“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 15 December 2013 00:00

Teatro, metafora, attori

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Il teatro è l’arte della metafora. L’attore è un uomo che sta in palco, ma come se fosse un altro uomo, all’interno di uno spazio che richiama un altro spazio, e compie gesti che segnano un tempo che non è il tempo vero ma uno fasullo, più breve o più lento di quello durante il quale – normalmente – camminiamo, mangiamo o riposiamo.

Ciò che osserviamo è ciò che osserviamo ma, in teatro, di ciò che osserviamo vale anche l'ombra, il doppio e tutto il resto. Un corpo non è solo un corpo in teatro: può essere un albero, un vascello, un sasso; può avere le ali o le sembianze di una talpa; può avere tre braccia, due teste, quattro occhi; può essere soltanto un naso. Quello spazio che ci sembra vuoto è colmo di oggetti: basta nominarli per poterli afferrare; la parola “giorno” fa splendere il sole al centro di un tetto; un soffio porta le stelle, una cascata sgorga dall'angolo asciutto tra una parete e una parete, mentre con un gesto della mano s’apre un intero campo di battaglia. In teatro un dirupo si squarcia all’improvviso: basta fingere di barcollare.
Può piovere, in teatro, e – contemporaneamente – non piovere.
“Piove, piove. A Vicé non glielo dico che piove, così non lo sa e si bagna”.
“Non piove, non piove. A Totò non glielo dico che non piove così crede che piove e si bagna”.
Qui – in questo teatro che ha per nome Totò e Vicé – una tovaglia inizia a cantare, un uccellino se ne vola portando con sé la gabbia, un uomo prende il largo in compagnia dei gabbiani. Qui la luna si posa sui tetti; qui le stelle diventano pupille; qui il suono genera il mondo o un’immagine del mondo. Qui i dipinti sciupano i propri fiori; qui le campane suonano senza dondolare; qui si può morire e si può rinascere in un minuto.
Soltanto per gli occhi più semplici o irrimediabilmente già adulti – occhi che si accontentano di ciò che guardano senza badare al cumulo di prodigi invisibili che sorgono tra una cosa e una cosa – Totò e Vicé sembra o sembrerà la vicenda-senza-vicenda di due anziani clochard che, seduti su una panchina di un cimitero, ingannano il tempo e la notte trascorrendo il tempo e la notte a parlarsi.
Soltanto a chi non crede al buio sonante delle parole, ai colori ulteriori degli oggetti, alla concreta fattezza dell’inesistente Totò e Vicè appare o apparirà una storia assurda, colma di frasi assurde, di sguardi assurdi, di assurdi siparietti, di silenzi assurdi, di assurdi movimenti compiuti da questi due uomini assurdi che si reggono il gioco in maniera assurda mentre invece – fatto salvo l’evidente richiamo ai poveri di Beckett, ai suoi clown intrappolati in uno spazio, ai suoi viandanti che non vanno da nessuna parte – Totò e Vicé sono il teatro, sono l’arte teatrale, sono ciò che l’arte teatrale è da secoli, nella sua forma primaria, nella sua natura naturalmente innaturale e – di quest’arte – sono il fondamento: Totò e Vicé sono due attori.
Appaiono mano nella mano, dita intrecciate alla dita, per significare che il numero minimo del teatro è due perché occorre essere almeno in due in teatro: artista e spettatore. Io guardo te, tu guardi me mentre ti guardo, io ti guardo mentre tu mi guardi poiché, in teatro, l’attore che avanza verso il pubblico è guardato, ma al contempo può guardare chi lo guarda. “Vicé, senza di te – lo sai – io non esisterei”; “Lo so, lo so”.
Si pongono al centro di un cerchio di lumini che – per quanto sia un tondo da camposanto, un circolo di fiammelle destinate a riscaldare le anime dei trapassati – è allusione e rinvio, definizione e ricalco, dello spazio magico e rituale della scena, sottolineatura dell’altrove che ha sede qui e, in cui, si produrranno visioni, apparenze, epifanie. È – infatti – soltanto in questo spazio-altro-dallo-spazio che un attore è un attore ed esercita come attore. “Siamo beccamorti. I guardiani del camposanto. Ogni morto, sai, racconta la vita. Ogni morto rinasce in me”.
Si muovono portando in mano una valigia perché il teatro è l’arte viaggiante, perché il teatro naviga la strada e la terra, perché il teatro è mestiere da sacco, da carro, da spostamento continuo ed è direzione e cammino e ostinata propensione a mostrarsi di chi si trascina di stanza in stanza, città dopo città. Ma portano due valigie perché il teatro è anche arte da baule, insieme di ciarpame, di trucchi, di minuzie che seguono il loro padrone standosene accumulati sul fondo della borsa, dentro la sporta, in questa carcassa di cartone o finta pelle che è l’unico avere di chi recita la vita, recitandola per tutta la vita. “Totò, mi piacerebbe avere le ali”.
Cominciano reiterando i propri nomi perché alla base di una storia c’è il nome dato a un personaggio e perché ogni sera è una replica e − ogni replica − è la conferma di potersi ancora chiamare, di poter essere ancora chiamati, ovvero di poter chiamare o essere chiamati dal retro per andare oltre il sipario: dove si conta la platea; dove si prende posto; dove si sceglie un volto, tra il pubblico, cui dire la prima battuta. “Totò”; “Vicè”.
Passano il tempo – quest’ora di spettacolo che non è un’ora ma sono cinque minuti o un anno intero – producendo macchiette, scherzi fragili, miniature puerili poiché il teatro è questo fare e rifare le storie, giocando con le storie, e perché – con esse – l’attore inizia, recita e finisce; inizia, recita e finisce; inizia, recita e finisce ogni volta, in ogni occasione, finché non smette del tutto. “L’importante è che siamo ancora insieme. Che facciamo?”.
Hanno alle labbra le allusioni agli autori trascorsi (Shakespeare e Consolo, Pirandello e Calderón de la Barca); hanno gli interrogativi cui il Teatro non ha saputo o potuto rispondere (“Se non c’erano i muri, come le facevano le finestre?”; “Il sogno è morte oppure la morte è un sogno?”; “Ma se una farfalla sogna di essere un fiore, è un fiore o una farfalla?”); soprattutto hanno alle labbra la loro mutabile natura di attori, la loro forma informe, la loro fragile consistenza che si sbriciola, che si fa vaga, altra o differente, fino a cambiare totalmente: “Angeli e diavoli siamo”; “Siamo fatti di mollica di pane”; “Siamo fatti di cotone fino fino”; “Siamo fatti di fili di seta”.
Contengono i personaggi che sono stati (brandelli fuoriusciti da Fantasmi, lo spettacolo con cui Vetrano e Randisi hanno portato in scena Pirandello fondendolo a Scaldati: il treno che si sente sbuffare all'inizio è il treno dello spettacolo passato, di cui è svanita l'ombra dell'albero, di cui sono svaniti i binari, le luci fioche, il fondo azzurro), ma scrutano anche i personaggi che forse diverranno, inquietandosi per il rapporto (irrisolto e irrisolvibile) che esiste tra ciò che sono e ciò che devono essere, tra ciò che non sono ma che pure saranno: “Se esisto unicamente io, lui chi è? E se lui esiste, io chi sono?”.
Poiché sono attori – poiché sono il teatro – sanno che il tempo è una burla che si manomette a proprio piacimento (“Perché cammini all’indietro?”, “Ho un appuntamento e sono in ritardo”; “Perché cammini adagio adagio?”, “Così il tempo rallenta ed io non invecchio”); sanno che “chi è morto è vivo e chi è vivo è morto” se un vivo interpreta un morto; sanno che se la recita è una vita allora la vita è una recita e che la recita – ovvero la vita – dura finché si rimane in scena. Per questo – proprio come i personaggi di Beckett e chi li interpreta – guadagnano tempo rubando al tempo altro tempo, perché il loro minuto sia sempre penultimo, perché non giunga mai l’istante in cui a giungere è il finale, momento fatale in cui tocca emettere l'ultimo soffio, compiere l'ultimo gesto, cedere all'ultimo sguardo, per poi tornare alle quinte e − tra le quinte − sparire, spirando. “Sto così, in attesa. In attesa sto, in attesa che la sera si squaglia”.
Finirà naturalmente. Finirà questo Totò e Vicè come finisce ogni spettacolo, finirà come finisce ogni luce, finirà come finisce ogni esistenza, ogni lentezza, ogni risata. Finirà come finisce il teatro, quando gli attori hanno finito. Entrati da destra, a sinistra se ne vanno, lasciandosi alle spalle ciò per cui e di cui hanno appena vissuto: le candele, le lampadine, la panchina, le giacche e i fari, le corde, il palco, la platea con il suo pubblico che, intanto, rompe l’incantesimo facendo vento con l’applauso.
Passano così gli attori e, quando passano, passa il teatro.
Passato il teatro, gli attori passano altrove.
Finché non passeranno più.

 

 

 

 

Totò e Vicé
di Franco Scaldati
regia Enzo Vetrano, Stefano Randisi
con Enzo Vetrano, Stefano Randisi
disegno luci Maurizio Viani
costumi Mela Dell'Erba
suono Sara Buonaccorso
foto di scena Tommaso Le Pera
produzione Teatro degli Incamminati, Diablogues/Compagnia Vetrano-Randisi
durata 1h
Napoli, Teatro Nuovo, 12 dicembre 2013
in scena dall'11 al 15 dicembre 2013

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