“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 25 January 2015 00:00

Sono dietro di te (parte 9)

Written by 

CAPITOLO 8

 

Nonostante ne sia l’autore, io per primo non so dirmi come sia finita questa storia. È ovvio che Susy di li a poco sarebbe diventata cadavere, ma non è questo quel che conta. Insomma, alla fine Vlad soddisferà il suo bisogno di sesso (o amore) oppure si limiterà a dissanguarla? Certo, ho lasciato degli indizi per strada e tutto sommato il finale può dare una risposta, ma rimane comunque opinabile, credo. Ad ogni modo, per adesso tutto questo non è importante, mi soffermerei per un attimo invece sull’altra questione sollevata dal mio breve racconto ed è per questo motivo infatti che mi ritornò in mente proprio in quel momento, nel bagno di Margherita, ossia: il bisogno di uccidere. In parole povere, già da bambino paragonavo l’assassinio seriale ad un atto di sopravvivenza. Johnny Vlad uccide per vivere. Tutto sommato non prova nemmeno godimento nel farlo, è dissetarsi, anzi pare quasi se ne dispiaccia, tanto che confessa la sua condizione con amarezza. Dunque? “Adesso basta” mi dissi, “non affliggerti oltre, Giovanni!”.

“Tutto bene lì dentro, figliolo?” disse Margherita dall’altra stanza, “Si, arrivo” le risposi io in tono rassicurante. Uscii dal bagno e tornai da lei dicendo: “Mi scuso, ma era da un po’ che la trattenevo. Che stavamo dicendo?” – “Dunque dicevo, il povero Michele…” aveva riattaccato a parlare del suo putrefatto marito. Le misi delicatamente le mani in testa come per accarezzarla. La vecchietta interruppe il racconto, alzò lo sguardo e mi guardò sorridente, io ricambiai il sorriso e, senza modificare espressione, le dissi: “Scusa Margherita, ma hai rotto il cazzo”. Le spinsi fortissimo la testa che reggevo con le mani contro il mio ginocchio. La presi sulla punta del naso così forte che le rientrò quasi del tutto. Pensavo potesse morire sul colpo dopo una tale botta, invece no. Devo dire che mi stupisco sempre di più della resistenza delle mie vittime. La presi in braccio e la portai sul letto. Poi le diedi un pugno ben assestato sulle labbra. La dentiera non si ruppe, ma le scivolava in continuazione avanti e indietro rischiando di soffocarla. La tolsi e la appoggia sul comodino. La vecchia piangeva. “Non piangere Margherita” le dissi mentre le accarezzavo il viso sanguinante. Cercò di dire qualcosa, ma non capii. Presi la dentiera e gliela rimisi bene per cercare di rendere nuovamente comprensibile il suo fonema. Ero ancora molto interessato alle “ultime parole famose”. Mi disse, e stavolta capii benissimo nonostante la voce singhiozzante: “Perché?” – “Margherita, è semplice. Perché mi piace farlo, lo adoro, mi diverto, mi sento finalmente felice”, mi brillavano gli occhi, mi sentivo liberato e aggiunsi: “In bagno mi sono tolto un peso. Sai, in bagno si va per questo motivo”. La freddura che feci mi divertì molto, ma fui il solo a capirla, credo. “Allora fai quello che devi fare”. Furono le sue chiarissime ultime parole. Andai in cucina a cercare un utensile bello pesante o qualcosa di appuntito tipo un grosso coltello. Ero indeciso. Alla fine presi una specie di matterello. Tornai in camera da letto, le tolsi nuovamente i denti e le ficcai questo grosso arnese fallico in gola, fin giù a sfondarle la trachea. Sentivo il pezzo di legno scivolare che era un Piacere. Continuava a scendere fino a non so dove. Margherita intanto era già morta, così mi fermai. Le diedi un bacio sulla fronte e le sussurrai: “Grazie”. Lasciai tutto cosi com’era. Ero così entusiasta che per un attimo pensai: “Se mi prendono, mi prendono” poi mi dissi: “E come mi prendono? Nessuno sa che sono qui, la telefonata l’ho fatta da un telefono pubblico. Domani suo figlio arriverà qui e troverà sua mamma morta senza alcun indizio. La polizia non troverà nemmeno impronte digitali perché non ho mai tolto i guanti, brancoleranno nel buio come al solito". Presi