“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 04 April 2016 00:00

Siamo della stessa sostanza di cui sono fatti gli incubi

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La scacchiera sull'assito circoscrive lo spazio in cui due giocatori hanno appena compiuto le prime mosse; tutto deve ancora accadere, eppure tutto è già assoggettato alle regole immutabili di un antico meccanismo umano, irrevocabile.

C'è da premettere che questa non è la rappresentazione di una partita giocata in tempi lontani, in cui streghe e cavalieri si incontrano in brughiere fumose e gli intrighi di corte si svolgono dietro il sipario delle oscure notti medievali. I personaggi in scena non ricorrono all'uso continuo del verso che conferisce dignità formale ai discorsi e la prosa di cui si avvalgono è impregnata dell'ignorante contemporaneità degna dei nostri tempi. La struttura del dramma deve, quindi, adeguarsi alla dignità dei personaggi che nel XXI secolo ambiscono al potere e la funzione di cronaca non può che essere delegata alla monocorde ripetitività dei media che restituiscono il succedersi dei fatti con anodina abitudine al degrado politico e all'assoluta assenza di morale.
Se il Macbeth concepito da Shakespeare è dominato dall'antitesi (bello/brutto, luci/tenebre, sacro/demoniaco, bene/male) e nell'inconciliabilità degli opposti fonda il senso più profondo della tragedia; il Macbeth che, varcando confini temporali non privi di virtù, approda ai giorni d'oggi deve rinunciare ai grandi contrasti interiori, per collocarsi su di una più congeniale alternanza tragicomica. In questa avvilente cornice contemporanea anche l'elemento demoniaco viene ad essere deformato, e la strega, assunte le vesti e la professione di una giornalista − interpretata  egregiamente da Francesca Pica −  al termine del suo compito preferisce consegnare le dimissioni, evaporando disgustata in cerca di tempi migliori anche per il male. La sua uscita di scena, parafrasando Mefistofele nel Dottor Faust, è come se dicesse: se questo è l'inferno io preferisco chiamarmi fuori.  
La rappresentazione inizia con Lady Macbeth e consorte visibilmente sfatti ed ebbri dei primi inaspettati successi elettorali; tuttavia, mentre il secondo coniuge è già diventato un tutt'uno con la nera poltrona coronata che indica il suo ruolo in quella partita, la First Lady giace ancora incredula accanto alla regia poltrona bianca e, ripercorrendo a voce alta i trionfi politici del marito, cerca di ancorare quello che sembra un sogno alla realtà. Il potere, fine a sé stesso e per sé stessi li irradia di gemme d'ambizione destinate a sbocciare e a mangiarsi il cuore in cui hanno innestato le radici. Telegiornali profetici anticipano risultati sempre più gloriosi e le interviste al vincitore lasciano intravedere nuovi fulgidi traguardi. Ha inizio la carneficina e Lady Macbeth, presa coscienza della sua insaziabile ambizione, assume il ruolo di regista. Il crimine, dapprima pensato e poi suggerito, si concretizza in una piccola pistola estratta da una borsetta rossa. Il sangue aumenta e le mani di Lady Macbeth si ricoprono di delittuosi guanti rossi, ma c'è qualcosa di meccanico in questo sangue che chiama altro sangue.
Non siamo nell'anomico incubo shakespeariano dove tutti sprofondano e ne vengono stritolati, dove chi uccide verrà ucciso a sua volta; ci troviamo invece nel Grande Meccanismo Politico odierno, in cui, una volta entrati, basta seguire le regole stabilite per non perdere i privilegi acquisiti più o meno legittimamente. Lo stesso Macbeth, incollato alla sua poltrona, dopo aver superato i primi smarrimenti e affrontato il fantasma della sua mente, si rasserena all'idea che in fondo non c'é niente di difficile, perché basta seguire un copione non originale affinché, chi è diligente, chi non tradirà il sistema, non perda né testa né corona.
Macbeth è il degno rappresentante di un mondo, talmente irrecuperabile nella sua viltà, che persino le streghe hanno abbandonato. Gli alberi della foresta di Birnan potranno anche muoversi, ma rimuovere tanta arrogante protervia da una poltrona è forse un'impresa impossibile. Lo stesso accade a Lady Macbeth, che supera egregiamente i suoi incubi sonnambuli e, molto probabilmente, non sarà mai sfiorata dal pensiero di un felo de se. Varcata la prima soglia, quello che in pochi attimi di lucidità è stato avvertito come un incubo, ridiventa un sogno piacevole dal quale non si vuole più uscire, questo gioco è talmente appagante che con gli opportuni accordi tra i giocatori potrebbe protrarsi all'infinito, e con un po' di fortuna questa lunga notte potrebbe non trovare mai il giorno.
In un  finale coerente non c'è catarsi, né autentico pentimento, la giustizia ha abbandonato da un pezzo questi luoghi e non vi ritornerà.
Nel peggiore dei mondi possibili, questo potrebbe anche chiamarsi happy end.




 

 

 

Macbeth/La poltrona
di Aniello Nigro
ispirato a Macbeth
di William Shakespeare
regia Monica Maiorino
con Aldo De Martino, Monica Maiorino, Francesca Pica
ricerca musicale Monica Maiorino
musiche originali Aniello Nigro
scene e costumi Aldemon Teatro
produzione Prospet
fonte foto di scena Ufficio Stampa
lingua italiano
durata 1h 10'
Napoli, Teatro Elicantropo, 1° aprile 2016
in scena dal 31 marzo al 3 aprile 2016

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