“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 21 February 2020 00:00

Malacarne, Malarazza, Malammore: Malacrescita

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Malacrescita

Accoglie di spalle, il suo pubblico in sala, Mimmo Borrelli, attendendo che prenda, rumorosamente, posto. Avviluppato in una palandrana dickensiana, sdrucita, quadrettata come un tartan, spia di sottecchi, divertito, gli occhi piccoli, incastonati fra le guance floride. Lo spettacolo inizia. Sarà una lunga cavalcata, una tirata via (It’s just a ride, per parafrase Bill Hicks), che, come una rete a strascico, calerà sugli spettatori e li strattonerà via dalle loro sedie, scarnificandoli d’ogni certezza, investendoli con la sua irruenza. Comincia a disegnare dei giri sul palco, Mimmo Borrelli, circumnavigando un pentacolo di bottiglie vuote (verdi, quelle delle passate, delle sarse che, ogni agosto, come un rito, si rinnova, ancora, nelle case di alcuni meridionali), come i fortini che i bambini improvvisano, con gli oggetti da casa, per giocare.

Come farebbero i due protagonisti del testo di Borrelli, Malacrescita, andato in scena per partenogesi, spin off non voluto (anch’esso), appendice indesiderata del più impegnativo La Madre. A uno di questi figli, poco benaccetti, Borrelli presta la voce. Una voce interrotta, flautata, singhiozzante. Una girandola di suoni, una gragnuola di rime: è il coro greco a una voce dei due gemellini, il verboso biascicante e l’afono melomane. Davanti al fiume impetuoso che zampilla dalle labbra inghirlandate di questo logorroico Marx del teatro proletario, si rischia di perdersi il lavoro minuzioso dei piccoli gesti, dei tic, che infonde ai suoi personaggi. Lo si nota appena, ma un solo mignolo irrigidito, in un pugno malchiuso da muscoli traversati da nervi accavallati, è in grado di trasmettere il disagio di questi due protagonisti. Figli non voluti, eredi controvoglia, e in quanto eredi, sempre sopravvissuti, costretti a espiare il peccato della madre anziché del padre (o d’entrambi), rivivendone sulla propria carne storpia la loro storia. Ricomponendola. Riproponendola. Perpetuandola. In un farfuglio sfarfallante di bestemmie che sorgono negli anfratti d’un sottobosco dal fitto intrico di un dialetto sibillino (nel senso più cumanoide del termine: il bailamme sonoro che rievoca, in un’unica voce flautata, le sfumature che si rincorrono fra Bacoli e Cappella, Torregaveta e Pozzuoli, con inflessioni portate anche da molto più lontano, dal mare). I gemelli, dionisiaci per imposizione materna, apollinei nei soli interstizi cui la lucidità, talvolta, è capace di ricacciargli, sono condannati a questa riproposizione, che è poi la pena dell’attore, ripercorrendo, sempre uguale eppure sempre distinta, la loro stagione infernale, come dannati pungolati dal pubblico/Dante, al suono dell’orchestrina umana, Antonio Della Ragione. Alla fine di vari giri intorno all’emiciclo, come quelli degli ebrei ortodossi prima di pronunciare la loro tziddùq Ha-din, Borrelli, la mente incriccata, scattosa, la lingua sciolta, zigzagante, che vagola un volo impazzito, à la David Helfgott, infine, comincia. I versetti si ordinano, come lacrime di formiche, e cominciano a descrivere. La storia di una donna. Sciagurata. Moderna Medea, già predestinata alla (con-)dannazione in quanto donna, da una natura arcigna e patriarcale che, a ricordarle la sua eterna dannazione, le rovescia contro l’indebita piaga lunare d’una mutilazione che ogni mese, sanguinolentemente, si rinnova come stimmate laica fra le cosce (mai fidarsi d’un animale che sanguina ogni mese senza mai morire, diceva qualcuno. Perché questo stillicidio lo tempra, rendendolo rotto a qualsiasi cimento, si aggiungerebbe, e infatti la Medea di Borrelli di forza ne ha tanta. Anche troppa. La forza disperata di chi dispera d’ogni speranza, e quindi si disfa di scrupoli, istinti e inibizioni: una Giovanna D’Arco, invasata baccante che si fa Nemesi, erinni vendicatrice di sua propria mano). A partire dal primo sangue del mestruo, che si manifesta in un giorno di festa, quale una gita scolastica, anzitempo. Ma la dannazione si perpetua con l’interruzione del ciclo. Un ciclo interrotto da qualcosa di più bestiale ancora della natura: dall’uomo, col suo machismo predatorio. L’uomo che non ama ma brutalizza, che possiede, posseduto, la smania al possesso. Se alla donna è dato il compito di creare, la controparte è l’uomo, che ha quella di distruggerla, perché se è vero che in natura nulla si crea ma tutto si trasforma, le trasformazioni generatrici richiedono una componente distruttiva. Nulla è insignificante per lui, che ambisce a tutto ghermire, e per il quale ogni essere è propaggine di sé. I rapporti al centro della sua costellazione relazionale sono tutti improntati alla violenza, sono tutti simbolici della sua pochezza, che sfoga in una brama animale. Un po’ Giasone un po’ Sandokan, la irretisce solo per tradirla, e al sangue del ciclo che non si rinnova, fa fiorire il sangue delle botte che impone alla sua signora, reclusa in casa, fino a che non partorirà, controvoglia, quei figli che ama e odia e che maledice, non con la morte e lo smembramento, ma con la vita, una vita perversa cui li condannerà, pervertendoli con un altro liquido, rosso ancora, l’unica scappatoia cui sgattaiolare a quell’inferno domestico: il vino. Beoni ante-litteram, il duo bacolinese/cappellese/torregavetese di Tessalo e Alcimene, è condannato, come Sisifo, a girare a vuoto il proprio disco, fino all’esaurimento della testina sul microsolco. Per descrivere la fiumana scalpicciante, il mumure farfuglio di Borrelli, il suo verboso maelstrom, si sono spese le più idriche metafore: ruscellante, strabordante, torrenziale, malmostoso. E tutto ciò risponde al vero, e rende l’idea di questa matassa di pensiero, denso, aggrovigliato, che sbobina contro di noi, tessendone e smembrandone la trama, con la padronanza d’una Penelope all’arcolaio. Ma forse più nascosto all’orecchio è l’altrettanto inclita prossemica: affettando una propriocezione assoluta, infatti, Borrelli è capace, nel continuo avvicendarsi, nelle scatole cinesi di una serie di alter ego che dialogano fra loro, di mutar d’aspetto come d’inflessione, di voce come d’abito, dalla gestualità alla corporeità. E allora abbiamo una Medea che ricorda, col suo falsetto, le lavandaie en travesti de La gatta Cenerentola desimoniana, un feroce Saladino, più che levantino, acchittato come il più becero dei balordi gomorriani. La luce che irradia dall’interpretazione multisensoriale di Borrelli è tale che, come un’aura, si spande, rendendo i pochi oggetti di scena, complice la luce spiraliforme che li avviluppa, allungando le ombre gettanti, come fiotti, di fuochi fatui o aurore che gli tingono la pelle, plasma la nostra immaginazione, disegnando, nell’oscurità, quel fondale sul quale si muove.
Storditi e stravolti, spossati e straniti, s’esce sconvolti, ma mai indifferenti. Altri performer sono in grado, con la loro affabulazione, d’interpretare più ruoli che si interconnettono (il Bergonzoni di Vanvara e Bastiana: le Moccole di Madornale 33), di giocare con dialetti e vocalizzi, pretendendo, con un cambio d’abito, di forzare il patto d’incredulità dello spettatore, lanciandolo verso le acque alte dove la narrativa si fa più audace (l’Alessandro Rezza di Pitecus), e altri illustri predecessori si sono divertiti a smontare e rimontare, come in un incidente stradale alla moviola, una mezcla di dialetti (le giullarate di Dario Fo, col suo grammelot), ma Borrelli strattona, più che prendere per mano, il suo pubblico, spingendolo ancor oltre, verso nuove colonne d’Ercole. Oltre i confini linguistici, oltre gli asfittici sentieri degli echiani boschi narrativi, egli, nel termine più letterale, crea, perché egli poeta, decanta versi. E i versi non si possono spiegare, non possono descrivere, ma evocano, lirici, ci perdono e ci restituiscono. La declamazione di versi, infatti, è qualcosa di ancestrale, un rito, da cui non ci si fa attraversare per capirlo, ma per esserne cambiati. E allora, nella sua danza circolare attorno al palo della tortura cui, come dei San Sebastiano martire, egli ci trasfigge coi suoi versi come strali, quello a cui Borrelli ci sottopone è qualcosa di magico, anzi, di psicomagico. Egli ci intrattiene, con ritmo cadenzato, con la sua danza sul posto, col suo ruminare versi ininterrotto, cambiando di registro, come fosse uno sciamano. O un pazzo (uno juodivyi?). O un poeta (la forma d’arte più alta, e non a caso, in tempi desacralizzati e dissacranti come quelli odierni, la meno praticata, perché ogni verso è la mano tesa d’un uomo verso un altro, mosso dalla sola agape e da nessun altro interesse). Tutti e tre sono considerati emissari divini, perché capaci, con la sola parola, di portare verso l’estasi il loro uditorio, quando spegne l’interruttore della razionalità, e si lascia condurre da quel monsone di sensazioni.



Incontro aperto fra Borrelli e il suo pubblico
(prima parte)

‘Cantare è in versi dire ciò che mai nessuno vorrebbe udire’, diceva Goethe (un instancabile Mimmo Borrelli si schiude al folto pubblico riunitosi all’Asilo per incontrarlo, andando a recuperare una prassi perduta − quando non distorta a fini commerciali − con la quale gli autori, a fine spettacolo, incontravano il proprio pubblico per aprirsi al confronto – vedi il teatrocanzone di Gaber o i dialoghi al teatro Gobbetti di Pasolini – magari anche in zone extrateatrali – vedi Rame&Fo che portavano i loro spettacoli nelle fabbriche okkupate –. Secondo alcuni, il più grande drammaturgo vivente, con all’attivo opere come ’Nzularchia, ’A Sciaveca, Opera pezzentella, La Madre, Napucalisse, La Cupa, Mimmo è stato disponibilissimo sin da quando gli è stato proposto l'incontro – ‘dimmi cosa posso fare per te’?, sono state le sue testuali parole – in particolare, poi, all’Asilo – ‘mi fa molto piacere andare all’Asilo’, ha, infatti, proseguito − n.d.a.). “L’altro al giorno, al Nuovo, una signora, uscendo da Malacrescita, mi chiese se poteva avere il testo, perché non aveva capito. Le dissi che il 70% del testo era in italiano. Le feci anche un esempio. È tutto italiano. Ma è poesia. Almeno tenta, l’autore” [Borrelli, nel corso dell'incontro, farà più volte riferimento a se stesso, come frutto d’una scissione interna, fra l’io autore e l’io attore, oltreché l’io regista, prediligendo, di gran lunga, iperprotettivo, il primo, che ha un lavoro, forse, più fatigante e meno riconosciuto e visibile, ma dal quale tutto discende, n.d.a.], “in modo velleitario, di usare la poesia. E perché” [qui, Mimmo farà solo la prima d’una serie lunghissima, fra premesse che sente doverose e digressioni, con cui infarcirà il suo ‘Manifesto’, n.d.a. Infatti, s’affretta a precisare]: “Le cose che sto dicendo, magari qui dentro possono avere un senso, può essere verità, ma fuori non vale un ca... Lo dico proprio perchè devo dirlo ma non è che le mie cose sono legge, anzi, ci mancherebbe, io sono sempre sulla fragilità e sul pericolo”.



Il rapporto con Napoli. Vedi alla voce: Napucalisse

“Io vengo dai Campi Flegrei, zona che, si sostiene, a Nord di Napoli, ma in realtà è Napoli a Nord di Bacoli [comincia così, con un incipit da rivoluzione copernicana flegreocentrica, l’incontrofiume, n.d.a.]. Bacoli è a sud persino di Napoli [tutti sono a sud di qualcun altro, si diceva, n.d.a.]. Solo un po’ più spostata verso ovest. A Napoli ci sono andato, da solo, dai diciassette anni in poi. Quando prendevo la Cumana (che, all’epoca, funzionava, era un mezzo che, storto o morto, passava ogni venti minuti. E infatti fino a ventisette anni non avevo la patente. E poi c’era la SEPSA che passava a mezzanotte e mi consentiva di attraversare tutti i teatri che ho navigato” – quindi, indirettamente, Mimmo forse non lo sa, ma sta rispondendo a una domanda che si faceva Fofi, anch’egli, cantore esterno di Napoli: “Qualcuno ha mai cantato i trenini napoletani, la Circumvesuviana, la Cumana, la stazione di Montesanto?”, specie considerato che Borrelli un suo spettacolo l’ha ambientato e materialmente eseguito su un treno – “mia madre mi diceva ‘stai molto attento’. E dire che non siamo che a ventiquattro chilometri da Napoli, eh. Mio padre, invece, mi dice sempre: ‘Se vai a Bacoli, cammina sempre rasente, spalle al muro, perché è facile che te lo metten...’, ma ‘se vai a Napoli, cammina propr 'a cul' pe' terra, pecché po' succerer' n'accoltellament' e pure n'a guerra’, direbbe poi, il poeta, che ogni tanto cito. Ho preso ad andarci, quando ho cominciato a fare teatro più continuativamente. Penso a Il Pozzo e il Pendolo, Sala Ichòs” [che ha inagurato il primo degli incontri con teatranti, quest’anno, all’Asilo, annunciando, purtroppo, la fine del suo percorso, dopo più di vent’anni di onorata persistenza, n.d.a.]. “Ci andavo, spesso, in verità, pure per lo stadio, perché, purtroppo, ho una fede, e le fedi sono sempre dannazioni (secondo me), specie per uno sport assolutamente corrotto e ‘dannato’ che è il calcio (dicendo ‘dannato’, ovviamente, si intuisce anche per quale squadra io tifi)”.
“Il rapporto con la città di Napoli, è quindi sempre stato da osservatore esterno. Da dirimpettaio, ecco” [come l’Eduardo di Questi Fantasmi con il prof. Santanna, n.d.a]. “Da chi a Napoli ci vive sempre ’e travers’, dico io. Ma anche fatto di timore e rispetto, perché fin da piccolo, io, nella mia memoria feticcio per la mia infanzia e adolescenza, da aprile in poi mi trasferivo, concretamente, con la mia famiglia... a trecento metri, sulla cabina del mare. E lì, venivano i napoletani. E sulla cabina di mio padre, che era una persona molto accogliente, un grande narratore di storie, si avvicendevano persone di un ceto, di un rango, di una cultura elevata, ma anche persone – che erano quelle che interessavano più a me, per ascoltare i loro racconti e discorsi – della Napoli più popolare. Qulalche delinquente c’è passato da me. E mi ricordo queste collane d’oro (altro che laccettini: erano cciert’ iccose a form’ ’e bicchier’) che a me parevano delle catene, quasi una costrizione da portare, e infatti mi chiedevo come potessero indossarle” [come quella che, a un certo punto, il suo personaggio indossa in Napucalisse. Come quelle che porta Citti in Accattone quando, in procinto di gettarsi nel fiume, strilla: Voglio morì cò tutto l’oro addosso... come i Faraoni , n.d.a.].



Lezione storiografica di geopolitica flegrea

“Venivo denigrato dai miei compagni perché parlavo una lingua strana: venivo chiamato ‘cafone’. Poi, col tempo, ho scoperto che il cafone non ero io. Perché io vengo da Cuma: la prima città italiana, la prima polis greca fondata dagli Eubei, fra VII e VIII sec a.C., dove i calcidesi, partiti dall’Isola di Eubea, appunto, prima si trasferirono a Pitecusa, l’Isola delle scimmie, che era Ischia, da lì, poi, dopo un secolo, videro che c’era un promontorio dove poter fare la loro acropoli, perché era alto, poi somigliava a un’onda, da cui Cuma. E quei calcidesi, dopo due secoli, fondarono Napoli. Quindi o cafone nun song’ io ma so’ e’ napulitane.
Però mio nonno, sì, era napoletano. Borrelli, infatti, è un cognome non flegreo, ma che viene da Portici/Ponticelli. Si trasferì per lavoro. Io, infatti, sono figlio d’operai da tre generazioni” [da cui, probabilmente, la sentita rivendicazione d’un’appartenenza a uno schieramento politico di sinistra, da parte di Borrelli, come dirà più volte – mio padre era comunista, anche mio nonno, anche io lo sono, pur non avendo avuto la tessera del Partito perché purtroppo quando sono nato io a tredici anni esisteva già Forza Italia, ed era nu problema – Da cui, pure, un’innata predilezione verso gli ultimi, gli sfruttati, i marginali. Quelli che un tempo si definivano sottoproletari, proletari marginali o informali, o proletari tout court. Razza che pare estinta, attualmente, almeno dalle agende politiche e dal loro dizionario, nd.a.a]. “La nostra zona se è ricca, archeologicamente, come pure linguisticamente, piena com’è d’una varietà di dialetti, è anche militarmente e strategicamente forte: non a caso gli americani, se a Bagnoli ci hanno messo la loro N.A.T.O., più avanti, ci hanno messo una cosa più pericolosa ancora, che è l’Alenia di Baia, dove facevano i missili Scud, durante la guerra in Iraq. Selenia prima, poi Selex, ora Alenia, ancora presente. E quelle sono delle mura che io non ho mai valicato. Ed è la mia terra, eh”.



La trinità linguistica di Borrelli

“Con la lingua io ho avuto sempre un rapporto molto vivo. De Simone (che è un pozzo di scienza, oltre a essere un artista meraviglioso) diceva che, secondo alcune sue ipotesi, il dialetto de Lo cunto de li cunti fosse vicino al bacolese. Forse per una questione di isolamento, questa lingua si parla solo lì, perché è una zona che è rimasta molto tempo isolata a causa del terremoto. Fino agli anni Cinquanta non ci andava nessuno, e per questo sono rimasti questi dialetti arcaici. I dialetti di Napoli io li conosco poco. Parlando con Enzo Moscato, lui diceva che il dialetto di napoli cambiava addirittura di quartiere in quartiere, precedentemente, perché poi le distanze erano quelle. C’era gente della Sanità che non aveva mai visto il mare. Ed è vero. Se le persone non uscivano da quell’ambiente, loro parlavano una lingua, uno slang, una cadenza, di quel dialetto, che esisteva solo lì e non da altre parti”.

Il Bacolese
“I Campi Flegrei hanno tre dialetti particolarissimi (perché li ho scelti? l’esigenza non è mai poetica, romanzesca o narrativa. È un'esigenza attoriale l’utilizzo di un linguaggio così costruito): uno è il bacolese. Questa piccola penisola ha avuto prima una dominazione greca, poi successivamente sono venuti i latini, i Romani, che venivano qui a villeggiare (a Baia. La piccola Roma secondo Orazio). Sostanzialmente, non facevano che trasferirvi il Parlamento, e vi corrompevano con le prostitute e con le terme (cosa che si fa anche adesso). Fra il I e il II secolo, poiché questa terra, per un fenomeno unico al mondo (oltre al parco di Yellowstone), come una pentola a pressione, si gonfia e, con un movimento tellurico, sale e scende, i Romani andarono via. E non ci sono più tornati, difatti, in seguito, altre tracce storiche forti non ne abbiamo più. Le abbiamo a partire dal ’600, quando, nel 1492 con l’Editto di Cordoba, vi è la cacciata degli Ebrei dalla Spagna, con conseguente conversione degli Ebrei (pagavan’) in marranos (’e puorc’. Non a caso, a Bacoli, quando dobbiamo offendere qualcuno non diciamo ‘chill’ è proprio ’na chiaveca’, diciamo ‘chill’ è proprie nu puorc'’). Per tutta questa diaspora, c'erano gli ebrei di Napoli ma, con l'Editto di Napoli e di Toledo, mi sembra, 1511, si decise che quelli che potevano pagare potevano rimanere (ce serven’ ’e sord’), gli altri dovevano essere scacciati per non essere uccisi. Si affacciavano sulla Collina di Posillipo, da cui si vede, fateci caso, Misenum (dove, secondo la leggenda, il trombettiere d’Enea venne sepolto, poiché i romani ri-ambientavano tutte le storie della mitologia nei luoghi in cui vivevano)” [come ha fatto/faceva/non fa più/tornerà a fare? Borrelli col suo Efestoval, vedi infra, n.d.a.], “quindi si trasferirono a Bacoli e vennero lì per conservarsi, per isolarsi, per non essere perseguitati. Quindi, erano degli ebrei poveri, che avevano paura, e infatti noi abbiamo tutti cognomi strani: Guardascione: Guarda a Sion. Salemme: Shalom. Ma la cosa più interessante è (vedo qui la figlia di Nicola De Blasi, il più grande esperto di napoletano al mondo, mio grande amico, il quale mi confermò questa mia teoria secondo cui) la cantilena di Bacoli, che è unica in tutta la Campania – Allora, uagliù, se voi mettete un pugno intorno a Napoli, a Napoli è tutto più aperto. Nell ’600, il cane, in napoletano seicentesco, era lu can’, in napoletano settecentesco diventa, lo cane, attualizzato, o can’. Aperto. A Napoli, e in tutta la Campania, se fate un raggio, si usa, il seicento, lu can’, cade la elle e si usa la u. Il genitivo la casa di Michele, a Napoli è ’a casa ’e Michele, a Bacoli è ’a casa ’i Michele. Ma la cosa più incredibile, secondo me, è – ebbene, che questa cadenza è simile, per queste origini ebraiche, alla Torah (io ascolto anche la Torah, a volte, per mie idiozie mentali, anche perché credo di essere un artista, che non sono, e se mio padre esiste ppe' scagno, io devo esistere recitando...  e chiste è nu problema, dovuto all’ego, che tutti i teatranti hanno, purtroppo). Nella Torah, infatti, è tutto strascicato. Non a caso gli ebrei tedeschi venivano presi in giro dai tedeschi stessi perché strascicavano molto il tedesco” [“cos'è il tedesco? Un yiddish senza ironia”, dicevano nel bellissimo Train de vie, n.d.a.]. “E questa è Bacoli”.

Il Cappellese
“A Bacoli, poi, c'è una frazione: Cappella, la frazione di Michele Sovente, forse il più grande poeta degli ultimi sessant’anni. Cappellese. La lingua di mia nonna, Maria Illiano (altro cognome ebraico, da Elia. Il patrono di Bacoli è Sant’Anna e San Gioacchino, Vecchio Testamento. Tutte le città ebraiche d’Europa hanno santi patroni del Vecchio Testamento. Anche i nomi di Bacoli so’ strani: Giosafatte, Yosafat, esiste. Giosuè, Noé, Mosé, ma sono gente della mia età. Ancora alcune famiglie, lo so, praticano la circoncisione. Ma è tutta una storia velata. Sono delle leggende che io ho raccolto. Che ho scoperto, dopo, essere anche ebree). Cappella, a un tiro di schioppo, è una frazione dove si parla con le ‘o’. Quindi zappare, in napoletano zappa’, in cappellese è zappo’. Mangiare, magna’, è magno’. Ccà e llà diventano ccò e llò. Una lingua bassa: vedete il suono” [mirabile sinestesia, forse neanche tanto involontaria, figura retorica cui il napoletano ricorre abbastanza di consueto, n.d.a.]. “Una lingua che si àncora, già all’azione. Si àncora a terra. Perché erano forse contadini, povera gente, rispetto ai bacolesi che si sono, a poco a poco, nel tempo, un po’ migliorati, diventando commercianti”.

Il Montese
“Ma a un altro tiro di schioppo, da quest'altro lato, ci sta Monte di Procida, un’altra frazione. Che è un casino. I muntise (Scotto di Tella, Schiano, Scotto di, si chiamano tutti così, perché erano ischitani) hanno avuto una dominazione pugliese, vera e propria, perché facevano le tonnare, e avevano scambi commerciali ed economici con i pugliesi (e infatti, fanno anche, assai, di cognome, Pugliese). Hanno un monosillabo, ‘erre-e’, che racchiude tutto: ‘recane, ’regatt, ’o ’ritt, ’o fett’, ’o pigliet’.Crasi? ’Rscrasi? Domani. Dopodomani. ’A scenzore? ’O trammamur’.O clacson? A Monte di Procida è ’o scanzacristien’.
Nel cortile dove giocavo io c'erano: i miei cugini che parlavano montese, mia nonna che parlava ’o cappellese, e i miei parenti che erano bacolesi”.



Il teatro e il bisogno d’una lingua d'azione

“Quando avevo diciotto, diciannove anni, vent’anni, ventidue, non mi sentivo molto bravo in scena, perché andavo a leggere Shakespeare (Dio. Almeno per me), tradotto in italiano (benissimo) ma notavo che: ‘chist’ è nu becchine, ma parla italiano perfetto, in dizione. Je nunn aggie maje sentut’ a nu 'becchine che parl’ accussì, ma sempre: ‘ca sì détt? ca sì fétt’?’ (chiste, poi, è Puzzùl, ma anche Tàur’, Torre Annunziata... perché poi il vero napoletano non è quello di Napoli, forse, perché quello si è evoluto, con gli scambi commerciali, con l'apertura del porto. Se ci fate caso, a Casert’, a Benevent’, a Puzzule‘puzzulan’, puzzulent’, pur l’ever’ è fetent’’ –, a Tàur’, a Taur’ Annunziat’, a Gragnan’, a Castillammare, come dicono? ’A si’ ditt’? ’A si’ fatt’?... il napoletano vero, probabilmente, quello antico, è quello là, che ha delle dieresi – ad au, ad ie, ad ou – del latino. Non a caso, il puteolano di Pozzuoli, altra città che sta sempre vicino a me, è proprio una lingua)” [questo passaggio di Borrelli  mi ha riportato in mente una frase che, non a caso, Pasolini applicava al teatro, in particolare, di De Filippo – che, sempre non a caso, ha curato una traduzione in napoletano de La tempesta –: “Il teatro tradizionale mi infastidiva perché la parola pronunciata era falsa, perché gli attori, quando parlano sul palcoscenico, parlano una lingua inesistente, morta. Mettiamo una cameriera a teatro che porta i famosi fiori e dice: ‘Signora, ecco cui i fiori, è pronto a tavola’. Ecco, una vera cameriera lo direbbe in dialetto. Infatti io il teatro di De Filippo l’ho sempre salvato”, n.d.a.]. 
“Perché, quindi, uso questa lingua? Perché con Shakespeare, nonostante fosse Shakespeare, non riuscivo a essere vero in scena. Perchè l’italiano non esiste. L’italiano è una lingua che è arrivata nelle nostre case... tardi. È arrivata negli anni Cinquanta, Sessanta, pecché quaccherun’ tenev’ ’a televisione. Quindi, non è una lingua dell’azione.
Mio padre, se deve minacciare qualcuno, non è che dice: ‘Michele non devi farlo più, per cortesia, ti chiedo, veramente...’. Se mio padre lo minaccia veramente... già cambia il corpo, già cambia la postura r’o muss’, ’a manella...: ‘Uagliò, tu cu’ mmiche ’e ’appis’ ’a carn’ a nu malu crocc’'’ (tradotto: ‘ragazzo, tu con me hai appeso la carne da macello a un chiodo malricurvo, e quella carne potrebbe cadere’). ‘E appis ‘a carne a nu malu crocc’: in questo momento, non mi sto incazzando (ancora) ma, organicamente e nel suono (poiché i dialetti hanno meno parole, meno lessico dell’italiano – sono più poveri – agiscono per metafore, e quindi per suono: ’a carne a nu malu crocc’, c’è già la masticazione dell’avversario, attraverso l’allitterazione e un’allegoria. Io non mi sto incavolando, ma...) c'è un atteggiamento. Azione. Atteggiamento. Faccio un altro esempio (scusate se faccio esempi concreti, ma è più semplice): vi è mai capitato di essere stitici? Quando uno sta, stitico sul cesso, scusate, ma... vi scendono mai le lacrime? Perché c'è una contrazione della faccia, del corpo, e come diceva Artaud (non lo dice Mimmo Borrelli, che è un idiota): ogni emozione ha basi organiche. E l’attore è il pioniere, l’indagatore, il messaggero, un sacerdote (ma il teatro non dev’essere serio. È serie perché deve esser fatto in serie, ma nun addà essere serje, si no ce muntamm’ ’a capa): il compito dell’attore è quello di andare a pescare l’emotività e di emozionare il pubblico. Se non la pesca... non è n’attore. Quindi, se parla in dizione, ha una bella voce, impostata, ma non è organico nell’azione, ci sono, per me, dei problemi. Quindi, nonostante Shakespeare, perché non mi trovavo? Perché quella traduzione, pur essendo straordinaria, era in una lingua, per me, incomprensibile. E quindi, ho capito che dovevo tradurre tutto. Prima in napoletano, ma manco mi funzionava perché non lo conoscevo il napoletano. Lo conosceva mio nonno, che però è morto prima che io nascessi, nel ’77. Invece, mia nonna, cappellese, l’ho frequentata. Mio padre, l’ho frequentato. I delinquenti che venivano nei Campi Flegrei, e puzzulane, chilli llà ’e Giugliane, l’aggie frequentate. ’E Casale. E quindi ho riportato di parlare di me, di esporre fuori l’altro di me, attraverso qualcosa che avevo vicino, e attraverso l’imitazione di queste persone. Però la velleità è (poiché volevo fare anche il regista) di avere già una cadenza. Una sorta di... come nella danza ci sono dei passi precisi, anche il verso deve avere dei passi precisi. E invece, il teatro di ricerca degli ultimi quarant’anni, ha spesso sostituito la parola con il corpo. Che è un errore, perché la parola è già corpo, deve versarsi in corpo” [è la cosidetta proletarizzazione del classico, da parte di Borrelli, che però poi passa attraverso una resa poetica della scrittura – Borrelli scrive in endecasillabi alessandrini – ma non difetta, il suo processo creativo, di rifarsi a dei riferimenti culturali, drammaturgici e teatrali, che lui rielabora: Petito, l’immancabile Eduardo, Viviani, Moscato, Santanelli, De Simone, Ernesto Salemme o Michele Sovente, cui dedica l’opera Il sommo poeta del Petraio, rappresentato tre anni fa all’Efestoval, n.d.a.].



Vero-finto-vero: teatro verità tradita dall'attraversamento

“La comicità è molto più complessa, ma dipende. Per me o farai ridere o fai piangere però devi farlo bene. Mentre la comicità deve determinare la risata nell’altro, nella tragedia se tu devi adirarti o devi pinagere o devi disperarti la devi determinare in te. Quindi la difficoltà dei tempi della comicità, come faceva Totò (“Adesso ti faccio ridere con la A”), è molto più complessa, però la prodromia, le regole della comicità, sono uguali a quelle della tragedia. Sono identiche. Non a caso per il mio teatro io parlo di vero-finto-vero. Non parlo di finto-vero come nella commedia dell’arte, cioè quando c’è una verità che viene però messa in finzione e quei corpi sono stilizzati nella voce e nel corpo, e non c’è nessun attraversamento emotivo, perché tra l’altro usano la maschera, e quindi il corpo deve muovere quella maschera. Nel mio teatro si cerca, veramente con grande difficoltà, ci proviamo, a fare il vero-finto-vero: devi partire da una verità tua interiore e concretizzarla in una partitura molto precisa, fissa, e che sia inequivocabilmente comunicativa. Per fare questo ci vuole un metodo di lavoro (ma anche nella comicità, eh. Alla fine il teatro racchiude tutto, è una sola cosa, Totò era uno straordinario attore comico, ma perché era nu grand’attore drammatico. Se voi vedete Siamo uomini o caporali, tra l’altro uno dei pochi film scritti da lui, se non vado errato, lui è di una comicità sconvolgente perché sa essere in quel film anche drammatico: segue la linea del personaggio). Quel personaggio si muove così per un motivo, parla così per un motivo. C’è sempre un perché. Renato” [Renato De Simone, un suo attore presente in sala, n.d.a.] “può esserne testimone: non solo richiedo partitura per corpo, partitura della parola – tutti ’i sere a stessa cosa, se no t’ncazzi – però quella precisione non deve diventare esposizione estetica. Non deve diventare tradizione: dev’essere tradita dall’attraversamento. Attraversamento = dev’essere vero quello stato di coscienza. ‘Staje chiagnenn? Ja chiagnere o’ vero. Ti ja ’ncazza? Ti ja ’ncazzà o’ vero’. Questo processo è un processo di verità di partenza, che poi viene abbandonato, perché non è che in scena devi piangere tutte le sere: allora usi i referenti interni. Questo è un altro argomento. ‘Pienz’ a mammeta morta’. Vado anche a pescare negli attori delle loro cose vere che gli metto dentro. Dico: ‘Non parlare a Michele personaggio, parla a tua madre che c’ha un tumore’. Lo scopro perchè faccio delle domande, come un interrogatorio israeliano: ‘Comme te chiamm’? Quant’ann tiene? E ro si’?’. E questo interrogatorio va avanti fino a trovare una fitta. Perché se fai delle tragedie, l’attore deve trovare il tragico che è in sé. Se io devo fare Medea... avete mai ammazzato dei bambini? No. Avete mai violentato dei bambini? Spero, per voi, no. Avete mai chiavat’ a uno ca cap’ rint’ ’o mur’? No. È nu problema, per l’attore, chist’. Perché manca l’esperienza. Avete mai visto qualcuno picchiare un bambino? Magari in mezzo alla strada? Sì. Avete mai visto una donna disperarsi in maniera isterica? Piange, urla, per riprendere il suo bambino? Sì. Allora io vado a imitare quelle circostanze, coi suoni. E poi ci metto un referente interno. Tuo padre è morto l'altroieri? Forse no. Due anni fa? Com’è morto? Come stava in quella cassa? L’hai vestito tu? Devi andarci dentro. Poi non mi interessa (o meglio, m’interessa umanamente) quello che provi lì, mi interessa che tu prenda il pianto” [ne imita uno, straziante, afono, gurtturale, profondo, col fiato a strascio, n.d.a.]: “Qesto è finto, ma, quello vero, lo faceva mia madre sul corpo di mio nonno e lo vado a imitare. Anche col corpo. Lo vado a imitare, e devo trarlo tutte le volte a comando. Io a Renato non dico più: ‘Pensa a quelle cose della tua famiglia’. Dico: ‘Rena’ nun scass ’o cazz’, chella cosa llà, mo’, subbeto’. E dopo tre secondi, piange. E Renato piange tutte le sere, sempre sulla stessa battuta. Lui è una macchina in questo. Ma io non credo che lui pensi tutte le sere a sua madre o a suo padre”. “No” [risponde il diretto interessato, fra il pubblico, n.d.a.] “sì no, m’arricett’”. “Perché ogni emozione ha basi organiche. Probabilmente, ha lavorato bene sulla verità, l’ha concretizzata, l’ha resa viva, e ripetendo (come la cacata che vi dicevo) un atteggiamento, arriva l’emozione. Faccio un altro esempio, che faccio sempre ai seminari, e mi fermo: quando morì il mio gatto, cui ero molto affezionato, a Milano, fu una tragedia. Questo gatto lo avevo da dodici anni. Lo seppellimmo e, vabbé, tutt’apposto. Tornai a Napoli, e poi tornai a Milano dopo due mesi. Per una cosa importante, per un film che dovevo fare, quindi ero contentissimo. Avevo comprato un sacco di cose. Avevo festeggiato. Aprii la porta, je mo’ stev’ felice, non stavo pensando a nulla: dopo un millesimo di secondo, bum, inziai a piangere. Dopo un secondo. Perché ogni volta che aprivo la porta, il mio gatto faceva ‘mamammamiao’. Non vidi questa cosa, e piansi. Cosa vuol dire? Che ogni emozione ha basi organiche. A me non ha fatto piangere il ricordo del gatto. Quello è venuto dopo. È il movimento e l’apertura, la mancanza, la sua mancanza, di quel ricordo. Quindi, noi che siamo attori dobbiamo assolutamente categorizzare, sezionare, gli stati emotivi, e se è prosa, renderli suono. Se è danza, come faceva Pina Bausch (un genio) renderli danza, ma, con l’intento, attraverso questa imitazione delle proprie possibilità, nella vita, di essere Medea, di emozionare. Poi non sempre si riesce a emozionare… pensate, ci sono attori straordinari, che producono stati emotivi importanti, ma nun teneno ’o mezz'’, nun song’ degli Stradivari. E vancill’ a cuntà, puveriell’. Po’ sta chill'’ che magari tecnicamente è ’na chiaveca, però vire che è nu Stradivari, allora tu dice ‘accuonciete nu poco ’a tecnica, la voce, il corpo, e vedi che potrai esprimere’”.



Incontri con maestri straordinari e fiducia letteraria

“Ho avuto la fortuna di conoscere Ernesto Salemme (che, pare brutto dirlo, è il fratello di Vincenzo): è stato il mio insegnante di italiano e latino al liceo. Già recitavo, al tempo, a quattordici anni ma, poiché volevo fare il calciatore, dovendomi allenare molto, da semiprofessionista, e a questo laboratorio teatrale ci andavo per gioco, gli proposi di andare ogni tanto, il sabato e il venerdì pomeriggio e (giacché, a quell’epoca, scrivevo molto bene, almeno così mi diceva lui) di costruirmi la scena, in cinque minuti, così che potevo farla bene. Nello scrivermi la scena da me, già a quei tempo affrontavo il discorso diretto, cioè facevo dialoghi, specialmente nei temi di scrittura creativa che lui teneva. Fortunatamente, a quindici anni, quando sarei dovuto andare al nord a giocare, qualcuno mi ha spezzato una coscia. Caddi in depressione, e fu così che Ernesto mi propose di partecipare un po' più attivamente al laboratorio di scrittura della commedia. Di scrivere insieme. E per i compiti? ‘Ti esento io, nun te preoccupa’. Mi esentava da latino e italiano, però, a casa sua, leggevamo Dante. Ad alta voce: non capivo un cazzo. Dante era complicatissimo. Dopo ho macerato, nel vero senso della parola, i suoi versi dentro di me: un autore sconvolgente. Mi leggeva Pinter. Prima che vincesse il Nobel. Infatti, molti riferimenti di Pinter si trovano in ’Nzularchia (lo sanno in pochi: la stanza, la chiusura, ecc.). Ho incontrato, quindi, persone ‘culturalmente preparate’, che di teatro capivano poco però, e questa è stata la mia sfortuna nella fortuna perché, capendone poco, facevano fare tutto a me. E io non lo sapevo fare. E quindi sbagliavo: dirigevo venticinque allievi, di cui una ventina partecipava solo perché Ernesto non li interrogava. Io dovevo badare a tutti loro: ai loro problemi, alle loro incertezze, alla loro strafottenza... insomma, come gli attori normali (scherzo). E da lì ho iniziato, in modo inconsapevole. Venne una volta anche Vincenzo (Salemme), che veneve e s’addurmeva. Però bell’ e bbuon, verett’ a mme e dicette: ‘Ma tu ià fa’ l’attore. Subbeto. Ma tu scrivi pure?’” [Anche Vincenzo Salemme, non a caso, ha regalato un, ancora memorabile, gustoso divertissement sulla colorita biodiversità linguistica campana]. “Mi disse che sarebbe venuto a vedermi, ma je nun sapev’ manco chiste chi era. Venne a vedere la recita, si mise nel retropalco, e mi suggerì dove mettermi per fare degli scherzi al fratello, come cambiare un movimento ecc. Ernesto era un professore di italiano che si sedeva accanto e scriveva con me le parti e, poiché, non si direbbe, ma io da giovane scrivevo pezzi comici, mi diceva: ‘Falle tu, le parti con più azione’. Insomma, mi faceva già intervenire, con un’umiltà e una sorta di fiducia letteraria, che è stata preziosa per me, e ha fatto sì che, a vencinque anni, ne avevo già dieci di lavoro, di sette/otto copioni (che facevano veramente pena), scritti a mano, nel cassetto, che c’ho ancora conservati. Ho incontrato Michele Sovente, e leggevo le sue poesie, a quindici anni, perché pareva che avevo una bella voce, e poi ero bravo a leggere in dialetto. Almeno secondo loro, poi magari poteva darsi che ero una schiappa. Però la mia fortuna è che io già a sedici anni leggevo e frequentavo persone che mi hanno dato fiducia. È molto raro. Oggi è una cosa molto difficile. Poi magari avrebbero anche sbagliato, perché se non avessi avuto la capacità e la fortuna di farcela, avrebbero determinato in me una frustrazione. Quando, poi, Nzularchia vinse il Premio Riccione, fu un caso, nel 2005. All’epoca, ricordo, stavo a tavola, e je er’ tutt’ surat’, con Giorgio Bocca, Luca Ronconi e Vittorio Sermonti che mi ponevano domande. Poiché avevano avuto solo il testo credevano avessi settant’anni. Poi veretter’ a mme, che allora ero ancora aitante, ’na bella chioma nera, ’na barba nera, e un primo momento facetter’ ’e battute: ‘Ma l’e scritt’ tu?’. ‘No, nu mument’: l’aggia scritta je: nu cul’ tante m’aggia fatt’!’. Li convinsi quando cominciai a leggere. E infatti me lo fecero leggere, con Ronconi che si commosse – era rarissimo: siamo diventati, da allora, molto amici.  Anche al Premio Riccione mi hanno dato fiducia, perché mi hanno premiato dal nulla, io non ero nessuno. Quindi la fiducia fu forte, perché scrissero una recensione pesantissima, che io ancora porto stampata qua. Mi paragonarono a Gadda – però non l'ho detto io, l’hanno detto loro – magari erroneamente. Questa cosa mi mise una depressione... mi dissi: ‘Io qui devo fare qualcosa, non posso starmene con le mani in mano, se sono Gadda, e non lo sapevo’. Millecinquecento euro presi – davano anche una bella paga – divisi in settecentocinquanta al mese – che mi aiutarono molto – e scrissi ’A sciaveca: quattromila versi in nove mesi. Un parto. All’epoca le mie letture erano Dostoevskij, John Fante, Bukowski (ma Fante è meglio, secondo me). Bulgakov, l’ho letto a diciassette anni. Stephen King, checché se ne dica, è un autore della madonna. Io ho letto It, millequattrocento pagine, a dodici anni (e grazie che tieni i traumi ancora adesso). Adesso leggo poco. Non riesco più a leggere (altra dannazione), perché i tempi sono stretti e leggi sporadicamente. Ho letto anche Ernesto De Martino, Sud e Magia, e La terra del rimorso. Ma perché me lo dissero, dopo Nzularchia: ‘Ma tu ’e mai lett’ De Martino?’. ‘No’. ‘E te l’ja leggere’. ‘Ma tu ’e mai lett’ a Ruccello?’. ‘No’. ‘E te l’ja leggere’. Moscato. E Viviani, che poi è il più importante forse, perché è quello che mi ha acceso un ‘allor’ se po’ ffa’. Questo lo faceva negli anni ’10, negli anni ’20, del Novecento’. Per me, è il più grande autore del Novecento, eh. Che a Brecht nun s’o vere proprio! Questa è la mia ipotesi. Solo che purtroppo è stato legato a quella oleografia, erroneamente, napoletana, e quindi ancora adesso, non gliene si dà merito. Ma a Napoli non si dà merito nemmeno a Totò, quindi... è una città a cui non dobbiamo chiedere, Napoli. Napoli è una città alla quale dobbiamo solo dare, senza la pretesa di ricevere qualcosa. Perché si avimm’ ’a pretesa ’e ricevere quaccosa, è meglie ca ce ne jamm’”.



Lo stupr-Autore di storie: allenare la creatività da professionisti

[Borrelli compone in un angolo, metodico, con tutti i suoi rimari. I suoi testi, prima della messa su carta, hanno una gestazione che comprende uno studio antropologico e una raccolta di storie, prima ancora di andare in scena, che si trasformi in drammaturgia, e in rapporto con gli attori. Dalla carriera interrotta da calciatore professionista, infatti, Borrelli ha ereditato un approccio atletico all'allenamento della creatività, n.d.a.].
“La creatività non esiste, almeno secondo me (quando sento di qualcuno che scrive sotto l’effetto collaterale di alcool o droghe...). La creatività va allenata, va messa in discussione. Come? Io ho avuto una deformazione professionale, perché a me piaceva ascoltare storie. Da piccolo, giocavo a pallone e poi, quando c’erano i manigoldi nella cabina di mio padre, che si erano ubriacati, parlavano, io stavo lì ad ascoltare. Sempre. Attento. È da quando sono piccolo che trascrivo dei detti particolari, delle locuzioni, dei modi di dire. Era una mia deformazione che, pian piano, è diventata mestiere, quando mi dissero che ero un autore (e autore lo diventi quando gli altri te lo dicono, diceva qualcuno).
Allora, scrivevo poesie, e qui c’è il motivo attoriale, ed è interessante: io scrivevo poesie quando stavo male” [ricorda un poco Tenco quando, a chi gli chiedeva perché scrivesse solo cose tristi, rispondeva ‘perchè quando sono felice esco’, n.d.a.]. “Sapete, quelle cose adolescenziali... l’amore, adolescenziale, tre anni appresso a ’na femmina, chelli ccose strappacore, je l’aggià avute a vint’anne. Ho scritto, piangendo e scrivendo, poesie. Poi, al mattino, mi svegliavo, quaccheruna era una chiaveca, e quaccheruna... funzionava, e allora la mettevo a posto. Scrivevo a mano, non a caso, perché la scrittura, attraverso l’impiego del braccio, mi permetteva di non suicidarmi, di non picchiare qualcuno. Di scavare il foglio. Quindi, azione, sempre (questo è un altro problema mio. Quann’ vaca a vede’ uno spettacolo che, pure se è in italiano, ma je nun sto capenn’ manco ’o ca..., è perché manca l’azione. Allora m’addormo. Perché ’a parola, alla fine, serve... ma nun serve a niente. E lo dico io, che scrivo migliaia di parole). Scrivevo poesie di getto, poi pian piano le ho catalogate. E le ho numerate. Ancora adesso, scrivo poesie e le numero. Le catalogo. Per argomento. Poi faccio delle letture. Di cose di geopolitica che mi interessano, pur capendoci poco, però, un po’ mi diletta saperle. E mi prendo degli articoli di giornale. Mi prendo delle pagine, le trascrivo al computer, e le metto in un altro faldone. Pian piano, questi faldoni, che sono tantissimi, crescono e li tengo da parte. Tengo un rimario (scritto da me, perché un rimario flegreo nun ce sta): tre, quattro fogli, tutte colonne, dove ci sta: frat’, pat’, mazzat’, vuttate, ite, vattit’, fuggite... un rimario enorme, che serve per creare. E poi, interviste. Io intervistavo mio padre, ma senza un perché: ascoltavo, in modo inconsapevole. Poi mi sono messo con un registratore a intervistare persone. Per La Cupa, per esempio, che era il passaggio dalla trinità dell’acqua alla trinità della terra, ho intervistato pe’ n’anno e mmiez’ (è stata una rottura di palle, ma è stato anche bello, per certi versi) dei cavatori di tufo, vecchi, delle mie zone. Pecché? Perché trinità della terra che viene distrutta: questo è il tema intellettuale – L'intellettuale di sinistra che, purtroppo, io sono, avvinto dalla sinistra che ha distrutto la cultura degli ultimi cinquant’anni: questo è quello che penso io – però l’aggia concretizzà, pecché io poi, alla fine ’sta terra distrutta a ro’ cacchi’ ’a mett’? L’aggia concretizzà in un corpo, in una voce, in una scena. E quindi vado dai cavatori dei tufi, perché i Romani sono stati i primi a rovinare i Campi Flegrei, a creare le prime cave e a distruggere quel territorio: è tutto scavato nel tufo. È tutto modificato (poi, fecero delle ville meravigliose. Noi, invece, abbiamo fatto delle altre cose...). Quindi vado dal cavatore, vado a capire, cavatore, il texture della cava, l’uomo, il maschio, un maschio che distrugge la terra, madreterra che viene violata, quindi questo rapporto, la paternità impossibile, e poi mi viene incontro una storia vera, dei Campi Flegrei (vi dico proprio, materialmente) di questo padre che accompagnò sull'isolotto di San Martino i suoi figli (un isolotto che sta lì vicino, doveva trasferirsi lì ad abitare, nell’800), e fece un trasloco, dimenticò delle cose sulla terraferma, a Torregaveta, e lasciò lì questi due bambini. Ci fu un maltempo molto forte (da noi il mare grosso dura tre giorni), non poté tornare più, e i due bambini morirono assiderati. Quindi da lì, l'autore, lo stupratore di storie” [come i cavatori di tufo? Quindi i cavatori de La Cupa sono metafora per lo stesso Borrelli?] “dice: ‘Ok, questi due bambini morti, questo padre come si sentirà? Si sentirà veramente una merda. La moglie che fa? Ah, ottimo, la moglie potrebbe suicidarsi, non reggere’. Qui interviene l’autore. Tutte queste cose che vi dico, sono tutti dei fogli, che pian piano... poi al mattino, mi sveglio con un caffé, alle otto, e dico: ‘Scena I’. Poi c'è un foglio a parte, che è chill cà poi addivent’ nu foglie arrepezzato di sugo, ’e uoglie, che non straccio mai, perchè è quello della drammaturgia, un grafico ad albero, che diventa sporco, col mio gatto che a volte ci va sopra. Da lì io creo: scena I, ci sono tre personaggi che devono intervenire. Quindi, detto 4, verso della Bibbia 14, e mi impongo di mettere queste venti cose nella scena.
Cacace ’o cazz’ che scrivi quindicimila versi!
Cacace ’o cazz’ che addivient’ creativo!
Cacace ’o cazz’ che alleni la creatività mettendola in pericolo. Perché io mi impongo di non alzarmi se non scrivo qualcosa” [come Stephen King, appunto, che, manco fosse un impiegato, ogni mattina si sveglia, si siede alla sua scrivania, e scrive, per cinque ore]. “Ho catalogate anche le poesie, per L’infedele, che è il prossimo spettacolo. Ne ho già quattrocento, però di queste (alcune magari faranno notevolmente schifo), devo ancora capire quali sono utili. Quindi c’è un lavoro di studio, prima di scrivere, in cui io, per mesi e mesi, m’aggia leggere ch’aggia scritt’ primma, pecché nun m’o rriccordo. E quindi questo è il lavoro. Poi, di questi foglietti, pian piano faccio ’sta cosa alla X-files, stanno tutte le direttive, e poi ste righe tante (chist adda ie allà, chieste ccà), perché se no perdi di vista tutto” [ricorda Ralph Fiennes in Spider di Cronenberg, o il Rustin Cohle di Mattew McConaguey nel I° True Detective, n.d.a]. “Dice: ‘Ma perchè scrivi a mano e non al computer?’ Perché col computer non avrei un quadro così, avrei bisogno di un computer largo come questa casa, in cui potermi muovere (ora però devo parlare della parola che deve trasferirsi nel corpo, quindi, della partitura. Vado? Faccio degli esempi se no... vi state appallando?). Faccio degli esempi concreti in modo che ci capiamo meglio, perché parlare di drammaturgia è la cosa più complicata al mondo. Dovevo scrivere la Sciaveca, questo testo in cui mi imposi che il mare raccontasse una storia. Non a caso, è stato il mio primo testo nel quale mi imposi anche di scrivere in versi.



Se io fossi Sergio Leone, Ennio Morricone sarebbe...

“Io e Antonio della Ragione” [il musicista con cui collabora da quindici anni, n.d.a] “abbiamo avuto la fortuna, prima al liceo, grazie a Ernesto (perché Antonio voleva fare l’attore, era anche bravo, però, era piccolino, io ero più grande) e poi anche per merito di Davide Iodice, che ci impose, quasi, di lavorare insieme. Infatti devo sempre ringraziarlo, perché ci ha fatto incontrare, ci ha dato un po’ un soffio (un’altra persona che soffia sul talento. Di solito le persone che soffiano sul talento sono rare, e io sono stato fortunato). Davide ci ha dato proprio un input (ma lui è un maestro in questo): ci diede la possibilità, e anche la fiducia, di andare insieme e continuare. Io dico sempre che in teatro non si inventa mai nulla: noi un pochino facciamo quello che facevano (e lo dico con molto rispetto: sono un loro grande estimatore) Sergio Leone ed Ennio Morricone (col dovuto rispetto e la dovuta bassezza: rispetto a loro, che erano due artisti mostruosi, noi siamo dei piccoli esseri. Però) nel senso che cerchiamo di trovare di ogni stato emotivo, di ogni personaggio, una linea melodica che trova Antonio. Antonio, poi, è così... cacacazzo, come me, che cerca anche di trovarne uno strumento, cioè lo strumento giusto per quello stato emotivo” [un po' à la Sergej Sergeevic Prokof'ev col suo Pierino e il lupo, del 1936, n.d.a.]. “In Malacrescita ci sono proprio degli strumenti che riportano me, che sono l’attore (ci sono due fratelli, lui il fratello ‘demente’, devastato da questa madre che ha allattato i figli col vino, che però per convenzione comunica coi suoni, muto” [come lo Zi’ Nicola ‘Sparavierzi’ Saporito de Le voci di dentro, n.d.a.] e io sono il fratello, invece, che comunica con la parola, costretto da lui, da questi suoni, a creare la scena. Lui nasce come percussionista, ma per me è un pianista che suona delle percussioni (infatti, ora sta andando verso gli strumenti a fiato, gli armonium, e anche il pianoforte): lui ha una delicatezza... tra l’altro dovuta anche a un motivo concreto perché Antonio viveva a casa dei genitori, in una casa di legno, che il padre costruì in un prefabbricato, con delle mura basse, quindi Antonio era costretto a suonare senza neanche toccare gli strumenti per allenarsi. Non poteva fare rumore. Questa costrizione della mamma nei suoi confronti gli ha donato quest’armonia soffice che c’è sempre sotto le nostre creazioni. Poi c’è anche un’altra cosa che si sta evolvendo: io pretendo sempre che lui abbia delle creazioni in partitura molto precisa, sotto i parlati (sempre), però articolando e cercando di stare nelle note della parola. Che però diventa più percussiva. Quindi, il verso è percussivo: ’a percussione so’ io. Gli attori che collaborano con me, come Renato, Enzo, Veronica, Marianna, Gennaro: noi siamo la percussione, col corpo e con la voce. Antonio deve dare lo stato di coscienza, e in questo ci aiuta. Per esempio, vi è mai capitato di sentire delle musiche e di commuovervi? Ascoltando, non lo so, Chopin? O dei canti zingari? Vedendo un film, dove il 50% lo fa l’immagine e il 50% lo fa la musica che c’è sotto, che è scelta dal regista per creare una partitura fisica, o scenica? Quindi la musica è molto importante. Ho avuto la pretesa di tenerla sempre, come nei film, sotto il parlato. Però è molto complesso, perché noi abbiamo il 70% che è precisissimo, però c'è un 30% che dev’essere jazz: se io vado troppo sopra con la voce, Antonio sta un po’ più sotto. Se io sono in ritardo con la parola lui mi anticipa”.
[fine prima parte]



Napucalisse, il cunto culto definitivo della Napoli d’oggi

Cosa devono aver provato, i nostri avi, uscendo dalla prima teatrale di Napoli milionaria? Cosa dev’essere stato vedere Totò esibirsi dal vivo, magari durante la guerra, in un café chantant, facendo avanspettacolo? Cosa devono aver sentito, i nostri genitori, uscendo dal cinema, dopo aver visto Il postino di Troisi (o dal La Mela, dopo u’nesibizione de La Smorfia)?
Io lo so. Perché l’ho provato anche io. E l'ho provato per merito di Mimmo Borrelli, andando a vedere (non era la prima volta, ma ciò non ha ridimensionato affatto la complessità emozionale con cui il suo monologo riesce a travolgere lo spettatore) il suo Napucalisse. Nulla, non un’intervista né un video su Youtube, possono preparare al gravame emotivo, allo tsunami empatico col quale il drammaturgo flegreo è capace di investire il suo pubblico. Varie sono le affastellanti emozioni che è capace di suscitare in ciascuno, cavandogliele di fuori, come Michelangelo dalla pietra con le Prigioni, o come un incantatore di serpenti. Una, fortissima, è la voglia di parlare di questo spettacolo. Con chiunque. Di consigliare a tutti di andarlo a vedere. Di precipitarsi. Che qualcosa di simile non è concepibile, e troppo grande sarebbe il rimpianto nell’esserselo perso. L’altro è il desiderio che afferra di vederlo nuovamente. Subito dopo. Per quanto Borrelli sia definitivo nella sua performance, non basta. Non appaga. Una prima visione lascia scontenti, subito dopo, assaliti dal retrogusto del rimpianto d’esser appena passati per qualcosa di meraviglioso, che non tornerà più. È un ricordo prezioso quello che lo spettatore si regala andando a vedere Napucalisse. Un clamore emozionale dal quale non è possibile fare ritorno. Qualcosa che segnerà, nel proprio vissuto, un prima e un dopo. Ha i caratteri, insomma, dell’esperienza totalizzante. Lo spettatore, infatti, ridotto allo stato di spugna smaniosa di assorbire ogni stilla di questo autore e del suo testo, della sua mimica, della sua inflessione, non è capiente. Ne vuole ancora. Napucalisse è qualcosa da rivedere, maniacalmente, a loop, all’infinito, nel disperante tentativo di riassorbire e metabolizzare tutto quel marasma, quell’universo complesso (‘Dammi risposte complesse’, era l’incipit del bellissimo Unastoria di Gipi, proprio come sono i drammi borrelliani), indigeribile, che prima colpisce allo stomaco, con un affondo, e poi risale, in un’ascensione esofagea, come un riflusso gastrico, un rigurgito, per attaccarsi al cuore, e non mollarci più (Borrelli lo sa, e ne ha fatto tesoro, che se vuoi uccidere un uomo devi colpirlo al cuore. Ramon volontiano docet). E non ci molla più. L’anomala ondata empatica è destinata a non lasciarci, a riproporsi, ciclica. Come l’emozione dopo il finale de Il cacciatore, o C’era una volta in America, o Qualcuno volò sul nido del cuculo, Non essere cattivo o Easy Rider. Ti pianta, dentro al cuore, una puntina che continuerà a girare intorno, scavando un microsolco, ogni giro più profondo, ancora e ancora. Come un polipo che allunghi il suo tentacolo arabescato di ventose, lo infili dentro le nostre narici, e penetri sempre più a fondo, inviscandosi nella nostra materia grigia, e rigirandosi all’interno, come un coltello che affondi nella ferita, attraendo attorno alla sua nube ogni altro pensiero. Borrelli fa questo. È capace di questo. L’altro pensiero che la mente elabora, uscendo, è quella di esser stati introdotti, con un rito iniziatico, alla corte degi eletti, coloro che possono vantarsi di aver visto e vissuto quello che non è solo uno spettacolo ma un’esperienza di rivoluzione sensoriale. Uscendo dal teatro, rivoltati come un calzino, si esce scombussolati, ridotti all’afasia. Come orfani di un sogno che, si sa, a mano a mano che ci si allontanerà da quel momento, impallidirà. Come quando il giorno albeggia, si tace, religiosamente, cercando di trattenere il più a lungo possibile, viva, quell’emozione intrattenibile che si è sustanziata. Da cui, quindi, il rimpianto: è stato troppo, tutto, per essere trattenuto in alcun modo. Uscendo dalla dimensione onirica si vive il ritorno, straniante, alla realtà. Uscendo dai Quartieri Spagnoli, dividendosi dagli altri spettatori, ognuno dei quali riprende la via del ritorno, ci si disperde, e ci si sente dispersi, lungo via Toledo. Con Napucalisse, Borrelli ci lusinga e ci titilla, ci seduce e ci abbadona, ci ama per poi respingerci, e così, orfani dell’orgasmo emotivo con cui ci ha travolti, sciamiamo, irrimediabilmente feriti. L’esperienza sfuma già in un ricordo nebuloso, decantando in quella suggestiva impressione, in quella sensazione di meraviglia che è tutto quel che è destinato a rimanerci. Dopo la sfilza di senari di quel martellante e struggente rap finale, è impossibile tornare a guardare Napoli con gli stessi occhi. Napucalisse è, infatti, destinata a creare una cerchia di soli iniziati che, grazie a questo meraviglioso testo, possono tornare a guardare questa città, tanto avara, tanto arcigna, così crudele coi figli quanto generosa con chi la spregia o la conquista/acquista, con lo stupore, e persino con l’amore. Per merito di Borrelli, Napoli torna a essere lo stupor mundi (sano, e non gentrificato o dall’immaginario gomorrizzato) che merita d'essere. La verità è che, con Napucalisse, l’uomo occidentale moderno può sperimentare quella benedetta catarsi di cui non faceva che parlarci il professore di greco al liceo: esperire quel rituale, da mangiapeccati, per cui l’attore ha esorcizzato, su di sé, la colpa dell’intera comunità. Liberandola. Come un ebreo errante, come un paap purush delle credenze popolari indiane, Borrelli annota ogni storia, ogni peccato, ogni dannazione, la carica su di sé, veglia su di noi e tiene conto di tutte le nostre trasgressioni, rimettendo a noi i nostri peccati. Ecco, cos’è, per un napoletano (o in generale qualcuno che viva o guardi a Napoli non con l’occhio giudicante del turista o del borghese) fare l’esperienza diretta di Napucalisse. Un’esperienza da cui, quando si esce, non si comprende come possa esserci un ritorno. Come sia possibile che non sia cambiato tutto dopo il folle volo cui abbiamo assistito. Difficile spingersi a dire altro. Borrelli, malizioso come un satiro dietro la sua barba caprina da Rasputin, tiene il suo prologo, tanto simile a quello con cui Fo introduceva i suoi misteri buffi: il testo nasce da una espressa richiesta del Teatro San Carlo. Lui si immagina un Vesuvio parlante, attinge a leggende che vorrebbero il Vesuvio nient’altro che un Lucifero miltoniano che, caduto, si schianta sul golfo di Napoli come un Balrog, lasciando dietro di sé il cratere di un vulcano. Il Vesuvio si risveglia e pondera se distruggerla, una buona volta, o no, questa maledetta città. A difenderla, uno smascherato Pulcinella, meno convincente che mai, nemmeno lui convinto, fino in fondo, più, che questa sua città meriti di essere salvata (nessuno salva nessuno, tutti si salvano da soli, e a Napoli sembrano sempre in meno a volersi salvare). La difesa che accampa, imbastandone una raffazzonata alla meno peggio, complice una scolaresca in gita, sembra persuadere il luciferino Eyjafjallajokull partenopeo a scendere a più miti consigli, al punto da indurlo a chiedere a Pulcinella d’esibirsi in una pantomima: e cosa c’è di più ridicolo, oggi, di un matrimonio napoletano (ormai brandizzato, lo chiedono, manco fosse una categoria protetta, fino in New Jersey)? Grottesco come una pagina di Paolo Villaggio, assurdo quanto Ionesco, iperbolico quanto la fame dello Zanni o gargantuescamente rabelesiano, questo paradossale Ubu partenopeo (che, ahimé, non può non rievocare l’accostamento di episodi, reali, d’oggi), consente a Borrelli di far incontrare lo strascicato vocalizio vibrato neomelodico indie à la Enzo Savastano con la partitura della Marcia nuziale deandreiana. Questo segmento strappa copiose risate... a chi non sa a cosa preluderà. Dopo, infatti, farà seguito l’intervento d’un malamente, un killer che, dopo averci raccontato la sua maladolescenza (Borrelli attinge alle storie che gli vengono raccontate, conservandole gelosamente, come muse che, puntualmente, violenta e storpia, riattando alle sue esigenze, di volta in volta, come succede a Calliope nel bellissimo Sandman 17 gaimaniano), chiede che questa città venga seppellita dalla lava, come merita. Come Babele. Come Cartagine. Come Sodoma. Segue il pezzo che è destinato a consacrare, definitivamente, Borrelli alla storia dei più grandi cantastorie campani (ultima pepita d’un filone ricchissimo di cunti, che affonda nell’antichità, e che nessuno, che si sia premunito di conoscere un minimo di storia, può fingere d’ignorare). Una pagina nerissima, amarissima, con la quale Borrelli, assieme alla città, spella vivi anche noi, scuoiandoci e rivoltandoci come conigli, esponendo all’aria le nostre vergogne frammiste a organi pulsanti, vene in rilievo e muscoli scoperchiati. Perché solo un napoletano, grazie alla sua città, conosce sulla sua pelle il significato dell’ambivalente amoreodio catulliano. Un canto amaro, al ritmo d’un petto battuto come i fujenti di Sant’Anastasia, fuori dal coro d’una paranza di senzasperanza. Perché, come premette Borrelli, il napoletano è generoso nella sconfitta (e per fortuna, allora, perde sempre) ma sadico nella vittoria (perché? Borrelli non dà risposte. Si perdono, nel vento che batte su Torregaveta, il molo di casa sua dove va a morire il binario e da cui non parte nessuna nave. Non le dà nemmeno lui che, eduardiano, ha ascoltato i vecchi, profondo come un Gambardella sorrentiniano che, feticista, all’umore stillante della vulva muliebre preferisce, saprofago, le stantie emissioni di semidecomposti savi). Che però, eppure, ci ridà speranza, perché risponde (masochista) al fujitevenne eduardiano davanti a una notte eterna, che dalla seconda guerra in poi non sarebbe più passata mai, quella che è la più grande della dichiarazioni d’amore, nell’epoca degli sfratti emotivi, dei ripulisti empatici, degli sgomberi affettivi, del cinico disincato dei chierici traditori votati al disimpegno sfreanto, avvinti dalla pulsione edonistica di massa all’autoreferenzilalità ombelicale: Je rest' ccà!  



[seconda parte]
Perché in versi?

“... Perché all’attore più difficoltà si danno, più paletti si danno, più imposizioni si danno, più potrà essere bravo. Ricordatelo. Quando facite un monologo: il referente non si capisce, la circostanza non si capisce, il contesto, a chi sto parlando, qual è lo stato di coscienza, il referente interno... Volendo io fare tutto, perché vorrei governare la materia” [di nuovo lo stupratore di cave di tufo autobiografico?, n.d.a.] “da quando sono piccolo, in tutti i passaggi, per poter meglio comunicare quello che voglio, io devo pre-ordinare, devo preparare l’attore, a seguire una partitura già indicata. Vengo al punto: come ca... faccio a far raccontare al mare una storia? In versi. Uso l’endecasillabo, che è più breve: undici sillabe, tre accenti. Un mezzo, che non è utile per i discorsi lunghi, più articolati, più ‘filosofici’, però è interessante. Il mare può avere un suggeritore di scena che può essere il vento: il vento soffia (pare ’na strunzata, però...). Il mare può parlare sia calmo sia agitato, quindi gli stati di coscienza del mare possono essere una mareggiata, una risacca, quindi. ‘Ah, ottimo’, mi dissi, così andai sulla spiaggia di Torregaveta, e sentii questo mare che faceva: schhhhhton, schhhhhhton, schhhhhhton. Scfhuuuum. Scfhuuuum. Schhhhschhhhh. Schhhhhhschhh. ‘Cazz’ e mo’ come cazz’ facc’? Ok, l’endecasillabo va bene, ma... se ci metto delle vocali interne? Il mare, magari, il primo prologo lo faccio fare in risacca, quando proprio...: schhhon, schooon, schoooon. Va bene’. Il mare è narratore e, dalle mie parti, il narratore principia un racconto non con ‘C'era una volta’, ma ’Nzomm’. ’Nzomm’. Insomma. ’Nzomm’, ’nzomm’, ’nzomm’. ’Nzò. ’Nzooo. ’Nnnnnzoooom’. ’Nzzzzzzooooom’. ’Cazz’, comm’ sona. ’Nzooooom. Azz’, rice proprio ’nzooooom’!’. Non a caso, la parola insomma (questo è sempre l’intellettuale, che deve ancorare) somiglia a ’onnn, per assonanza. Onnn, ’nzooom. Onda, insomma. ’Nzooooom’. Pare nu cavallone. ’Nzooooom’. Circolare. ’Nzooooom’. Entra nel corpo. Se il prologo lo scrivo con delle consonanti ben messe, tipo: ‘La santa genupesca ubicazione, ’a sciaveca di quest’orrida mattanza, l’urtima sciata asciutta e nu pulmone, saluta o signore cu ’a pacienza. Già così non si capisce un cazzo. In italiano, non si capisce. Ma se ci metto un suono, accettuando le consonanti? Adesso vi dico le stesse parole accettuandole [...]: inizio già a vomitare un poco di saliva dalla bocca. Iniziare il movimento circolare del verso. E il verso assume anche un corpo. Non me ne frega niente di far capire. Perché io a teatro quando vado a voler capire, non capisco niente” [vedi su, gli spettacoli in italiano]. “Quando vado a teatro, invece, voglio sentire qualcuno, che vi racconta una verità, pure nu second’, ca pure una verità, ’a mamma cu’ nu frate, cu’ nu pate, figliete, che ne sacce, nonnt’, chitammuort’, contame quaccose, io sono contento. Se no, il teatro diventa un espediente intellettivo per le persone di sinistra che si sentono intellettualmente preparate (come me) se si vanno a vedere una cosa che nun hanno capite manc’ ’o cazz’. Io cerco sempre il teatro, che dev’essere comprensibile almeno per un bambino di quattro, cinque anni...” [vedi i suoi nipoti piemontesi, infra, n.d.a.] “e un intellettuale di cinquanta, sessant’anni di sinsitra” [come i film di Sergio Leone, vedi infra, n.d.a.]. “Anche di destra. Anche se quelli sono un po’ più timorosi, a volte. Mo’ a Salierno aggio avuto nu problema, bell’, caratteristico, perché c’erano quelli che applaudivano forte, poi c’erano questi mariti che erano cuntent’, però si pigliavano scuorno p’e malaparole c’aggia ritt’, ’e mugliere cu’ ’è pellicce, quindi erano un po’... me guardavano proprio pigliati collera, però era interessante, perchè ricevano: ‘Non è ca si propr’ ’na chiaveca, si’ pure brav’, però nun ricere ’sti ccose zuzzose. Puo' ricere n’ata cosa?’” [ride].
“Ora, passo a un’altra cosa e mi fermo. Tipo, il mare in risacca, e va bene. Come risolvo il mare agitato? Semplicemente, mettendo un altro tipo di suono. Siete mai stati su un gommone, o su una barca? Schiaff, schiaff, schiaffschiaff, schiaff. Tu tum. Tu tum. Tu tum, tam tam. Stututatam. Tatam. Ora, nella Sciaveca ci sono tre personaggi che parlano e il mare che tira addosso delle onde, come delle secchiate. ...delle secchiate enormi. E quindi fa così il verso (sono tre di loro, non posso farli tutti e tre). Tuttum, tattamm, tuttumm. E in questo anche interpretarlo. Questi sono quatto che parlano e devono capire: ‘sang’ r’a Maronn’, cinque secce simm’, ’o mare stanotta abballa cu’ ’a salimm’ (il mare balle con la salsedine) a prua sta arivann’ n’onna, vogate, nun avvincimm’ ’o primm ca ce secce...’ (la seppia è un animale terribile per i pescatori – i’ che casine, po’ rice ca vonn’ capì – perchè su una barca, quando un pescatore dei Campi Flegrei trovava una seppia, e questa seppia buttava il nero, quello era segno di sventura. Perciò ricimm’: ’mo te votto a seccia ’ncuoll’’. E quindi il nero di seppia porta jella se lo si ha sul corpo. Seccia perché? Pure perché nel testo c’è un personaggio che si chiama Cinquesecce, che è quello che compone l’intera tragedia. La porta a termine. Un po’ uno Jago. Quindi un altro riferimento)”.



Teatro verità: impatto emotivo e non espediente intellettivo

“Quindi uno rice: ’ma pecché scrivi accussì?’ Perché è l'unico modo che ho, possibile, di essere vero. Non ne ho altri” [mia nota personale: questo passaggio mi ha molto colpito. Non è la prima volta che sento qualcuno dire questa frase. Mi successe anni fa, in un altro incontro. Stavo ponendo una domanda ad Arturo Paoli, uno dei giusti, prete che durante la Seconda Guerra Mondiale aveva messo in salvo alcuni ebrei e che si dedicò, fino ai cento e passa anni, all’altro. Gli chiesi come facesse, dopo un’intera vita spesa al servizio degli altri, riconoscenti o meno, a trovare ancora la forza per dedicarsi a qualcuno che forse non avrebbe mai incontrato, che non l’avrebbe mai ringraziato, spendendosi in azioni di cui, probabilmente, non avrebbe mai visto i frutti. La sua risposta fu definitiva e secca, capace di tagliare qualsiasi possibilità di replica, disarmante eppure semplice]. “Quindi... però poi ’sta cosa ti porta all’estero, mi porta a Milano, mi porta a Parigi, in Belgio. E, nun capiscen’ nient’, ma capiscono tutto. I miei nipoti (io però non volevo), che hanno sette e quattro anni, sono piemontesi, non capiscono nulla (quindi, le parolacce, le bestemmie, possono anche... perché sono molte le bestemmie, ho un po’ esagerato): La Cupa vollero vederla tre volte. E capirono tutto. Perchè cera l’azione. Che capirono? ‘Ma quella è una principessa, che dev’esser salvata, dall’innamorato (lo faceva Renato De Simone, attore meraviglioso, che sta qua, presente). Tu, zio, c’hai un problema (io avevo un tumore nella scena, lui era piccolino, non poteva capire) stai male, hai la febbre’. Capì tutto. Perché non aveva l’impedimento della soddisfazione di ricevere un atto estetico, ma la sua soddisfazione era di ricevere un impatto emotivo. Non capì, per esempio, la scena dello stupro, perché non potevo far stuprare veramente Marianna Fontana, era impossibile, sarebbe stato anche un reato, quindi, non potevamo farlo realmente, se no l’avrei chiesto. Lì, subentra l’estetica. Capì che Gennaro la picchiava. C’era questa scena (quelle cose di sinistra, sempre) cu ’stu velo che la pigliava... era bella però la scena, cu ’sta musica poi...” [Digressione mia. Questa considerazione di Borrelli sul teatro come qualcosa che non va, per forza, smontato e compreso appieno, mi ha ricordato, per l’ennesima volta, alcune considerazioni di Pasolini, sul pubblico quale “borghesia media, e quindi volenterosa, intenzionata a capire’, un’élite estendibile, però anche agli operai, i quali ‘può darsi che letteralmente tante cose non le capiscano perché non hanno gli strumenti specifici per capire il linguaggio della poesia, però basta l’intenzione, il reale interesse per la cosa, perché in qualche modo capiscano [...] decentrando al massimo quello che si chiama massa, cioè cercando di polverizzarla rivolgendomi a delle élites, però non di intellettuali ufficiali, ma di intellettuali potenziali, di intellettuali per buona volontà e reale interesse culturale, quindi delle più diverse estrazioni sociali, facendo questo penso di fare un’operazione democratica”. Siamo nel 1968, e Pasolini concepisce ancora margini scampati alla borghesizzazione massiva, delle sacche di resistenza culturali, di minoranze etiche in virtù delle quali permane la speranza di “una comprensione, un vero e proprio dialogo”: insomma, un: “ceto medio [...] non [...] reso prepotente dal potere economico: si tratta [...] di borghesia di professionisti, qualche studente, qualche operaio [...] dunque caratterizzati dal rispetto verso il lavoro altrui [...] è, insomma, la borghesia ‘timida’” con la quale è possibile instaurare un “rapporto reale”, fatta di “critici civili” cioè capaci di nutrire “interesse [...] sospendendo il giudizio”. Come ben diceva Tolstoj: “Non capite, se giudicate” n.d.a.]. “Per me, ogni iniziativa che va a scandagliare l’essere umano e l’umanità è, di pari passo, un atto politico. Il teatro è già un atto politico, perché cerca di riscrviere una realtà, creare un mondo altrove per migliorarlo. Quindi è un atto politico, sempre. Ma la comicità intelligente è un atto politico. Il teatro è un atto politico di per sé, come pure il cinema. Basta non tradirlo, basta non farlo diventare un espediente comodo, per sedersi, allietarsi senza mai affondare il coltello, secondo me”.



Fra Vincenzo Marra e Igort: il grande schermo

“Da piccoli, io e mio fratello, abbassavamo l’audio, e doppiavamo, in modo ovviamente improvvisato, tutti i film di Sergio leone (“Al cuore, Ramon”. “Hijo de puta”. “Già condannato per...”) e quindi il cinema per me, quando c’è una cinematografia che racconta l’essere umano, mi emoziona ancora. Faccio due palle tante su Joker, se non l’avete fatto, andatelo a vedere, per Joaquin Phoenix” [recente Oscar 2020, n.d.a.], “ma anche per la regia. Checché ne dica l’intellettuale di sinistra. Cazzo, ma hai visto che fa chill in scena? Hai visto come hanno risolto la danza? Lo so che l’avete visto. Lì dovevano chiudere la porta del bagno. L’hanno risolta, ripercorrendo l’esempio di Sergio Leone che, chiamava un musicista e si faceva mandare la musica. Riceva: ‘Invientate quaccosa’, danza, e parte quella scena straordinaria. La musica era straordinaria” [altro Oscar, n.d.a.], “il regista ha avuto una ddje ’e intuizione, e l’attore è mostruoso. Ora, il correlativo oggetivo di cui sopra, Joaquin Phoenix ha avuto una vita e ’mmerda. Allora dice: ‘Aggia ave’ ’na vita ’e mmerd pe’ ffa’ l’attore? O aggia sta’ ’ngalera? Non è questo. Però bisogna avere un’esperienza di osservazione, anche un’esperienza non fatta rispetto a quello che accade. Quindi il cinema per me è fondamentale. Il cinema è anche il mio sogno. Molti mi chiedono di farlo, però ho motlo rispetto della cinematografia, quindi ancora non mi sento. Anche se poi le mie storie, effettivamente, sono delle serie Netflix spaventose. Almeno nella trama... ma non me le faranno fare mai. Per i contenuti... almeno come io vorrei. Poi, in Italia è molto complesso fare cinema. Con Vincenzo Marra l’abbiamo fatto, è stata una follia” [però ha ripagato: per L'equilibrio, infatti, Borrelli ha vinto il Premio Novo Imaie, alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, come migliore attore emergente, n.d.a.]: “Abbiamo girato in cinquanta giorni. Io ho fatto il prete: mi sono chiuso per qurantacinque giorni in un cella, veramente. Era un film low budget, quindi abbiamo girato con pochissimi soldi e quando hai poco spazio... però Vincenzo è talmente bravo e rigoroso che è riuscito a produrre un prodotto onesto. Io poi dico sempre che il cinema e il teatro sono come il vino: te po’ piace’ e te po’ nun piace’, pure le mie cose, ponn’esser nu capolavoro, sì, ma può piacere e non piacere, non è questo il punto. Però il rigore... Io quello che vorrei dirvi stasera, se ci sono anche attori, è: datevi sempre una gran severità sul rigore. Non sentitevi mai sicuri, mettetevi sempre in pericolo, e cercate di vincere una difficoltà che è la routine del mestiere, che vi porterà a mentire. Prima o poi: è inevitabile. Io ho la fortuna di scrivere tutto io, quindi, magari a un certo punto, con la mancanza delle forze, con la vecchiaia, arriverò anche io a soccombere” [mi soffermo su questo punto che trovo assai importante, e che mi ha portato alla mente le parole di quello che io, e non solo io, considero uno dei più grandi cantastorie viventi: Alan Moore: “Se stai facendo qualcosa e ti trovi perfettamente a tuo agio è probabile che questo sia dovuto al fatto che l'hai già fatto in passato, o che qualcun altro l’ha già fatto prima di te. Per cui ha poco senso rifarlo di nuovo. Affronta sempre progetti incredibilmente difficili e complessi che probabilmente saranno la tua rovina”. Tra l'altro, come Borrelli ha dimostrato che non bisogna allontanarsi per riuscire a tessere incredibili mondi da worldbuilder – con la sua penna, Bacoli, Pozzuoli, Torregaveta, Miseno e Monte di Procida, con un coro di personaggi quotidiani ricorrenti, trasmutano in una Macondo marqueziana in salsa partenopea –, lo stesso bardo di Northampton è stato capace di scrivere un libro grande più della Bibbia – la sua ultima fatica, Jerusalem – ambientato, nei secoli, nello stesso, ristretto, luogo geografico: la sua città natale. E in questo, almeno io, vedo una gran comune sentire fra i due storyteller, sebbene si affidino a media differenti. Perché, di nuovo, è la verità della storia, e dell’umano sentire, il fil rouge che distingue gli autori memorabili da quelli che usano l’industria culturale come una pastoia con cui inondare e colonizzare di pattume l’immaginario collettivo del pubblico, n.d.a]. “Però il cinema sarebbe un mio sogno farlo. Non solo da attore. Adesso vorrei esplorarlo come attore (ma proposte come quelle di Vincenzo non sono arrivate) almeno per scavare. Poi una cosa che mi interessa è farmi del male. Nel senso: risolvere una parte di me e reggere, col suo silenzio, qualcosa di interessante. Lì penso che sia accaduto. Poi, mi dico sempre che avrei potuto fare di meglio. L’ho detto anche a Vincenzo (che s’è incazzato), nel senso che, essendo il film purtroppo un’arte fissa, chell’ poi rrimane llà, eh. A teatro, invece, nelle prove, se tu ti metti in pericolo tutte le sere… nelle prove. Nelle prove. Non in scena. In scena è finita. Quando qualcuno dice: ‘Eh, adesso non la sento ancora, tra qualche giorno, potrei arrivarci’. Tra quacche ggiorn si muort’!. Nun ce puo’ arrivà: ce ea arrivà mo’. Si no nun me ne vagh’ ’a ccà. Ce ea arrivà mo’. Ma non perché sono violento e severo. Perché se tu ci puoi arrivare tra due settimane, in scena hai un secondo, un millesimo, e come farai? Fingerai. Sarà una cacata. Sarà finto. Sarà estetico. Sarà teatro (o di destra o di sinistra, chest’è a solita storia, nun teng’ nient’a veré). Il cinema è un mondo che a me piace molto. Vuoi i miei riferimenti? Kubrick mi piace molto. Lars von Trier è un genio assoluto, ma nun m’acchiappa. Mi acchiappa Sergio Leone” [che, non a caso, scelse Eli Wallach per il suo Tuco Ramirez perché “era un attore comico di estrazione chapliniana, un ebreo napoletano: si poteva fare tutto con lui. Infatti ci siamo molto divertiti a stare insieme”. Napoletano... o flegreo, n.d.a]. “Mi prende Clint Eastwood. Bela Tarr mi piace molto. Genio assoluto. Mi piacerebbe fare film come Bela Tarr. Ma non li farò mai. Ovviamente, Kusturica, Fellini, la linea di Antonioni, ma pure De Sica. De Sica, poi, parla poco ma forse è uno dei più bravi che abbiamo avuto in Italia. Adesso la mia idea sarebbe fare una serie. Però è molto complicato. Perché potrei sviluppare una serie, appunto, di accadimenti. Però vediamo che succede. Poi, a parte qualche caso, non avendo mercato, in Italia, il cinema è assistito, un po’ come il teatro, e essendo assistito ci sono una serie di scommettitori (quanto dico non deve uscire da qui, ci sono giornalisti, in sala? Tu? Staje semp’ ccà!). Il cinema, in italia, sembra non funzionare del tutto, fateci caso: a volte fanno delle opere meravigliose, po’ ce rann e sord', e fanno delle opere che fanno veramente schifo: non si capisce pecché. Io l’ho capito facendolo un po’, perché sostanzialmente ci sono sette, otto scommettitori, parenti o figli di banchieri (‘ahò, dovemo metterce li sordi’) che c’hanno magari un titolo bancario di un milione di euro. Quindi, se ci mettono un milione di euro, c’anna guadagnà almeno nu milione e mmiez’. Duecentomila euro ce l’anna guadagnà, no? Quindi prendono i soldi dal ministero, i produttori, nun se ne fottono proprio r’a qualità, se ne fregano soltanto di incassare. Anche poco, ma quel poco che gli permette, se è un film culturale, se è un film di nicchia, di andare avanti col loro commercio. Che è alla base. In America l’hanno strutturato: ché una piccola produzione, come Breaking Bad (che è una piccola produzione) tenevene ’e sfaccimm’ r’e sord’! Però, avevano già una distribuzione. Non a caso. In America, in India, c’è un numero enorme di persone che va al cinema. In Italia siamo pochi. Quindi, un conto è (Dino De Laurentis l’aveva capito molti anni fa) esportare una qualità enorme del cinema italiano, ma esportandolo dappertutto. Infatti, Dino faceva un film di cassetta (che poi era Pane, amore e fantasia, con De Sica, o I soliti ignoti – erano i cinepanettoni dell’epoca, se vogliamo) per produrre Pasolini: Le 120 giornate di Sodoma. E li sostenevano anche nella distribuzione. Oggi, il mercato americano è strarodinario, però ha distrutto la nostra distribuzione e non ci sono state delle persone illuminate che hanno culturalmente (ma qui è anche la politica) investito nel produrre un prodotto italiano. È un discorso vecchio: non mi voglio lamentare, ma è una realtà molto difficile, perché chiederanno, alla fine: ’Ahò, mettece un culo, mettece un lieto fine’. A me dicevano: ‘Ahò, ma in ’sta storia se bestemmia, se stupra, e i bambini che vomitano, te magni i bambini, vendi gli organi, ’sto firm nun se po’ fa’. E, quindi, Mimmo Borrelli al cinema non penso che si possa fare”.



L’Italia, gli Stabili, la clientela teatrale, La Cupa

“La legge ministeriale ha delle ottime regolamentazioni che favoriscono molto anche gli autori, i drammaturghi, come me. Io, per esempio, non sembrerebbe, ma in questo momento, rappresento, così seduto, un punteggio del MiBACT importante. Proprio un punteggio alto. Se un teatro ha me all’interno della dichiarazione della triennalità, ha un punteggio molto alto. Perché sono nuova drammaturgia, ma anche un autore di ‘tradizione’, che tradisce la tradizione rinnovandola. Sono anche un regista. Gli stabili hanno risolto la c.d. clientela teatrale: di tutti quegli artisti che, giustamente, dicono: ‘Io so’ artista, tu m’ea fa’ fatica’. Eh, ma si ’o prodotto tuo nun è sempre bbuono, pecché t’aggià fa’ fatica’ sempre?’ Questo è un altro problema molto serio. E a Napoli ce lo abbiamo. Ora, nel mio caso, io sono molto fortunato e questo perché mi si chiede sempre. Loro mi metterebbero ogni anno. Il problema è: tu scrivi una cosa di quindicimila versi! Io La Cupa c’ho messo cinque anni a scriverla. Tempo effettivo di gioco: due anni e mezzo. Però, nel mio caso, mi si potrebbe dire, ‘tu nun puo’ ffa' solo la regia?’ Allora, quello che comanda è l’autore. Per me, poi, l’autore è il più bravo, il più capace. L’attore fa tutto, ma l’autore fa il poeta, fa l’antropologo, fra il dramaturg. Quello che taglia il testo da quindicimila versi a duemila e cinque (perché ’a letteratura nun ce serve). E poi, l’autore governa il regista che non deve stravolgere tutto. Pecché si no nun se capisce niente, peggie ’e chell’ che s’è fatt’. Io sono molto fortunato. Però il problema è che in questo momento mi si chiede di fare sempre cose nuove, e io non posso. Però dico, santo dio, visto che comunque nel ri-prendere uno spettacolo c’è sempre un cambiamento, e lo si può certificare dalle carte, io non sto chiedendo molto. Noi artisti non saremo mai uniti, ci faremo sempre una grande guerra, fra di noi. Perché nel momento in cui io faccio uno spettacolo, io sarò sfregio per un altro che non avrà un posto, e quindi ruberò il posto a qualcuno. Quindi io cerco di salvarmi, ma il mio obiettivo è quello di tutelare l’autore, perché (magari mo’ dico delle cazzate, magari ’sti miei versi fanno proprio schifo, è probabile, però io ho avuto delle responsabilità) l’autore va protetto. Deve vivere. Rispetto a questa cosa, deve diventare feroce, e anche rispetto agli attori che lavorano con te. Io ho circa venticinque/ventisette messaggi su Facebook senza risposta: ‘Voglio fare un provino, voglio fare questo’. Ma tu hai capito che io tengo un attore mio storico, che è Gennaro di Colandrea, attore mostruoso, che ha lavorato con me ne La madre nel 2009/10, e ha faticato con me nel 2018? Roberta Misticone, 2009, ha lavorato con me nel 2020. Ma non perché siano scarsi, ma perché io ho bisogno di un gruppo di persone con le quali non posso perdere tempo. Diventi feroce, diventi esigente, se no io ti mando a mare. Se uno viene da me e non è esperto, dopo dieci giorni se ne va. Perché io gli cheido: ‘Che hai fatto in quel secondo? Ripetilo. Uguale. Perché non hai fatto questo?’. Quante note facevo io al giorno? Duecentocinquanta. Noi stevemo due ore a fa’ ’a filata, e tre ore pe’ ffa’ le note. Allora qual è il problema? Che questo mestiere non è democratico. Purtroppo. Io c’ho provato, ma non lo è. Io mi difendo come posso. E difendo l’autore in maniera egoistica. Quello però che cerco di fare io, è aiutare molto i giovani: se, io, in questo momento, che sono fortissimo, ho queste difficoltà produttive, ma figuriamoci una voce nuova! Prima c’erano persone, con tutti i loro difetti, come Franco Quadri, che i giovani li aiutavano. Quadri mi adorava. Insieme a Roberto Andò è stato quello che ha insistito per farmi vincere il Premio Riccione: nessuno se l’era letto, il mio testo. ‘Questo è un genio’, disse. E l’aveva letto per metà. Ma se io non avessi avuto questo aiuto… je foss’ nu pazz’ che stess’ mmiez’ a via. Avrei anche cambiato mestiere. Io ho il dovere di difendere l’autore (che sono sempre io) e difendere gli attori che lavorano con me, per portare avanti un discorso di fare qualità. Io poi questo dico: il teatro dev’essere certificato. Io, col mio ruolo, non faccio altro che avallare le scelte, anche onanistiche, che ci sono negli stabili del teatro nazionale, però devo avere un rispetto per chi lavora con me, e questo rispetto determina anche dei sacrifici. Devo dire la verità, mo’ sono molto più combattivo. Anche perchè, prima magari ero giovane e mi accontentatvo dell’espressione e dell’esposizione, e dell’elargizione: Vabbuò, ma l’amm fatt’’. Ma io non ti dico che lo devi rifare. Ho vinto trentadue premi negli ultimi dodici anni, fra cui i primi due Ubu del Mercadante. È andato bene? Ha fatto il tutto esaurito? Ci sono cinquanta persone (cento no, ma cinquanta sì) che, tutte le sere, fanno la fila fuori? Rifallo. Il problema è che c’è una clientela. Come si fa a governare un Teatro Stabile, cosa che è stato chiesto di fare anche a me? Bisogna tenere una linea retta sulla qualità. E io ci rientro, in questo momento. Ma devo combattere, perché questa linea è sulla qualità ma dobbiamo anche accontentare, fare qualcosa che vada a lenire il gusto del pubblico (nonostante tutto, le parolacce, le jastamme, ancora ’sta cosa... è un retaggio). E mi difendo anche sbattendo i pugni. Alzando le scrivanie (l’ho fatto, ci sono i testimoni). È molto complicato. Io il problema che ho è dei tempi. Non riesco a stare al passo coi tempi delle evoluzioni, e devo chiedere anche dei soldi in più (e in questo sono esoso) per poter pagare l’autore, che non viene pagato. Quindi, quando faccio la regia devo pagare l’autore due anni che deve scrivere, e quindi fare le repliche. Però in questo momento me lo posso permettere. E poi c’è una cosa che io ritengo sia importante: i registi devono difendere gli attori. I registi che credono che attraverso una regia critica, attraverso un’ambientazione, possano risolvere lo spettacolo, sbagliano. Bisogna creare una serie di attori che siano feroci, che siano precisi, e anche portarli avanti. Certo, non posso portarne avanti trecento (purtroppo è la verità), posso portarne avanti venti, ma quei venti devo anche nutrirli. Poi non so. Quando uno vuol fare l’attore, è come ’na guerra: ’Ma tu o vuo’ fa’ veramente?' La prima cosa che penso di dire sempre è: ’Guarda che tu vai incontro a mille sofferenze: Il 90% degli spettacoli che farai, non ti piaceranno. Hai una vena anche compositiva?’ Glielo chiedo sempre. E allora ti consiglio di farlo. Però, statt’ accort’, si a trentatré, trentaquattro anni nisciun t’ascolta, o nun he’ sfunnat’, arritirate, si no addivient’ frustrato. Io avevo fatto un patto con me stesso: il piano B. E Je so’ Mimmo Borrelli: a trentatré anni si è malacqua, me mett’ a ffa’ ’o piscatore, vac’ cu patem’, ’a cozzc’, cos’, perché non riesco ad andare nei salotti, nei teatri, a dire ’bello ’stu spettacolo’. Nun ce riesco. Non riuscivo a essere ipocrita. Perché ho un problema, che è la verità. E questo problema è una dannazione, anche se in scena mi favorisce. Io spero che qualcuno fra voi sia fortunato come me e possa avere la possibilità anche di soffrire per le proprie gioie. Gioire nella sofferenza è una cosa meravigliosa. Io vengo dal nulla, eh? Vengo da una penna e un foglio. Non ho una sala teatrale, non ho un teatro. Ho una saletta perché mio fratello e Tobia, un mio amico, mi danno dieci metri quadri per potere fare i seminari. Non ho niente, ma, come dicevano i sovietici: ‘Io non ho dio, ma teng’ ’e mmane’. Con queste mani sono arrivato qui. Anche con delle fortune, però ho combattuto, e combatto ancora. Con La Cupa io ho avuto delle difficoltà enormi, per cui, mai mi sarei aspettato di tornare al Mercadante. Sono stato chiamato. Pregato di andarci. ‘Pecché tu ea ave’ 320.000 euro p’A Cupa?’ Questo mi è stato detto. ‘Pecché io so’ Mimmo Borrelli, e ’stu teatro ha vinciut’ gli Ubu grazie a me. E nun ha mai vinciuto. E stu spettacolo è bell, dicono. E ’a gente ’o vo’ vere’ ancora, dicono. E quinn’ l’i ha fa’. Si nunn 'o faje, è nu problema r’o tuoje’. Mi è stato detto anche che La Cupa è stato fatto per motivi politici. ‘Pecché je agg’ fatt’ ’na guerra pazzesca’. Perché poi sono vendicativo. E questo è un altro problema. Mannaccia a morte!”.



Efestoval

Efestoval nasce da una riflessione: poiché io scrivo degli spettacoli scene specific (cioè tutte le scene dei miei spettacoli sono ambientati in determinati punti dei Campi Flegrei. Quindi la memoria che ricordava i luoghi: c’è sempre l’aspetto antropologico. E m’ispiro anche a personaggi del luogo: ce ne sono almeno una ventina, veri, che esistono, altri sono esistiti idealmente. Da qui...) sarebbe bello che io invitassi artisti nella mia terra a fare un’esperienza come la faccio io, di scrivere in quei luoghi. Ma come fai a fargli scrivere? Ci vogliono dieci anni. Ma se riprendo degli spettacoli già fatti e li ri-ambiento in questi luoghi? Faccio un esempio, Pirrotta aveva uno spettacolo che si chiama N'gnanzou. Storie di mari e di pescatori, sulla pesca dei tonni in Sicilia. Dalle nostre parti, nel lago Mare Morto di Bacoli, si pratica la Cesarana, la chiusarana, un antico tipo di pesca, che convogliava i pesci in questo lago, con una rete, che avanzava in sette mesi. Piano piano, i pesci entravano in questo corridoio, fino a che non si arrivava a Natale, spesso, che c’erano tantissimi pesci. Li si portava, con un tunnel, in una vasca, che era una parte del lago, dove li si pigliava a mazzate, e li si faceva for'. Era molto simile. E quindi lo ambientammo, con una zattera, su questo lago. Scene specific. Abbastanza impegnativo, perché se fai cinque eventi, devi trovare cinque posti diversi in correlazione con la trama della storia e tutta una serie di cose. È partito grazie al Ministero, perché l’italia ha anche delle cose belle. Vincemmo due bandi, tra l’altro, senza conoscere nessuno, al Ministero della gioventù. Era il 2014. Però un bando era sulla formazione, quindi ci inventammo ’st’idea (i Campi Flegrei, gli scavi archeologici, come farli rivivere? Le solite cose che si dicono da cinquant’anni): proviamo a prendere dei giovani, ragazzi dai quindici ai venticinque anni, e (tra l’altro, con ragazzi della cooperativa La paranza, del teatro della Sanità, gente che ha fatto del proprio territorio anche un’azienda) a fare dei corsi di aggiornamento su questa cosa, in modo che punto d’arrivo sia questo festival. Quindi Efestival, Efesto, perché da noi c’è il supervulcano dei Campi Flegrei, quindi Efesto, il dio maniscalco. Ed è un festival che è andato avanti per quattro anni. Quest’anno si è fermato, perché, dopo i primi due anni che siamo riusciti ad andare avanti attraverso i fondi del ministero della formazione (amm’ pigliat’ certi sord e l’amm purtat’ all’interno del festival, in maniera lecita però) poi, c’abbiamo rimesso, e non avevamo modo di recupere. C’è stata sempre una stima da parte della Regione, da parte della Città metropolitana, però putroppo... io ho stima da chiunque, però soldi… mai, soldi, manc’ p’o…, a stima assaje, ma sorde... no. Tranne il ministero. Lì c’era una persona seria, una donna che si era letta tutti i progetti, li sapeva a memoria, e venne a farci i complimenti, ma anche a vedere se avevamo fatto quello che dicevamo. Ci sono sempre degli eroi, persone che cambiano le cose, specialmente in questo paese. La collettività riesce a cambiare poco la realtà. La collettività viene annientata con quest’odio (convertire la passione in odio e sfruttarla per rivoluzioni da parte di multinazionali… cheste so’ tutte strunzate che sto dicendo). E quindi c’è veramente qualche eroe che quindi veramente crede in un’etica, in un modo di stare al mondo, in un modo di aiutare il prossimo. Abbiamo preso questi cinquanta ragazzi, e c’era un bel pubblico. Quest’anno nasce mio figlio, a febbraio, e quindi c’è un’altra priorità. Però è agghiacciante che un festival che, dicono altre persone, è importante, si ferma perché mi nasce un figlio.





Malacrescita
tratto da La Madre: 'i figlie so' piezze 'i sfaccimma
di
Mimmo Borrelli
regia
Mimmo Borrelli
con
Mimmo Borrelli
musiche in scena Antonio Della Ragione
oggetti di scena e spazio scenico Luigi Ferrigno
produzione Associazione Culturale Sciaveca
lingua dialetto flegreo
durata 1h 20’
Napoli, Teatro Nuovo, 10 gennaio 2020
in scena dal 10 al 12 gennaio 2020


Napucalisse
testo e regia Mimmo Borrelli
con Mimmo Borrelli
musiche in scena Antonio Della Ragione
produzione Sciaveca Associazione Culturale
lingua dialetto flegreo
durata 1h 10’
Napoli, Sala Assoli, 18 gennaio 2020
in scena dal 17 al 19 gennaio 2020

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