste trattenendo il respiro, resistendo alla tentazione di chiudere gli occhi per immergersi totalmente nella penombra di in un giardino di suicidi. I sensi sono allertati dai continui richiami a ciò che percepiamo per contrasto e per assenza: la luce, l’aria, il calore, evocazioni di mancanze percepite, viatici di una inconciliabilità tra anime attratte e distanti.
Il linguaggio con cui Sin Aire parla è evocativo e simbolico, sfrutta i corpi che si distribuiscono nello spazio per descrivere la loro distanza: alla corporeità concreta e monodimensionale di un Giovanni Granatina carnale e intenso si contrappone l’intangibilità quasi diafana di Sara Scarpati e Maria Teresa Vargas, bipartizione di corpo e anima di un’unica creatura, in bilico tra un prima e un dopo, in quella condizione liminare tra vita e morte, sospesa tra il rimpianto di un abito nuziale e l’aberrazione di una stretta attorno al collo che recide il respiro. I pochi simboli in scena alludono a questa biforcazione corpo/anima (due vesti ma un solo paio di scarpe, come a simboleggiare due condizioni differenti – una spirituale ed una materiale – “indossate” da un’unica creatura) e raccontano del procedere infelice di un amore, della consunzione di un sentimento reso folle da un cruccio irrisolvibile: vedersi, potersi toccare con gli occhi, perché sottrarsi alla vista dell’altro assume il senso perverso di negarsi all’amore, a quell’amore indispensabile come il respiro, ma che senza luce non si riesce a respirare, perché “la luce è come quando respiri”.
L’uomo è un giocattolo, marionetta nelle mani di se stesso, incapace di muovere diversamente i fili che ne dirigono l’agire, incapace di sottrarsi ad un destino cruento, e a nulla vale chiamare in causa un dio a cui non si crede, mentre l’istinto d’un truce cupio dissolvi s’impossessa di un io funesto.
Drammaturgia della sottrazione che mira ad un’essenzialità evocativa a cui concorrono in maniera determinante la delicatezza di musiche e luci, Sin Aire è spettacolo che tocca il cuore attraversando lo sguardo, quello sguardo che sulla scena è negazione d’amore e che per chi assiste è proiezione di un vuoto (di senso, di logica) a cui non si riesce a dare spiegazione se non con la sofferenza connaturata alla cecità irrazionale dell’agire.
Sin Aire è spettacolo che ti avvolge e ti stordisce, delicato a dispetto del senso tragico che lo pervade. Leggero come un fruscio, tenue come una carezza, che sembra ti sfiori mentre il buio si riempie di applausi.

 

 

 

 

N.B.: su Sin Aire si veda anche: Rita Pagnozzi, Vuoto cieco – Il Pickwick, 2 marzo 2016

 

 

 

 

Sin Aire
ideazione e regia Silvana Pirone
drammaturgia Luigi Imperato, Silvana Pirone
con Giovanni Granatina, Sara Scarpati, Maria Teresa Vargas
disegno luci Paco Summonte
selezione musicale Davide Giacobbe
scenografia Monica Costagliola, Angelo De Tommaso
costumi Gina Oliva
supervisione ai movimenti di scena Dimitri Tetta
supporto tecnico Luigi Vuolo
produzione Nostos Teatro
foto di scena Giovanni D’Angelo
lingua italiano
durata 50’
Aversa (CE), Nostos Teatro, 7 maggio 2016
in scena 7 e 8 maggio 2016

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