“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 07 September 2014 00:00

Vecchio teatro

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La commedia di Nino Gemelli è un piccolo spaccato proletario, il racconto di un microcosmo privato in cui si cerca di supplire alla mancanza di denaro con l'inventiva lavorativa. Padre, moglie, figlia e zia mettono su un'agenzia di pronto intervento mentre il nonno disturba, cercando di farne parte. Nella sua componente testuale sembra soprattutto l'affermazione dell'impossibilità che gli uomini hanno di controllare le proprie vite, gli eventi che capitano.

Per quanto ci si possa dare un'organizzazione, per quanto si cerchi di registrare in formule fisse gli imprevisti che arrivano (offrire una soluzione ad ogni poblema che sorge, ecco la metafora dell'agenzia scelta dall'autore), accadrà prima o poi qualcosa di inatteso, di inaffrontabile, di spiazzante. Nel caso specifico la riapparizione di un genitore, a quarant'anni di distanza. Opera di scrittura semplice, diretta, che usufruisce di antichi equilibri di prosa, sulla scena diventa una visione stantia, dimenticabile nei suoi aspetti specificatamente teatrali. Ma, per dire della messa in scena, occorre fare innanzitutto elenco.
Le quinte composte da pannelli bianchi e rosa, di cui si vedono i segni d'usura e le intercapedini per la montatura; i ritratti a matita, le vecchie tele in vecchie cornici, il portariviste di paglia e il tavolo tondo, di legno, con una pesante tovaglia verdognola. Le sedie, il divano, quattro cuscini. La scrivania e un tavolino basso col pizzo ricamato, i libri sulle mensole del mobiletto frontale, le bamboline di ceramica, una coppa e una targa, un portacaramelle in vetro, pieno per metà. La cassettiera di metallo. Uno schedario. Un vaso senza fiori. Un calendario, una lavagna, la macchinetta del caffè con relativa tazzina. Le tende arancioni (vere) davanti al balcone centrale (finto); lo squillo (finto) di un telefono (vero).
Se Peter Brook ci ha insegnato che il nuovo, per accadere, necessita di uno spazio vuoto, forziamo adesso il suo pensiero, lo ribaltimo volutamente e lo usiamo per dire che il vecchio, o meglio una certa forma di vecchio teatrale, per accadere, necessita di uno spazio ricolmo.
Osservare dunque la scenografia, fare la conta del materiale usato, prendere nota dell'accatasto presentato su palco; misurare l'occupazione spaziale, percepire la pesantezza dell'ingombro, catalogare l'armamentario trascinato dal fondo alla ribalta fa comprendere – in questo caso – che Basta abbasta e suverchja è una messinscena malata di formalismo convenzionale, che non ha a che fare con la tradizione (la cui riproposta merita comunque innovazione) ma col tradizionalismo, che è scelta che genera immobilismo creativo e che porta a una forma sì rispettosa di conservazione ma che finisce per far ammuffire ciò che vorrebbe proteggere dall'oblio.
Viene da scrivere perciò che è bene certamente che, in un contesto operoso e dinamico come il Re-Act. Festival delle Residenze, si offra l'opportunità della scena a chi vive e fa vivere teatralmente il territorio, ma questo non riduce la sensazione d'aver assistito comunque a uno spettacolo che – nella sua forma e, dunque, nel suo contenuto – non è che una riproposizione filologicamente anche attenta ma visivamente antiquata fino all'eccesso.
Così, fedele alla più trita concezione da interno, Francesco Passafaro si dedica a colmare ogni centimetro disponibile, reiterando una propensione pseudo–verista simile a quella che, per fare un paragone chiarificatore, tanto ha nociuto ad alcune opere di Eduardo De Filippo, ridotte su palcoscenici periferici a commediole di circostanza, ambientate tra false finestre, stoffe pesanti e arredi da trovarobato d'annata. Si aggiunga, poi, che il lavoro registico imposto agli attori – nel suo meccanico riproporsi – non evita nessuno degli stilemi più consueti della vecchia offerta di maniera: l'aggrottarsi delle sopraciglia, il saltello spaventato, lo sbuffo evidente, la risata quasi isterica e l'inseguimento, l'inciampo, la caduta, lo svenimento che procura il panico.
Assistiamo dunque alla riproposta inalterata di un macchiettismo da epoca capocomicale, tanto da poter riconoscere e registrare la presenza di maschere, più che di personaggi veri e propri: la giovane intelligente e graziosa, il giovane tonto e impacciato, la zia zitella e colorita, il nonno testardo e combattivo e una coppia marito/moglie in cui – naturalmente – la parte saggia tocca a quest'ultima.
Si susseguono in questo modo i piccoli episodi familiari previsti dalla trama, tra intemperanze dialogiche, fraintendimenti e battutismo vernacolare, fino al mistero conclusivo, risolto senza darne effettiva visione.
Dimenticabili, di questo spettacolo, sono quindi il vorticoso entra/esci dalle quinte, l'uso reiterato della voce fuori scena, certe piccole pantomime scontate così come dimenticabili sono i siparietti verbali ("Ti chjudu!", "Vi cacciu!") che servono a vivacizzare il momento e ad assicurare una piacevolezza ritmica al dettato e allo spettacolo mentre restano come unico prezioso reperto soltanto certi modi di dire catanzaresi, certe immagini proverbiali, certe sonorità che, recuperate o conservate, dicono quanto il valore di Basta abbasta e suverchja risieda nel memorialismo antropologico–dialettale che tenta di realizzare piuttosto che nella teatralità effettiva che riesce ad esprimere.
Sorridiamo raramente per qualche passaggio, ritroviamo in certe scene eterni stilemi da commedia casalinga che funzionano da quando il teatro è teatro ma, giunti al termine, non possiamo non registrare che, in definitiva, si tratta di un spettacolo presepiale, superato nella sua consistenza artistica, datato nella sua offerta pratica.
Si pensi, solo per fare qualche esempio, agli a–parte muti e frenetici, al rimando burlesco dell'uscita di scena, all'interruzione continua della stessa battuta ("Mi ricordo una volta...") e tutto ciò si aggiunga all'assenza di un vero appofondimento interpretativo, capace di dare spessore alle singole figure proposte: vediamo gli attori tentare di impersonare uno stato d'animo, una condizione momentanea prevista dal copione, senza mai riuscirci davvero mentre domina l'accenno mimico più facile che, sovente, risulta appena abbozzato.
Prossimo all'amatorialità, Basta abbasta e suverchja non offre spunti di reale interesse quindi, se si esclude la conoscenza di un lessico che in parte è ormai anche localmente in disuso.
Teatro da provincia italiana postbellica, ai decenni trascorsi è rimasto per incapacità di inventiva, per rifiuto di ogni cambiamento, per spavento verso ogni azzardo.
"Basta Service, a chi serve quel che serve, prego!" recita il motto della povera impresa familiare. Verrebbe da dire, ascoltandolo, che serve finalmente un teatro diverso, che serve finalmente il nuovo teatro. Anche, e forse soprattutto, quando si vuol davvero far rivivere la tradizione.

 

 

 

 

 

Re-act. Festival delle Residenze
Basta abbasta e suverchja
di
Nino Gemelli
regia Francesco Passafaro
con Francesco Passafaro, Michele Grillone, Francesca Guerra, Patrizia Infusino, Roberto Malta, Elisa Condello
direzione di scena Rossella Rotella
musiche M. Fraimac
scenografia Di.Ma.Gri.Ro.Con.Pa.
audio Alessandro Passafaro
luci Sergio Passafaro
produzione Teatro Incanto
lingua dialetto catanzarese, italiano
Soverato (CZ), Teatro Comunale, 4 settembre 2014
in scena 4 settembre 2014 (data unica)

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