“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 15 February 2019 00:00

Provando, ancora, a parlarti davvero

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La prima impressione, appena terminato La buona educazione, è che Mariano Dammacco, Serena Balivo e Stella Monesi – cioè i componenti della Piccola Compagnia Dammacco – abbiano messo in scena la separazione (l'impossibilità dunque, per noi due, di stare assieme) avvenuta tra una solitudine e un'altra solitudine appena incontrata, convissuta, conosciuta.
Chi abbiamo, infatti?

Abbiamo una donna di cui non sappiamo il nome, la condizione sociale ed economica, l'età precisa né di lei sappiamo l'esistenza che ha trascorso finora, quali erano i suoi progetti, cosa ne è stato delle illusioni di un tempo. Sappiamo invece che ha un lavoro (ma non sappiamo di quale lavoro si tratti: da una battuta si capisce solo che lo svolge di mattina), sappiamo che il suo appartamento è all'interno di un condominio (al terzo piano, ad esempio, abita “il signor Antonio”), sappiamo che sta a Torino o nei suoi pressi, che guida una macchina (che macchina?), che ogni tanto fuma (anche se non lo farà mai in assito), che la sera si addormenta lasciandosi cullare dal sottofondo della televisione. Non ha un marito – non si è mai voluta sposare –, non ha un compagno (non riusciamo a immaginare quand'è l'ultima volta che ha fatto l'amore o meglio: se lo abbia mai fatto), non ha figli e non ha più neanche la sorella gemella – appena deceduta. Sta in questa casa semibuia, vetusta, cavernosa, che nel dietro le quinte ha la camera da letto e di cui noi vediamo in scena un salotto adornato di sedie e che, tra il mezzopalco ed il fondo, è riempito da arredi in legname che compongono un semicerchio che avvolge un divano dalla fodera a fiori. Una vecchia valigia di pelle marrone nei pressi del divano; una lampada col paralume bianco sulla sinistra; un antico giradischi e una vetrinetta con dentro delle rose finte, di quelle col gambo di plastica e i petali in tela, sulla destra.
Quel che comprendiamo in aggiunta lo dice lei o ce lo lascia intuire.
Sappiamo, ad esempio, che non è felice e che non lo è stata mai, se si esclude una volta, forse, e solo per un istante, vissuto quando aveva sette anni – tornata dal mare con tutta la famiglia giocava con la sorella stando per terra, accanto alla finestra, il padre guardava il telegiornale e la madre tirava fuori dal forno la parmigiana di melanzane –; sappiamo che vive da sola e che da sola vuole restare (“Io vivo da sola” dice subito; “a me piace stare da sola, io amo stare da sola, come mi piace stare da sola” ribadisce ma a me pare lo dica per convincersi dato che, quando lo afferma, piega il corpo sul divano manifestando fisicamente un dolore); sappiamo che ogni tanto ha la necessità – come l'adulta/bambina de L'inferno e la fanciulla – di “continuare a chiamare la mamma, rivolgendosi a un cadavere” e che sente il bisogno di guardare dal basso verso l'alto o, come direbbe l'Anima dell'Omino di Esilio, di correre ancora “a cercare i grandi” per chiedere loro un conforto, un sostegno, una qualche forma di approvazione; sappiamo inoltre che piange spesso (“piangere” è il verbo che usa di più: sedici volte); sappiamo che quando attraversa la città lo fa come se la città intorno non esistesse; sappiamo che fa fatica a tenere chiusi gli occhi per un'intera nottata. Questa donna, infatti, è assillata dai morti, che le tornano in mente e che le affollano il sonno, lo sguardo, la stanza, il silenzio e che ogni volta le ricordano cosa non è stata in grado di fare, il modo in cui non ha vissuto, le fragilità caratteriali che ha mostrato e le aspettative che ha tradito, le scelte compiute, gli scarsi risultati conseguiti: eccola – le dicono gli spettri riemergenti dei suoi genitori – “la solita individualista”, “il solito bastian contrario”, colei che ha voluto fare di testa sua non pensando “alle conseguenze delle sue azioni”; eccola “l'intelligentona della famiglia”, che “non si è presa cura di nessuno, neanche di se stessa”, e che adesso sta “lasciando seccare il suo fiore di donna”; eccola in tutta “la sua inutilità”. Sospetto – ma questo, sia chiaro, è un pensiero tutto mio – ch'ella ormai viva attendendo la morte e sospetto quindi che questa dimora in cui la vediamo (un altrove dal mondo, quasi fuori dal tempo) sia un'ultima spiaggia, la sua personale deriva, meglio ancora: che sia il recinto cimiteriale nel quale si è già seppellita e sospetto che – non avesse imparato a comprimere la disperazione che prova – si sarebbe suicidata giacché è alle 4:48 che, dopo aver trascorso l'ennesima notte tenendo gli occhi sbarrati, rilegge la sua “intera esistenza in chiave negativa”.
Con lei, o meglio: nel suo racconto – La buona educazione è infatti la sofferta narrazione postuma di qualcosa che è già avvenuto – c'è suo nipote, di cui deve improvvisamente prendersi cura (“Signora, questa notte sua sorella è deceduta” le hanno comunicato infatti “con una telefonata a bruciapelo”: “qui c'è suo nipote, deve venirselo a prendere”). Chi è questo ragazzo (che non vedremo mai)?
Lui ha tredici anni, frequenta la terza media e, oltre ad essere rimasto privo di madre, è orfano anche di padre: forse è morto, chissà; di certo è fuggito via tre anni prima, quando si è innamorato di una ragazza di diciannove anni, ha rubato e indossato gli abiti del ragazzino e si è diretto in barca verso le isole dell'Oceano Pacifico, lì dove è andato “in cerca del suo vero destino, del suo daimon, della sua realizzazione naturale”. Come la zia anche il tredicenne fatica a dormire – si agita, si lamenta ed è preda degli incubi “tutte le notti” – ; come la zia piange sovente (“va bene, mi ha detto, ed è scoppiato a piangere” è la frase che contraddistingue il loro primo incontro); come la zia è una persona rimasta sola: “E tuttavia” – commenterebbe l'adulta/bambina de L'inferno e la fanciulla – “non hanno che una cosa in comune: la solitudine, come dire tutto o niente, dipende da noi”.