sciarpa e cappotto ed uscii fuori. Si era fatto buio e la macchina era un po’ distante. Da lontano vidi dei fari accesi venirmi incontro. Immediatamente mi gettai nel verde che mi circondava. Mi nascosi fino al passare della macchina, poi, quando fu sparita dalla vista, uscii dai cespugli e raggiunsi la mia auto. Stavolta avevo rischiato grosso. La macchina che mi aveva superato sembrava diretta fin su in cima alla montagna, se non fossi stato pronto a buttarmi  sarei incappato in un probabile testimone. Misi in moto e ripartii. Il cellulare aveva un paio di chiamate perse. Era Barbara. “Adesso sono stanco” pensai. Non avevo voglia di andare da lei quella sera così le scrissi un messaggio: “Scusami ma ero impegnato a fare il bucato, non ho sentito il cell. Ho un forte mal di testa, vorrei rimanere qui a dormire anche perché domani ho il mattino. Ti chiamo io, bacio”. Mentre le scrivevo non potevo non pensare alla macchina che era appena passata. “Perché rischiare che mi prendano per uno stupido testimone che torna a casa dal lavoro?” mi dissi... Così diedi un’occhiata attenta in giro, misi in moto e mi diressi in cima alla montagna. Dopo un paio di chilometri a velocità sostenuta intravidi un auto che stava rallentando sulla destra per entrare in un villino. Era la stessa macchina di prima. Fermai di colpo per non essere visto e proseguii a piedi facendomi spazio tra i cespugli ai lati della carreggiata. Dalla macchina uscì una donna, giovane, diciamo sui 35 anni, capelli raccolti ed abito da classica donnina in carriera, non sono un esperto di moda, ma mi diede l’immediata sensazione di essere una di quelle tipiche caporeparto rompicoglioni che gestiscono gli uffici di queste aziende tanto fortunate qui a Torretta e dintorni. La donna era entrata in casa. Sgattaiolai dal cespuglio e mi diressi verso l’ingresso del villino. Ovviamente il cancello automatico si era già chiuso dopo l’entrata della sua auto, ma le mura che gli facevano da cornice erano inquietantemente basse, ad occhio e croce avrei detto 1,70 metri, forse anche meno. Del resto cosa cazzo vuoi che succeda in questa città?!. Riuscivo, data la mia altezza, ad appoggiare le braccia con disinvoltura, poi presi un bello slancio sulle gambe e mi ci ritrovai sopra coricato sull’addome. Ovviamente prima di scavalcare avevo già adocchiato per bene cosa mi aspettasse dall’altra parte. Dalle vetrate della casa potevo vedere lei che usciva da una stanza all’altra, e ad ogni riapparizione aveva qualcosa di meno addosso. “Una bella donna”, pensai, non un filo di grasso. Di quelle che fanno installare una cyclette in ufficio per riempire i tempi morti tra una telefonata e l’altra o per pensare in che modo rimproverare l’operaio di turno senza fargli perdere l’ultimo briciolo di dignità residua che gli permetta di andare avanti a lavorare. Mi avvicinai alla finestra aperta e mi appiattii di sotto aspettando il momento propizio per entrare. Da fuori riuscivo a sentire i rumori interni e capire dai passi di lei a che distanza esattamente si trovasse. All’esterno il fruscio del vento invernale accompagnava la scena creando, lo ammetto, una bella atmosfera di tensione, una di quelle che avrebbero, senza falsa modestia, fatto invidia ai migliori registi del genere. La donna in casa era assolutamente sola, ma non avevo idea se da un momento all’altro potesse arrivare il marito, o chi altro. La mia macchina non mi preoccupava, avevo già notato che il sentiero della montagna non portava da nessun’altra parte, né a piedi, né in macchina. Quello era l’ultimo posto che quel ristretto ecosistema aveva da offrire a chi si avventurasse su in cima. Senza esitare oltre, quindi, entrai. La vidi di spalle in mutande che preparava la vasca da bagno. In sottofondo aveva messo della musica, credo rock anni 80, roba un po’ dark, ma non saprei essere più preciso. Me la immaginai in quegli anni dissoluti, a ubriacarsi e scopare in giro senza