“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 08 September 2014 00:00

Tra il cunto e la recita

Written by 

La maledizione del Sud ovvero il cunto della storia di Colapesce avviene in forma di monologo pluritonale, in uno spazio vuoto di quinte e quasi vuoto d'oggetti, e concentra – com'è necessario – lo sguardo degli astanti al corpo del dicitore perché è proprio il corpo del dicitore a fare da palco e da scena, da intera schiera di personaggi e da ambiente della trama. Abbiamo davanti un intero assito, quindi, ma i nostri occhi mirano, senza quasi mai distrarsi, verso l'unico punto che conta: lì dove chi narra sta seduto o recita ponendosi in piedi.

Spettacolo che avviene in un teatro chiuso, ma che appartiene alla dinastia degli attori solitari e girovaghi, che si muovevano e si muovono di piazza in piazza trascinando le storie del proprio luogo d'origine o le meraviglie della letteratura immaginifica, conquista il suo pubblico soprattutto per l'evidente capacità di generare suggestioni marine, liquide, acquose, associando al blu cobalto dei fari un accompagnamento musicale immersivo, quasi calmante.
A tratti, mentre gli occhi continuano a seguire Pierpaolo Bonaccurso, il corpo si rilassa e si distende in poltrona, abbandonandosi – prima e più che al discorso – alle rotondità avvolgenti dovute al didjireedoo e ai bicchieri sonori, intonati da Fabio Tropea quasi a produrre il vento dello Stretto, il battere delle onde tra Messina e Reggio, il silenzio fischiante dell'abisso di Scill'e Cariddi.
Predominanza fascinosa dunque alla musica, per paradosso, in un'opera di parola cui l'interprete presta certamente capacità di riporto e discreto mestiere senza tuttavia eccellere nella micromimica facciale (prossima più a certo elegante citazionismo accademico che alla terragna espressività del cuntista) e nella resa pluritonale dei vari personaggi, per cui riconosciamo l'una o l'altra figura dall'ordito della trama, mentre la caratterizzazione specificatamente verbale (sporco italiano e grammelot siculo-calabrese) rimane accennata, talora percepibile a stento.
Ne viene un'affascinata visione complessiva, in cui tuttavia proprio i dettami cuntisti risultano più fragili: l'entra-esci dalla storia e dai caratteri non manifesta segni di passaggio, certa ritualità (si pensi agli appelli all'attenzione o alla preparazione visibile al cunto) risultano assenti come risulta assente la nota pratica del bastoncino, ovvero l'utilizzo di un bastone con cui, gli artisti del racconto, solevano tracciare un cerchio per terra, disegnando il luogo magico delle apparizioni. Invece Pierpaolo Bonaccurso si contenta dell'ausilio delle luci, evoca l'apparizione del bianco verticale alternandolo alle pause buie e, più di una volta, ha l'arditezza di sparire lateralmente dall'assito ritornandovi subito dopo, generando così un'assenza che non appartiene al cunto in quanto cunto né ai dettami fondanti della performance fisico-narrativa (Turner insegna) che prevedono riscaldamento, recitazione o performance, raffreddamento, decompressione fisica e ripartenza: senza mai lontanarsi.
A metà strada tra cuntismo vero e proprio e riporto interpretato attorialmente, La maledizione del Sud dunque non opta davvero per l'una o l'altra forma teatrale, finendo per assommare piccole caratteristiche di entrambe. Convivenza talora incoerente, genera effetti a tratti discutibili come, ad esempio, l'uso improvvido e inutile della luce stroboscopica nel momento narrato della battaglia.
Inoltre lo strascinìo della 'R', la sillabazione delle parole, l'accelerazione del fiato convivono con una gestualità sì ostentativa e calcata ma nella direzione apparente della resa di un'opera classica mentre è il fuoco dei gesti, la visceralità muscolare, una vera forza dinamica ciò di cui il cunto necessita. Si aggiungano l'ininfluenza ritmica della musica (destinata, come abbiamo scritto, a fare ambiente più che a provocare e regolare la cantilena del dettato), certo distacco tra l'oralità e la postura e l'incertezza sull'utilizzo o meno di oggetti di scena e si comprenderà quanto La maledizione del Sud sia un'interessante ipotesi futura, che necessita ancora di lavoro, di perfezionamento, di una calibratura più accorta.
Non basta farsi ennesimo portavoce della storia di Cola – mezzo uomo e mezzo pesce che "vola" e che "schizza" fino a farsi intrepido eroe della spuma, colonna siciliana, mito imperituro – per dirsi o per darsi come cuntista: occorre invece fedele aderenza a una ritualità tradizionale che non può essere disattesa, tradita o frammischiata ad elementi disturbanti, esogeni, stranieri al tipo di teatro che si afferma di voler realizzare. Altrimenti il cunto non è un cunto davvero e – nonostante l'eccellenza del musico – lo spettacolo risulta incapace di "cantare la meraviglia" ai presenti.

 

 

 

 

 

Re-Act. Festival delle Residenze
La maledizione del Sud. Dalla leggenda di Colapesce
di e con
Pierpaolo Bonaccurso, Fabio Tropea
musiche Fabio Tropea
produzione Teatrop
lingua grammelot siciliano-calabrese, italiano
durata 40'
Soverato (CZ), Teatro Comunale, 5 settembre 2014
in scena 5 settembre 2014 (data unica)

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook