“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 15 January 2018 00:00

Lehman, da teatro a romanzo in feconda contaminazione

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Recentemente ho avuto una conversazione con il direttore Alessandro Toppi perché ogni tanto fa bene parlare con lui. L’ho trovato febbricitante ma ugualmente sintonizzato sulla magia del palcoscenico.
− “Sai com’è, ho letto una cosa che ti voglio consigliare. Anche perché tratta da una pièce che magari conosci. Comunque, il libro è: Qualcosa sui Lehman”.
− “Sì... è uno spettacolo che ho visto. Tra l’altro molto bello”.
Esordisco in questo modo, spero conciliante, perché tengo a chiarire subito un aspetto: Qualcosa sui Lehman di Stefano Massini, il corposo romanzo “teatrale”, o “romanzo-ballata” come lo definisce l’autore stesso, segue infatti di un paio di anni Lehman Trilogy, il testo piaciuto al Toppi.

Se vi state chiedendo se i Lehman in questione siamo proprio i Lehman coinvolti nello schianto dell’economica americana di dieci anni fa la risposta è sì. Ma il destino ha voluto che la bancarotta del 2008, in qualche modo prefigurata, annunciata e non narrata nel romanzo, tipo un giallo di cui si conosce già l’assassino, li abbia in qualche modo esentati. Perché la guida della Lehman Brothers era già in mano ad altri. Le dinastie si estinguono e il capitalismo manifesta la sua essenza: quella di essere un cimitero di aristocrazie. Se va bene, fai in tempo a passare il testimone.
Già: il capitalismo. I Lehman, prima i pionieri che dalla Baviera arrivano nel Nuovo Mondo, ovvero Henry, Emanuel e Mayer, poi i lori figli e nipoti dimostrano come il passaggio dal materiale all’immateriale sia diventato una cosa tipica dell’ingranaggio. Non è che stiamo dando colpe a una macchina, il capitalismo appunto, nell’ambito di una visione teleologica dell’economia, ma osserviamo questa evoluzione: dal cotone, la prima merce trattata e commerciata si passa al caffè, allo zucchero, fino alle ferrovie, al petrolio, all’aviazione, alle armi e poi azioni, cavalli, arte, intrattenimento, Borsa, soldi in funzione dei soldi. Dai capostipiti ai discendenti, insomma, si attua una mutazione genetica dove il dramma si scatena quando gli ingenui risparmiatori (che sono anche consumatori) decidono a un certo punto di riavere indietro i loro soldi. Soldi che “materialmente” non ci sono. Ci sono le cedole e i titoli, c’è una sistema “cartolarizzato” che nel 1929 come nel 2008 a un certo punto implode.
Chi sono i pionieri? Ne abbiamo accennato i nomi: Henry, Emanuel e Mayer. Come dice Massini:

Dei tre, Henry è la testa
− lo disse suo padre, laggiù in Baviera −
Emanuel è il braccio.
E Mayer?
Mayer Bulbe è quello che ci vuole fra la testa e il braccio
perché il braccio non spacchi la testa
e la testa non umili il braccio.

Aggiungo subito che la prima parte del romanzo è strepitosa. Ne offro l’incipit, tanto per rendere l’idea:

Vista da vicino
in questa mattina fredda di settembre
osservata fermo immobile
come un palo del telegrafo
sul molo number four del porto di New York
l’America sembrava più che altro un carillon:
per ogni finestra che si apriva
ce n’era una che si chiudeva;
per ogni carretto che svoltava a un angolo
ce n’era una che compariva all’altro;
per ogni cliente che si alzava a un tavolo
ce n’era uno che si accomodava
“Nemmeno fosse tutto preparato” pensò
e per un attimo
− dentro quella testa che da mesi aspettava di vederla −
l’America
l’America vera
fu ne più né meno che un circo delle pulci
per nulla imponente
anzi, semmai, buffa.
Divertente.

Massini, qui e oltre, dà il meglio di sé, la lingua è quella di un monologo recitato in palcoscenico in cui la catena ebraismo-yiddish-ironia funziona come un motore oliato alla perfezione. Che muove, direi “stimola”, anche il succedersi degli eventi: guerra di secessione, perché i Lehman esordiscono, abbiamo detto, con il cotone del profondo sud, l’ascesa della potenza industriale americana, perché poi i Lehman si trasferiscono a New York, due guerre mondiali, il proibizionismo, il crollo di Wall Street e la grande depressione. E non mancano le fisse, i vizi, le virtù dei vari membri di una famiglia che pare arrabattarsi e che invece segna la storia della nazione più potente del mondo. Ma poi che cos’è l’economia se non proprio un “ingegnoso arrangiarsi” alla ricerca di nuovi mercati, nuovi prodotti e nuovi consumatori? Si nasce, si cresce, qualcuno sparisce, perché fra i Lehman sorgono dei contrasti ma il lettore, questo è un aspetto molto efficace del romanzo, resta indeciso se considerare più visionari quelli che lasciano o quelli che raddoppiano.
La scrittura cerca di restare ancorata al suo incalzare che potremmo figurare come lo scoppiettio dei tizzoncini nel caminetto. Solo che essendo una scrittura-armatura, pensata come elemento che riveste i personaggi che si susseguono, a un certo punto, diciamo nella parte centrale del romanzo, si coglie un progressivo impoverimento dei protagonisti stessi, oggettivamente inferiori alla trinità originaria (Henry, Emanuel, Mayer). E si registrano alcuni cedimenti ed equilibri più precari. Poi, per fortuna, il tutto riprende quota perché il grande merito di Massini è mantenersi coerente al suo intento: la valorizzazione di una materia prima come la parola. Il libro che ne esce, allora, è autentica poiesis, ovvero prodotto ottenuto dopo un paziente plasmare.




leggi anche:
Pino Sabatelli, “Qualcosa sui Lehman” di Stefano Massini (I fiori del peggio, 3o dicembre 2017)




Stefano Massini
Qualcosa sui Lehman

Mondadori, Milano, 2016
pp. 773

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