pensare mai al domani, e l’immagine di lei ragazzina faceva a cazzotti con la donna che era diventata ora, o che almeno presumevo che fosse. Aspettai nascosto alla parete che lei si togliesse le mutandine e si immergesse nell’acqua. Lo fece. Ero pronto. Riflettei un attimo sull’arma del delitto da usare, non ne avevo una con me e mi sarebbe stato necessario andare a curiosare in cucina per trovarne qualcuna, poi mi accorsi che l’arma era già li a portata di mano; l’acqua. Non avevo mai annegato nessuno e pensai compiaciuto “c’è sempre una prima volta”. La donna aveva gli occhi chiusi, a bassa voce canticchiava la canzone che aveva messo e muoveva sinuosamente le gambe che a turno fuoriuscivano dall’acqua accarezzate dalle sue mani schiumose. Mi avvicinai lentamente e senza fare il minimo rumore, poi con la stessa attenzione tornai indietro senza voltarmi e mi nascosi di nuovo alla parete. Tolsi le scarpe, non dovevo tralasciare il minimo dettaglio e le impronte che i miei anfibi avrebbero lasciato nelle più che probabili pozzanghere che si sarebbero formate durante la colluttazione avrebbero potuto fornire un indizio importante per la scientifica, che so, il numero di piede o la marca del modello di scarpe che era stampata sotto la suola. Mi riavvicinai a piedi scalzi e ormai sicuro del fatto mio. La donna se ne stava ancora li a canticchiare ad occhi chiusi. Se la stava proprio godendo. Ormai ero ad un metro, la osservai dall’alto attentamente, era proprio una bella donna. Avrei potuto chiederle se mi aveva visto prima quando era in macchina, mi sarebbe piaciuto sapere se stavo facendo una fatica inutile, poi pensai “altro che fatica, non mi sono mai divertito tanto”. Però mi incuriosiva saperlo, anche per stabilire un minimo di rapporto con questa preda. Del resto era sempre stato così finora. Barbone a parte, non avevo mai ucciso così a “scatola chiusa” e poi questa donna non era certo paragonabile ad un barbone. Forse dovevo avere un po’ di ritegno con lei o forse semplicemente volevo che mi desse di più oltre ad un bel corpo da ammirare mentre la soffocavo. D’altronde il barbone che avevo ucciso mi aveva regalato quell’espressione che solo i barboni sanno dare. Quel volto trasfigurato dal dolore passato durante tutta una vita misto a quello che stava appena vivendo era qualcosa di inintelligibile e allo stesso tempo così potente che ci vorrebbe un grande poeta per assimilarlo e descriverlo. Questa puttana invece cosa poteva darmi?! Avevo atteso all’incirca 10 secondi ad un metro da lei con queste mie elucubrazioni che si accavallavano freneticamente, troppo tempo per un lavoro ben fatto. La stronza infatti aprì gli occhi e per un attimo rimasi spaesato quanto lei, ma prima che potesse realizzare quanto stava accadendo mi fiondai su di lei, le strinsi le mani al collo e la spinsi violentemente sul fondo della vasca. Il suo volto sparì nel vuoto, le gambe e le braccia si dimenavano creando giochi d’acqua che, come avevo previsto, formavano un gran pantano sul pavimento. Dopo poco più di un minuto finalmente la morte. Mi aveva regalato solo qualche bollicina che di tanto in tanto riaffiorava dalla sua anima alla superficie dell’acqua, e un gran brivido che sentivo accumularsi nei testicoli. Uscii dal bagno, ripresi gli anfibi e me ne tornai in macchina. Stavo proprio bene. La temperatura adesso era piacevole. C’era quel fresco tipico di montagna, e quei paesaggi bucolici, in contrasto con il tepore dell’auto, mi davano una serenità che di rado avevo provato. La strada era deserta, ma andai a passo di lumaca. Tornai a Nordavalle in quasi 1 ora e mezza. Fermai l’auto davanti casa come al solito e mi misi sotto le coperte. Erano le sette di sera circa, ed io avevo già tanto sonno. Tolsi la suoneria del telefonino e mi addormentai dolcemente come un bambino che ha passato l’intera giornata al lunapark.

 

(continua…)

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook