“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 29 May 2020 00:00

Kids Festival e il teatro senza apposizioni superflue

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“Ogni volta che durante uno spettacolo un bambino mangia una patatina, un pop-corn, una caramella, da qualche parte nel mondo una marionetta, un burattino, un attore... muore!”
(Tonio De Nitto, prima di ogni spettacolo, rivolto alla platea)


                                    

Tornare a Kids per me è ogni volta come tornare a un’infanzia lontana e sospesa, tornare al bambino che ero e a quel precoce senso di ”adultizzazione” (o adulterazione?) intervenuto in anticipo sul mio candore, a svilire in parte la più autentica capacità di provare stupore; quel candore e quello stupore mi pare di recuperarli quando torno a Lecce, a Kids, e mi accoccolo alle cure di chi ti fa sentire accolto, aiutandoti maieuticamente a recuperare un sentimento puro di partecipazione, di condivisione, un sentimento al centro del quale c’è il teatro, ma intorno al quale pulsa l’intima essenza di una comunità che mette in moto e guida una macchina organizzativa ‘ecologica’ e confortevole.

Per la prima volta, a differenza del passato, comincio Kids dalla fase dicembrina, anticipandomi rispetto al nuovo anno. Edizione che a un primo sguardo alla programmazione potrebbe sembrare “autarchica” (basti vedere quante produzioni delle compagnie ‘di casa’ ci sono), rispetto alle precedenti, ma che mi renderò conto in corso d’opera avere una sua coerenza programmatica, che si va a innervare perfettamente sul focus di quest’anno incentrato su “Teatro e disabilità”, a cui saranno improntati gran parte degli spettacoli e a cui sarà dedicata una intera (e assolutamente proficua, benefica, persino necessaria) giornata di incontro e confronto, in un convegno guidato da Andrea Porcheddu. Perché un festival – potrà sembrare un’ovvietà – non è solo un susseguirsi di spettacoli.


Il focus
Ed è proprio da questa giornata di incontri che mi piace partire, sovvertendo una filologica cronotassi del resoconto festivaliero. Perché è quella giornata che, in consonanza con l’intera rassegna, rappresenta per me il passaggio più significativo, mi fornisce il filtro migliore con cui foderare di diafana chiarezza lo sguardo; è da qui, da questa giornata, che nascono le considerazioni più significative su questa edizione di Kids e le riflessioni più determinanti. Perché mi porto dietro delle lezioni, degli ammaestramenti, dei surplus di senso che travalicano le questioni ordinarie spesso dibattute attorno al teatro, a cominciare dal distinguo forzoso tra “teatro ragazzi” e “teatro tout public”, o ancora le varie declinazioni di teatro sociale, teatro che dicesi civile, teatro contemporaneo, teatro politico: tutte definizioni e apposizioni che finiscono per aggiungere un superfluo sfrondabile. Perché il teatro è già sociale, è già di per sé civile, è già contemporaneo nel suo accadere, è già politico nella sua atavica essenza di accogliere attorno a sé una comunità; il teatro è teatro, senza bisogno di apposizioni specifiche che ne integrino un senso di per sé palese e il focus su “Teatro e disabilità” delle Officine Cantelmo del 4 gennaio sembra essere lì a volercelo ricordare, attraverso una pluralità di sguardi e di esperienze, testimonianze di operatori italiani e stranieri espresse e messe in comune affinché fossero reciprocamente a disposizione e al servizio di una riflessione seria e rigorosa sul tema.
Ascolto, prendo nota, apprendo e faccio tesoro. Il teatro non è sociale, ma sociale è la sua funzione, nel momento in cui crea modelli di accessibilità. La prima traccia a cui mi lego è quell’Hubu Roi visto mesi addietro e diretto dallo stesso Tonio De Nitto nell’ambito del progetto Cross the Gap, apparso una sera a Bitonto e che da lì ha fatto rotta per la Grecia per poi esaurire le proprie repliche; spettacolo che anteponeva al titolo di Jarry una acca iniziale, che ne suggeriva l’idea in base alla quale era declinato, per poi subito dopo farti dimenticare in corso d’opera dell’handicap a cui quel titolo era ispirato e vorticare tra le giduglie con la coerenza dello spettacolo compiuto. Da quella traccia traggo spunto per coglierne un seguito ideale (e programmatico) nelle parole che ascolto, nelle immagini che vedo, nelle riflessioni che si susseguono sulle discriminanti economiche e culturali che sono alla base di ogni forma di disagio. Artisti notevoli portatori di disabilità: come ci si lavora? Se dovessi identificare una stella polare da seguire, la ritroverei nelle parole di Antonio Viganò (Teatro La Ribalta di Bolzano, Accademia della Diversità), che risuonano emblematiche, pregne di un senso inoppugnabile: “Il teatro, nel momento in cui diventa ‘socialmente utile’ svende sé stesso”, perché, come s’accennava dianzi, il teatro o è sociale o non lo è e la ‘diversità’ sta proprio nel mettere al centro questo concetto, salvando il ruolo del teatro, di “quella ferita” – sempre per dirla con le parole di Viganò – “di cui abbiamo bisogno per sopravvivere”. Perché la diversità non è qualcosa di meno né qualcosa di più: è semplicemente un’altra possibilità. E va benissimo che il teatro se ne occupi, metta in scena, purché non scada nell’animazione sociale: chi mette in scena l’alterità deve saperla trasformare; la sfumatura fondamentale sta nel comprendere che non abbiamo bisogno della teatroterapia, ma di un teatro che sia capace di essere terapeutico. All’intervento di Viganò s’accoda quello di Damiano Scarpa di Alcantara Teatro: “Ogni parola che aggiungo alla parola teatro è discriminante”, ancora il concetto di ferita che ritorna, così come quelli di disabilità e quotidianità, riproposto e rideclinato anche da Simone Guerro di ATGTP. E comprendiamo – di contro – che se è vero che c’è un teatro che ha bisogno della ferita, è vero anche che c’è una ferita che ha bisogno del teatro. Si susseguono gli interventi, da Robert McNeer (La luna nel pozzo) che, spiegando la cultura dell’errore che si impara attraverso il lavoro del clown, ci regala la definizione di “normopatici” per ribaltare una prospettiva consuetudinaria, a Martina Kolbing Reiner del Mezzanin Theater di Graz, la quale racconta di come la loro realtà possa usufruire di fondi non derivanti dalla spesa sociale ma dalla cultura, il che testimonia un’attenzione e una concezione decisamente avanzata della valenza socio-culturale del teatro da quelle parti. A seguire prendono la parola il regista Enzo Toma, Vito Minoia della rivista Catarsi – I teatri delle diversità, Paola Martino dell’Università del Salento, Detlef Kohler del Theater Gruene Sosse di Francoforte, ma sono a mio avviso soprattutto due interventi che raccontano esperienze umane e personali a concludere e portare a sintesi la giornata d’incontri: quello di Vincenzo Deluci, musicista dell’Associazione Accordiabili, suonatore di tromba che ci parla di un sogno che un incidente sembrava aver negato e che oggi appare restituito e,  per chiudere Francesco Stefanizzi, che avevamo visto recitare il giorno prima al Museo Ferroviario, e che prendendo la parola dal pubblico, con un intervento che pare sinallagma di quanto detto da Viganò, ribadisce l’inutilità di etichette e apposizioni superflue, in quanto ogni specificazione non richiesta è di per sé escludente e con fierezza e decisione rivendica di essere un “attore” non un “attore disabile”, perché andare in scena non è “fare un’esperienza”, ma essere lì vuol dire qualcosa che è semplicemente sintetizzabile in due sole parole: “Sto lavorando!”.


Il festival
Kids ormai funziona secondo ritmi collaudati, crea in chi lo segue un’abitudine sana fatta di iniziative e appuntamenti consolidati, in cui rientra anche una genuina ritualità nata spontaneamente, come le immancabili raccomandazioni di Tonio De Nitto (direttore artistico insieme a Raffaella Romano) riportate in esergo, mandate ormai a memoria anche da parte nostra, al punto che se non ci fossero impartite sentiremmo mancarci qualcosa. Ci sono i luoghi, di cui di anno in anno il festival si arricchisce (nuovi spazi che si aggiungono a quelli abituali), i laboratori gratuiti per i bambini che costellano la durata della rassegna e abitano il Kids Village, le traning session al Museo Castromediano volte a incrementare la competenza nel teatro (cosiddetto) sociale, l’ormai classico biglietto sospeso dell’Operazione Robin Hood e un dialogo costante tra festival e territorio, ma anche tra Kids è realtà consimili, in particolare il progetto Reazione a catena, sostenuto dal bando Boarding Pass, che mette in relazione tredici festival italiani e internazionali, promuovendo l’instaurazione di un dialogo e l’implementazione di una rete virtuosa di mutualità, favorendo il confronto e la pluralità degli sguardi fra gli operatori del settore. Ed è per l’appunto un’operatrice del settore – Cristina Cazzola di Segni New Generation Festival – a illustrarci nel dettaglio questa sinergia e la conseguente idea di perseguire azioni che favoriscano l’internazionalizzazione dello spettacolo dal vivo; un’internazionalizzazione che vede i festival italiani – e Kids in particolare – esercitare un’attrattiva speciale sugli operatori stranieri proprio in virtù della sua specifica “diversità” dai festival che si svolgono nel resto d’Europa, vuoi per la relazione con il contesto urbano di riferimento, vuoi per quella particolare cura e attenzione riservata agli ospiti di cui si faceva cenno in apertura.
E poi Kids, nel suo radicarsi come manifestazione che “investe” Lecce durante il periodo delle festività natalizie, si regge su una struttura che ha abituato il suo pubblico a determinate consuetudini, come l’appuntamento ormai fisso di In viaggio con le storie, tappa obbligata nelle mattine al Museo Ferroviario di quello che ormai è a tutti gli effetti un format, che peraltro da quest’anno si arricchisce – nella cornice orchestrata da Dario Cadei, imprescindibile interprete del folle e strampalato capostazione dalla chioma arruffata – della presenza di Chiara Saurio nei panni di una passeggera settentrionale particolarmente contrariata, smarritasi nella stazione di Lecce, snobbina anziché no e che rafforza le gag di contorno con una presenza assolutamente complementare a quella di Cadei, andando a rimpolpare una cornice che acquisisce sempre più vita propria, quasi fosse spettacolo ulteriore e autonomo all’interno del cartellone del festival. Le pantomime a fungere da collante, le trovate comiche a divertire il pubblico, come le locomotive agghindate per sposarsi tra di loro, abito da sposa lei (la locomotrice), un fiocco a papillon lui (il locomotore), le giocolerie di contorno, con i giovani Rocco e Jacopo a completare l’ossatura dello spettacolo che prelude alle narrazioni nei vagoni, all’interno dei quali le storie prenderanno vita sotto forma di narrazioni, ciascuna declinata nello stile proprio di chi la interpreta. E così ritroviamo Daria Paoletta e il suo I cento vestiti, una favola di Eleanor Estes che racconta una storia di estraneità e di emarginazione di cui è protagonista una bambina (Wanda), la sconosciuta arrivata in paese, la quale subisce il disagio di chi non si sente accettato in un contesto come quello scolastico, in cui tutti gli altri già si conoscono fra loro; la narrazione ha un bel ritmo, padroneggiata dalla Paoletta, abile nelle modulazioni vocali e brava nel creare quel giusto presupposto di attenzione e pathos per poi progressivamente dar voce a“emozioni e felicità”, parole chiave del suo racconto. Da un vagone all’altro, da Daria Paoletta a Maria Assunta Salvatore, che proprio dalla Paoletta sembra avere acquisito come per osmosi diretta gli stilemi narrativi (il rischio è di diventarne un calco troppo fedele). In un vagone dalle pareti spoglie e spartane, un merci d’altri tempi, prende forma una storia tratta da Gianni Rodari e incentrata sul presepe. Maria Assunta Salvatore, abilmente giocando tra sonno e veglia, trasportando la realtà del vero nella dimensione fantastica del fiabesco, dà vita e voce alle statuine presepiali per raccontare un piccolo melting pot che ricrea nel paesaggio della Natività i presupposti basilari di quel principio prettamente cristiano che rende l’uomo prossimo all’uomo.
Da un giorno all’altro (ma anche da un anno all’altro, visto che dal 30 di dicembre ritorniamo ai treni museali ai primi di gennaio), altri viaggi e altre storie: Voli in locomotiva di Massimo Gerardo Carrese, professione fantasiologo, è qualcosa di differente da uno spettacolo teatrale o da una narrazione; è più un gioco didattico condiviso, che stimola i piccoli spettatori a ragionare e a lasciar la fantasia libera di esplorare le possibilità di senso, di parole e concetti, tenendo presente che la parola magica della fantasia è “anche”, congiunzione che apre possibilità plurali al significato delle singole cose, per cui può accadere che il disegno stilizzato di un omino vada a comporre la parola treno e che dalle lettere di una parola ne sortiscano tante altre. Spettacolo non è, o se lo è, ne è una versione decisamente sui generis, ma svolge comunque la sua funzione, che è quella di interagire con un pubblico, di interessarlo e al contempo metterne in moto i meccanismi di decodifica e interpretazione della realtà. Realtà della quale la fantasia non è che estensione possibile, dimensione dilatata che allarga sensi e significati. Mentre narrazioni più classiche sono quelle di Fabrizio Pugliese, che racconta, col fido burattino Bertuccia (relegato però a mera funzione d’innesco narrativo), una storia di valore civile, intrisa del necessario fervore che serve quando si parla di mafia e sopraffazione e della necessità di non sottostare al giogo della prepotenza; e quella di Francesco Stefanizzi, che narra e interpreta L’anello magico, tratto da Italo Calvino, mettendoci del suo nell’impostazione del racconto: lo troviamo di spalle, calato sul capo il cappuccio della felpa, abbassato il quale dà principio alla narrazione; tiene bene, come ritmo e come tensione drammatica, mostrando nel condensato alveo di un racconto, le proprie potenzialità recitative, già intraviste nel succitato Hubu Roi.
Altro evento speciale che caratterizza quest’edizione di Kids è la presenza dei Teatri Mobili, un bus e un camion allestiti per ospitare gli spettacoli Manoviva e Antipodi, rispettivamente di Girovago e Rondella il primo e della Compagnia Dromosofista il secondo. Manoviva è un viaggio nella meraviglia, nella capacità di creare, con il semplice uso delle mani, un microcosmo funambolico, in cui le mani – Manin e Manon – rendono possibile il mirabolante, portando oltre l’immaginabile il teatro di figura, ancorché nella scala ridotta delle dita di una mano esibite su un piano d’appoggio.
Antipodi di Compagnia Dromosofista è invece una commistione di generi disparati, mescolanza di teatro di figura e musica, e conduce in un viaggio immaginifico che, nel tempo condensato e ristretto di una mezzora, conduce lo spettatore in un rutilante giro del mondo. Due generazioni contigue, in linea di continuità (anche famigliare) ma autonome, l’arte di strada declinata e rielaborata in uno stile assolutamente personale, in modi e forme che sanno in ogni caso regalare lo stupore all’occhio di chi guarda.


Gli spettacoli
Oltre al focus e agli appuntamenti fissi del Museo Ferroviario, ci sono gli altri spettacoli, che spaziano come d’abitudine fra i linguaggi più disparati, offrendo visioni di varia foggia e misura, provenienti dall’Italia e dall’estero. Il nostro Kids Festival lo cominciamo con La bicicletta rossa di Principio Attivo Teatro, spettacolo da tempo inseguito che finalmente riusciamo a raggiungere.
Scena ingombra di cianfrusaglie, masserizie di un interno povero e scalcinato, abitato da una famiglia che vive riempiendo di sorprese gli ovetti di cioccolata, nonna, padre e madre di una bambina in arrivo, “voce di dentro” narrante dall’interno dal grembo in cui è ancora chiusa. L’interno d’un baule in centro scena è letto per il piccolo Pino (che aspira ad avere in dono una bicicletta rossa), figlio della coppia, e talamo nuziale al suo esterno per i suoi genitori. Spettacolo che si dipana tra fiaba e poesia, secondo una cifra stilistica in cui risultano ormai riconoscibili uno stile e un’impronta, definiti da un modo di abitare la scena e di concepirne la concezione drammaturgica (in una parola: una poetica), che si lascia apprezzare per l’immaginario che evoca e per il patrimonio ideale che lo permea; patrimonio ideale che, nella fattispecie, finisce per avere un valore ‘politico’ nell’accezione più simbolica possibile e che appare quasi essere presago (lo spettacolo è del 2011) di quei rivolgimenti e di quelle istanze che negli scorsi mesi hanno visto le piazze affollarsi di ”Sardine”, e questo al di là dell’opinione che si possa avere sul movimento di Santori & co., ha rappresentato comunque un momento in cui si sia cercata e sia emersa una forma di organizzazione e di aggregazione in risposta a una situazione sociale e politica stagnante. Chiaramente ne La bicicletta rossa il tutto è coniugato in una chiave più simbolica e favolistica, esasperando iperbolicamente i concetti, ambientando la vicenda in un microcosmo distopico i cui protagonisti sono angariati dal perfido Bankomat, “padrone delle stelle”, che guardarle con la luna piena costa il doppio e si rischia di vedersi confiscare le scarpe; il sogno di un bambino che desidera una bicicletta rossa (e l’espediente ch’egli adotta per averla in dono) è la chiave di volta che innesca una trama che possiede i tempi comici e i ritmi cadenzati della commedia slapstick, cui s’aggiungono giocolerie e trovate che funzionano come un congegno ben oliato, messo in scena da una compagnia affiatata e completato da uno sviluppo scenografico che corrobora con giochi d’immagini l’impianto poetico della storia, con la scena che s’allarga a un piano ulteriore mediante le proiezioni animate che prendono forma sullo sfondo. Reagire al male con la fantasia è il messaggio di fondo di una favola immaginifica nella quale una bicicletta rossa e un cielo stellato – che è di tutti, come potrebbe cantare Bobo Rondelli – bastano a essere felici; e la felicità va perseguita, a costo di necessitar rivolta.
A seguire, senza muoversi dalle Manifatture  Knos ma spostandosi da una sala all’altra, Varietà Prestige di e con Francesca Zoccarato: uno spettacolo deliziosamente vintage per le atmosfere che evoca, complicemente ammiccante nel coinvolgere il pubblico e nel cercare continuamente un’interazione tra scena e platea, sin dal principio (“Vedete la mia mano? Chi non la vede, non vedrà lo spettacolo!”, dice lei in apertura rivolta al pubblico, prima di ravviare i capelli ai bimbi delle prime file con un pettine dai denti larghi larghi). Diverte e suggestiona, mantiene un tocco leggero e ironico (ma nient’affatto frivolo) trasportando il giovanissimo uditorio in una dimensione che non è possibile che i piccoli conoscano (da Edith Piaf a Fred Buscaglione), a metà fra il cafè chantant e il night club, rielaborati in chiave marionettistica. L’oggettistica di scena contribuisce a creare quest’ambientazione d’altri tempi calata nel tempo presente: una valigia tenuta aperta con un bastone, un marchingegno con le marionette, un tavolino piccino con un microfono, un pianoforte giocattolo. Su questa scena in miniatura, la Zoccarato orchestra le sue marionette con una manualità notevole: una gestualità minuziosa disegna finanche la micromimica facciale delle sue creature, nonché ogni più piccola sfumatura corporale. Piace, diverte, sembra un’operazione di revival per il patrimonio musicale da cui attinge, ma mi aggrada l’idea che (forse) il primo contatto dei più piccoli con un mondo musicale – e più in generale culturale e artistico – lontano nel tempo e confinato in un passato ormai remoto, avvenga lasciando in loro una prima significativa traccia, legata alla gioia di un incanto che prima o poi potranno recuperare nella loro memoria fanciulla.
A concludere la fase dicembrina di Kids è Paloma di Michela Marrazzi, spettacolo che ritrovo a un anno e mezzo di distanza; visto a Trepuzzi durante l’edizione 2018 de I Teatri della Cupa, quand’era ancora soltanto uno studio, lo ritrovo diventato spettacolo compiuto. Ed è cambiato molto – diciamo pure tutto – a cominciare dalla creatura animata da cui prende il nome. Di quella bambola originale, più grezza per fattura, quella che è in scena imbracciata dall’attrice, conserva l’essenza e lo sguardo contristato, avendo però una forma vera e vivificante, come fosse creatura di carne e sangue pulsante; l’avevamo lasciata bambola ancora in fase di artigianato primario a cui andasse cucita addosso una storia allora solo in abbozzo, la ritroviamo che par cosa viva, che di una storia si fa portatrice tanto credibile da sembrar carne e non materia inanimata.
Sussiste un rapporto simbiotico tra la bambola e chi la muove: la voce della Marrazzi muta e si modula, come se l’anima umana trasmigrasse nel corpo della materia, l’uso di un ricco apparato simbolico condensa e amplia gli strati della narrazione, che non ha parole se non quelle delle canzoni che l’attrice in scena intona e qualche espressione biascicata dalla voce roca della vecchia Paloma, che pare vagheggiare il nome di un’assenza, solfeggiare appena il suono d’una parola filiale, forse un affetto strappato al seno materno e non più ritrovato, sicuramente l’impossibilità di smettere di cercarlo. E nel frattempo piangerne.
Paloma sembra incentrarsi sul sentimento del tempo, sul senso del caduco: in scena un attrice, un musico e un metronomo, una nuvola in alto che sa di cieli lontani che piangono mestizia, di Messico, nuvole e facce tristi dell’America, com’è triste la faccia e la voce di Chavela Vargas, le cui canzoni struggenti sono colonna sonora dello spettacolo, di lacrime e malinconie per il tempo che fugge, che scappa portandosi via gli affetti, lasciandosi alle spalle occhi gonfi di lacrime, come nuvole che annunciano pioggia. Paloma entra in scena con un rantolo, timidamente, quasi di soppiatto, come portandosi dietro la fatica di un vissuto, in realtà spingendola avanti quella fatica, o meglio portandola dentro, i suoi passi sono scanditi dal suono della fisarmonica di Mattia Manco, il quale a un tratto ferma il metronomo ch’egli stesso aveva fatto partire, per poi riavviarlo ancora, sospensione momentanea d’un tempo che invece si dilata nella percezione della donna. Parte Paloma negra, un bacio al medaglione che la vecchia porta al collo, mentre sul volto le sono impressi i solchi del tempo, rughe nelle quali c’è il riflesso delle pieghe di un’anima. Un’anima che si specchia nel proprio armamentario scenico, nel contenuto delle valigie che si aprono in successione: Paloma nella prima si rimira, persino divertita; gioca, danza, estrae oggetti, la cipria, una spazzola, un boa di struzzo: valigie contenitrici di storie e di ricordi, scrigni di vita, specchio di sogni vagheggiati e desideri infranti, o forse solo sospesi, come il tempo dell’attesa, in un’altra valigia una specie di lanterna magica: “Mamma”, suggerisce una voce, un album di famiglia, contenente las simples cosas, le cose semplici che riempiono una vita, mentre s’incastona un vezzo di rosso fra i capelli. Fino a che è la sua mano a fermare il tempo, a sospenderlo per la durata d’un lazzo col musicista che le è accanto. Impasta qualcosa di dolce, per un po’ sembra che anche la sofferenza sia sospesa, fino a concederle la tregua del sonno, fino al risuonare d’una sveglia: segnale d’uscita dai ricordi e di ritorno al presente. L’apparato simbolico s’arricchisce d’un elemento altro, macabro e scheletrico, che sembra suggerire un rituale magico e misterico. La fisarmonica è come un soffio di vento, sulle cui note s’evoca ancora il nome di Alfonso di quel bimbo forse smarrito, del quale un cavalluccio rosso si fa metonimia della perdita. Finisce in uno scroscio di pioggia, nelle note e nelle parole di una sorta di testamento spirituale: “Niña cuando yo muere no llores sobre mi tumba / Niña si tu me cantas, yo siempre vivo y nunca muero” e l’ultimo y nunca muero non proviene dalla voce dell’attrice ma affiora sulle labbra della bambola, padrona del suo tempo, dei suoi ricordi, delle sue speranze.
Paloma è spettacolo delicato, di grande potenza evocativa, che non ha bisogno di parole ulteriori per comunicare. Cerca ancora il proprio ritmo interno, che probabilmente acquisirebbe replicando, ma mostra già una forza poetica notevole, che arriva allo spettatore con tutto il proprio portato emozionale.
Dal vecchio anno al nuovo, all’Auditorium dei Teatini, nel cuore del centro storico di Lecce, assistiamo a Caro Orco, produzione di Accademia Perduta e Romagna Teatri, con Maurizio Bercini – decisamente dotato del physique du rôle, zazzera arruffata e aspetto che può instillare la suggestione del timore – a interpretare l’orco del titolo, famelico come ogni orco che si rispetti. Nera la scena, truce l’aspetto, Caro Orco è una storia semplice nella sua linearità (sin troppo lineare), che illustra con meccanismi evidenti e simbologie immediate (un filo di microfono che si snoda lungo la scena suggerendo un percorso, una casetta in miniatura che arriverà a prendere fuoco) il meccanismo ancestrale della paura, offrendo ai piccoli spettatori una chiave per esorcizzarla, per affrontarla, ma prima di tutto per conoscerla e riconoscerla. Il meccanismo della favola è chiaro e dichiarato (“C’era una volta un orco”) e il percorso narrativo di quest’apologo è coerente, ma lo spessore complessivo dell’impianto drammaturgico lascia il dubbio di qualche sviluppo perfettibile.
Cambiando totalmente registro e spostandoci sul piano della clownerie, al Teatro Apollo va in scena Pss... Pss... della Compagnia Baccalà, domiciliata in Svizzera e composta da Camilla Pessi e Simone Fassari, due clown che a ritmo di musica e senza (o quasi) alcun altro strumento che non siano i loro corpi danno vita a una girandola di giravolte e capriole, di giochi di abilità con il semplice ausilio di una mela, afferrandosi al volo e compiendo giochi d’equilibrio, in un susseguirsi di gag corporee a ritmo di musica e arrivando a interagire con il pubblico. Il tutto senza uso di parole, emettendo come unico suono proprio quel “pss… pss..” che è codice di complicità, richiamo alla collaborazione reciproca, promemoria di una simbiosi che più volte (quattro, se ho portato bene il conto) vedremo effondersi nel suggello di un abbraccio. Unico oggetto “esterno” portato in scena una scala, che – ribaltata sottosopra – si trasforma in inaspettato strumento (anche musicale) d’estemporanea giocoleria, con i fori presenti sui suoi lati che si trasformano come per incanto nelle camere d’aria di inusuali strumenti a fiato, nei quali Simone e Camilla modulano suoni. È un gioco d’equilibri tra pieni e vuoti, il loro, in uno spazio amniotico nel quale si muovono come in un habitat naturale. Come vuota è la scatola del gioco una volta che è finito, ma pieno è il piacere che restituisce la visione e che rimane stampigliato sul viso di chi vi assiste sotto forma di un sorriso che è un misto di divertimento e tenerezza.
Due gli spettacoli che rivedo: Mattia e il nonno e Diario di un brutto anatroccolo. Al primo s’era assistito in condizioni di calura proibitiva alla Casetta della Cultura di Novoli durante la scorsa edizione de I Teatri della Cupa; rivederlo a Manifatture Knos, in condizioni “dignitose” (ché in quel fin di luglio l’afa torrida ci aveva accomunati in un unico bagno di sudore fra piccolo palco e platea gremita) mi dà modo di averne una percezione migliore e più compiuta, una nuova visione che restituisce ai miei occhi non solo l’immagine di uno spettacolo ben fatto – quale non era potuto essere del tutto la scorsa estate per le penalizzanti condizioni della messinscena – ma anche il valore aggiunto di sfumature e dettagli percepibili con maggiore evidenza; come già ebbi a scrivere, la favola funziona e regge per sua intrinseca natura e suo proprio valore, ma da questa nuova visione ne risultano ben più efficaci sia l’interpretazione di Ippolito Chiarello che l’impostazione registica, la quale beneficia di un disegno luci semplice ma efficace che connota di coloriture tenui, essenziali ma significative alcuni dei momenti chiave della narrazione. È una regia sostanzialmente diversa rispetto a quelle alle quali ci ha abituato Tonio De Nitto, che meno concede al proprio immaginario poetico per rimanere discosto e mettersi di fatto al servizio della fiaba e dell’attore che la interpreta, come eclissandosi, mantenendo la delicatezza di un occhio che sovrintende, evitando che la mano sovrabbondi ma al contempo maneggiando con tatto il lavoro. Il risultato, grazie anche all’interpretazione intensa e precisa di Chiarello, è una messinscena di grande delicatezza, che racconta con garbo rarefatto un tema altrimenti scabroso come quello della morte, nella percezione che può averne un bambino quando la incontra per la prima volta. Lo fa con la convenzione della fiaba, per cui quel che è non è ciò che appare, così come la morte, che per Mattia si trasforma da esperienza tragica in rito di passaggio, in trasmissione di un’eredità immateriale, per cui portiamo chi amiamo sempre con noi, anche quando smette di vivere, anche quando quell’involucro chiamato corpo, come l’esuvia di un insetto, cessa di vivere, la sua anima perdura nel cuore dei suoi cari e “una persona che amiamo resta per sempre con noi”.
Su Diario di un brutto anatroccolo non mi dilungo, avendone già scritto a suo tempo, se non per confermare che è (resta) uno degli spettacoli del cuore, che rivedo sempre con gioia e non senza provare un istintivo moto di commozione ad ogni nuova visione. Nella fattispecie, rispetto al passato lo rivedo privo di Ilaria Carlucci, sostituita da Michela Marrazzi, senza che la resa scenica dello spettacolo ne risenta. Con la stessa compagine attoriale avrebbe dovuto debuttare a Kids anche Peter Pan, il nuovo spettacolo di Factory; purtroppo l’assenza della Carlucci e l’impossibilità di rimpiazzarla in tempi brevi e contingentati ha impedito che lo spettacolo avesse luogo, lasciandoci con una curiosità sospesa e in attesa di poter essere in futuro appagata.
Rimanendo in tema di delicatezza, Ali della Compagnia La Ribalta di Bolzano, spettacolo diretto da Antonio Viganò, ne è pregno. Si tratta di un lavoro “storico” della compagnia, eppure non si può dire che vi si sia posata su la patina del tempo. Una scena ingombra di pietre a ricordare la durezza della vita e del lavoro necessario per condurla, un angelo aptero, che sembra aver lasciato le proprie ali nel cielo sopra Berlino, discende dall’alto di un palo della luce e interagisce con un uomo dall’animo disilluso (“Qui non c’è più niente da imparare”). Tra i due s’instaura un gioco che è anche una sfida, sembrano a tratti due anime beckettiane senza nemmeno un Godot da aspettare, in un deserto umano e naturale, arido e brullo. Esistenze sospese che s’incontrano, tra la diffidenza dell’uno e il candore dell’altro, all’ombra lunga e sottile di un palo confitto nel terreno, in un campo dall’apparenza sterile, ma da provare comunque a coltivare, per rompere la durezza della pietra e scoprire la leggerezza delle piume. La musica struggente di Tenco a sottolineare e suggellare l’incontro di due anime capaci di rompere l’iniziale incongruenza comunicativa e di colmare l’apparente distanza tra le rispettive istanze, fino a giungere a un connubio che essenzialmente dimostra, con la delicatezza della poesia, che nel fondo dell’umano alberga comunque un afflato chiamato vita, anche quando l’apparenza potrebbe suggerire il contrario.
Di tutt’altra fattura è invece Tarte au chocolat, degli austriaci di Mezzanin Theater, una commedia slapstick dai toni estremamente godibili, giocosa e gioiosa, giocata sui meccanismi della comicità immediata, incentrata sui pasticci compiuti da due clown, Erwin Slepcevic e Jean-Paul Ledun, uno “muto” e l’altro che riesce a esprimersi in un italiano abbastanza comprensibile, ancorché approssimativo e reso ancor più comico dalle immancabili storpiature, i quali si arrabattano in una serie di disastrosi procedimenti per preparare una torta al cioccolato. È uno spettacolo all’insegna della leggerezza, Tarte au chocolat, che raggiunge pienamente il proprio scopo: regalare un’oretta di puro divertimento all’insegna dei più tradizionali e atavici stilemi della comica tradizionale, quella per intenderci che suscita il riso quando vediamo un uomo scivolare su una buccia di banana. La genuinità della fattura e la riuscita dell’intento fanno sì che si perdoni con facile indulgenza la non perfetta pulizia dell’esecuzione dei due clown, che di contro regalano momenti di grande ilarità raccogliendo la partecipazione entusiasta degli astanti.
Venendo a note meno esaltanti, spettacoli che ho trovato al di sotto delle aspettative sono stati quelli collocati nell’ultimo segmento del festival. Per ragioni differenti, Il grande gioco di Simone Guerro, Joseph Kids di Alessandro Sciarroni e De(s)presso di Michele Comite mi hanno lasciato più di una perplessità. Il grande gioco di ATGTP parte da un presupposto interessante, il rapporto tra due fratelli, in un tempo reso stringente dall’incombere di una malattia. Tra i due s’instaura un rapporto in forma di gioco scandito da una lista di cose da fare insieme, una sorta di decalogo che renda pieno il tempo condiviso, abitandolo di tutto l’affetto che sia possibile condensarvi; purtroppo lo spettacolo sconta una certa staticità scenica e una sostanziale assenza di ritmo che lo appesantiscono rendendone faticosa la visione e inficiando l’efficacia del plot, efficacia che rimane tutta in potenza, senza potersi poggiare su scelte registiche veramente significative.
Discorso diverso per Joseph Kids di Sciarroni, uno spettacolo basato su un’interazione tra schermo, musiche e atti performativi che resta confinato nell’alveo di una concettosità piuttosto astrusa. A spanne potremmo dire di averci letto un tentativo di indagare i meccanismi proiettivi della solitudine contemporanea, in cui i rapporti sono mediati da schermi e filtrati da stimoli sensoriali (musiche ed effetti visivi). Mi chiedo – senza riuscire a trovare adeguata risposta e scrutando di sottecchi anche certa perplessa freddezza nel pubblico anche più giovane – quale possa essere la capacità di penetrazione di un tale messaggio che ambiziosamente ci si propone di veicolare e trasmettere a un pubblico di ragazzi. E non solo a loro.
Anche per quanto riguarda De(s)presso, lo spettacolo di Michele Comite che chiude il festival, sono più le ombre che le luci: il tentativo è quello di raccontare attraverso la forma del teatro uno dei mali del nostro tempo, la depressione. In scena un uomo e una donna (lo stesso Comite e Alessandra Carraro), una piccola porta rossa dagli stipiti neri e due enormi tazze. Se il valore simbolico della scena può essere facilmente interpretabile (la porta come elemento di passaggio tra la normalità e gli stati depressivi, le tazze come due gusci nei quali sprofondare e rintanarsi, oltre che elementi che richiamano allusivamente al gioco di parole “caffeinoso” del titolo), è nello sviluppo drammaturgico che De(s)presso mostra il limite di un congegno che funziona a intermittenza e che fatica a raggiungere un approdo concreto ed efficace.
In conclusione – e complessivamente – Kids si conferma un appuntamento qualitativamente elevato col teatro (senza apposizioni ulteriori), un festival dal quale si va via felici d’esserci stati, contenti di ciò che s’è veduto e un po’ più ricchi per quel che s’è imparato. E forse anche un po’ più consapevoli e capaci di prenderci cura del bambino precocemente adultizzato che c’è in noi, del cui candore e del cui stupore troppo spesso non ci accorgiamo di esserci colpevolmente dimenticati.





Kids Festival
Lecce, dal 27 dicembre 2019 al 6 gennaio 2020
direzione artistica Tonio De Nitto, Raffaella Romano
direzione organizzativa Tonio De Nitto
organizzazione e promozione Francesca D'Ippolito, Michela Marrazzi, Raffaella Romano, Giovanna Sasso, Adamo Toma
collaborazione Chiara Melorio, Silvana Pollice, Antonella Sabetta
progetto grafico Alessandro Colazzo / sacodesign.it
allestimento spazi Dario Cadei
responsabile tecnico Davide Arsenio
collaborazione tecnica Paolo Mongelli, Matteo Santese
coordinamento volontari Francesca Russo
coordinamento Kids Village Silvia Lodi
foto e video Eliana Manca


La bicicletta rossa
drammaturgia Valentina Diana
regia Giuseppe Semeraro
con Giuseppe Semeraro, Silvia Lodi, Otto Marco Mercante, Dario Cadei, Cristina Mileti
scenografie Dario Cadei
costume designer Cristina Mileti
suoni Leone Marco Bartolo
produzione Principio Attivo Teatro
paese Italia
lingua italiano
durata 55’
Lecce, Manifatture Knos, 29 dicembre 2019
in scena 29 dicembre 2019 (data unica)

Varietà Prestige
Lo spettacolo in carne e legno! Marionette a filo e clownerie
di e con Francesca Zoccarato
regia Dadde Visconti
marionette Jan Ruzicka
produzione Compagnia Francesca Zoccarato
paese Italia
lingua italiano
durata 1h
Lecce, Manifatture Knos, 29 dicembre 2019
in scena 28 e 29 dicembre (Manifatture Knos), 30 dicembre (Sala Polivalente Rione Casermette)

In viaggio con le storie
con Dario Cadei, Chiara Saurio
e con Rocco e Jacopo
I cento vestiti
di Eleanor Estes
con Daria Paoletta
paese Italia
lingua italiano
durata 30’
Lecce, Museo Ferroviario, 30 dicembre 2019
in scena 30 e 31 dicembre 2019

Allarme nel presepe
tratto da Tante storie per giocare
di Gianni Rodari
con Maria Assunta Salvatore
paese Italia
lingua italiano
durata 30’
Lecce, Museo Ferroviario, 30 dicembre 2019
in scena 30 e 31 dicembre 2019

Paloma
di Michela Marrazzi
con Michela Marrazzi (puppet), Mattia Manco (musica)
elementi di scena Simone Tafuro
costumi Lilian Indraccolo
con la collaborazione artistica di Tonio De Nitto, Nadia Milani
si ringraziano Laura De Ronzo, Blablabla, Raffaele Scarimboli
produzione Factory Compagnia Transadriatica, Teatro Koi
paese Italia
lingua spagnolo
durata 50’
Lecce, Teatro Asfalto, 31 dicembre 2019
in scena 30 e 31 dicembre 2019

Caro Orco
di Manuela Capece, Davide Doro
con Maurizio Bercini
collaborazione artistica Marina Allegri
realizzazione Ca’ Luogo d’Arte, Compagnia Rodisio
produzione Accademia Perduta – Romagna Teatri
paese Italia
lingua italiano
durata 45’
Lecce, Auditorium Convento dei Teatini, 2 gennaio 2020
in scena dal 2 al 4 gennaio 2020

Teatrobus
Manoviva
produzione
Teatri Mobili Girovago & Rondella
paese Italia
lingua spettacolo senza uso di parola
Lecce, Piazzale Basilica San Domenico Savio, 2 gennaio 2020
in scena dal 2 al 6 gennaio 2020

Pss... Pss...
di e con
Camilla Pessi, Simone Fassari
regia Louis Spagna
collaborazione artistica e coordinamento Valerio Fassari
disegno luci Christoph Siegenthaler
produzione Compagnia Baccalà
paese Svizzera
lingua spettacolo senza uso di parola
durata 1h 5’
Lecce, Teatro Apollo, 2 gennaio 2020
in scena 2 e 3 gennaio 2020

In viaggio con le storie
con Dario Cadei, Chiara Saurio
e con Rocco e Jacopo
Voli in locomotiva
di e con Massimo Gerardo Cassese
paese Italia
lingua italiano
durata 30’
Lecce, Museo Ferroviario, 3 gennaio 2020
in scena 3 e 5 gennaio 2020

L’anello magico
ispirato al racconto di Italo Calvino
con Francesco Stefanizzi
paese Italia
lingua italiano
durata 30’
Lecce, Museo Ferroviario, 3 gennaio 2020
in scena 3 e 5 gennaio 2020

Bertuccia, Bertuccino e Mammasantissima
di e con Fabrizio Pugliese
paese Italia
lingua italiano
durata 30’
Lecce, Museo Ferroviario, 5 gennaio 2020
in scena 3 e 5 gennaio 2020

Mattia e il nonno
dal racconto di Roberto Piumini
adattamento e regia Tonio De Nitto
con Ippolito Chiarello
musiche originali Paolo Coletta
costume Lapi Lou
luci Davide Arsenio
tecnico Matteo Santese
produzione Factory Compagnia Transadriatica, Fondazione Sipario Toscana
in collaborazione con Nasca Teatri di Terra
paese Italia
lingua
italiano
durata 1h
Lecce, Manifatture Knos, 3 gennaio 2020
in scena 2 e 3 gennaio 2020

Ali
testo
Gianluigi Gherzi, Remo Rostagno, Antonio Viganò
regia Antonio Viganò
coreografie Julie Anne Stanzak (Tanztheatr Wuppertal)
direzione di produzione Paola Guerra
con Michael Untertrifaller, Jason De Majo
produzione Teatro la Ribalta, Kunst der Vielfalt, Lebenshilfe Sűdtirol
in coproduzione con Le Grand Blue
paese Italia
lingua italiano
durata 55’
Lecce, Manifatture Knos, 3 gennaio 2020
in scena 3 gennaio 2020 (data unica)

Diario di un brutto anatroccolo
da Hans Christian Andersen
adattamento e regia Tonio De Nitto
con Michela Marrazzi, Francesca De Pasquale, Luca Pastore, Fabio Tinella
collaborazione al movimento coreografico Annamaria De Filippi
musiche originali Paolo Coletta
scene Roberta Dori Puddu
costruzione oggetti Luigi Conte
costumi Lapi Lou
sarta Maria Rosaria Rapanà
luci Davide Arsenio
organizzazione Francesca Vetrano, Giovanna Sasso
produzione Factory Compagnia Transadriatica, TIR Danza
paese Italia
lingua
spettacolo senza uso di parola
durata 1h
Lecce, DB D’Essai Cinema e Teatro, 4 gennaio 2020
in scena 4 gennaio 2020 (data unica)

Tarte au chocolat
regia Martina Kolbinger-Reiner
con Erwin Slepcevic, Jean-Paul Ledun
produzione Mezzanin Theater
paese Austria
lingua italiano
durata 55’
Lecce, Manifatture Knos, 4 gennaio 2020
in scena 4 e 5 gennaio 2020

Il grande gioco
di Silvano Fiordelmondo, Simone Guerro, Francesco Niccolini
regia e scrittura scenica Simone Guerro
con Silvano Fiordelmondo, Fabio Spadoni
editor teatrale Francesco Niccolini
light designer Michelangelo Campanale
costumi Maria Pascale
musiche originali Emilio Marinelli
produzione ATGTP
paese Italia
lingua italiano
durata 50’
Lecce, Manifatture Knos, 4 gennaio 2020
in scena 4 gennaio 2020 (data unica)

Joseph Kids
di Alessandro Sciarroni
con Michele Di Stefano, Marco D’Agostin
produzione Compagnia Alessandro Sciarroni
paese Italia
lingua spettacolo senza uso di parola
durata 30’
Lecce, Manifatture Knos, 5 gennaio 2020
in scena 5 gennaio 2020 (ore 18:00 e ore 20:30)

Camionteatro
Antipodi

produzione Teatri Mobili Compagnia Dromosofista
paese Italia
lingua spettacolo senza uso di parola
durata 30’
Lecce, Piazzale Basilica San Domenico Savio, 5 gennaio 2020
in scena dal 2 al 6 gennaio 2020

De(s)presso
drammaturgia e regia
Michele Comite
con Alessandra Carraro, Michele Comite
coreografie Jemima Hoadley
costumi Chiara Defant
audio Christian Marchi
scenografie Sergio Debertoli
produzione Collettivo Clochart
paese Italia
lingua italiano
durata 50’
Lecce, Manifatture Knos, 6 gennaio 2020
in scena 6 gennaio 2020 (data unica)

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