 


Ciò a cui assisto in prima istanza mi sembra dunque il racconto di come questi due esseri umani hanno cercato di conoscersi, in che modo hanno tentato di entrare in relazione, attraverso quali mezzi hanno provato a comunicare tra loro mentre la vita li sta costringendo ad adattarsi, cioè a diventare qualcosa di diverso da ciò che erano fino a ieri (essere come una madre per mio nipote; essere come un figlio per mia zia). Non a caso è proprio sul piano della comunicazione – della messa in contatto verbale – che la trama si snoda: “L'ostacolo di base è la comunicazione” afferma la zia, che poi ci racconta il “percorso di sperimentazioni” adottato per farsi ascoltare ossia per esistere agli occhi e alle orecchie dell'altro: gli ordini dati con “suoni duri, secchi, convincenti”, simili a quelli usati nell'addestramento dei cani; un'infilata di “no” fatta seguire da un'infilata di “sì”; la messa in pratica de “l'antica arte del grammelot”; l'ostentazione di foto o di biglietti indicativi; infine l'utilizzo della metafora calcistica: “Comincio a seguire il calcio e quel loro giornale rosa” poi “ci provo: dico al ragazzino che dobbiamo fare una riunione di spogliatoio, non batte ciglio, si toglie le cuffiette e si siede con aria compunta, pronto alla discussione”.
Riusciamo finalmente a parlarci? Riusciamo a stare assieme io e te, qui e in questo preciso momento? E riusciamo a trovare parole che abbiano la stessa incidenza – lo stesso senso e la stessa importanza – sia per me che per te? E quindi: “Quando gli parlo ho la sensazione che il ragazzino non mi segua”; “mi rendo conto di essere io a comunicare in maniera inadeguata”; “io gli parlo, lui mi guarda, io lo guardo ma non c'è o forse non ci sono io” e “ma io devo parlargli”, “credo di poterlo definire un piccolo errore di comunicazione”, “gli dico”, “mi dice”, “non gli rispondo”.
Sono – queste – espressioni che strappo a una messa in sequenza di microepisodi che contraddistinguono tipicamente la convivenza tra il nipote e la zia – la riunione scolastica coi genitori dei compagni di classe, la preiscrizione al liceo, il piatto che ho cucinato per te questa sera, il tuo primo amore, la messa in discussione del tuo futuro –; microepisodi che ci vengono narrati esponendone soprattutto la vocazione al fraintendimento, al bisticcio lessico/caricaturale. Finché. Finché i due trovano una parola in comune – la parola è “goal”, gridata allo Juventus Stadium assieme ad “altre 37.242 anime, compresa la quota abbonamenti,”; 37.242 anime che “diventano una sola voce, un solo corpo, un solo respiro” facendo così diventare una sola voce, un solo corpo, un solo respiro anche zia e nipote, per la prima volta – e tuttavia questa parola, giacché è così futile e generica e collettiva (dunque non nostra davvero ma di un insieme più ampio che ci comprende: non ci riguarda dunque nel profondo), non riesce a costituire un legame duraturo e a tenerli assieme nel tempo: sappi che “tuo nipote non ti ha voluto come madre”, “dice che non lo rendi felice”, dice che “non ti capisce” sono le frasi con cui i fantasmi genitoriali della donna, tornati a farsi vedere, certificano quest'altra occasione mancata, il suo ennesimo fallimento, la sua ultima sconfitta.

 


Ma i personaggi, lo sappiamo, nel parlare esprimono un punto di vista sul mondo, di più: sono essi stessi portatori di un mondo e manifestano – attraverso atti e parole – un sistema di valori caratterizzanti. Quando Gustav, in Creditori di Strindberg, afferma che “l'amore nella donna sta nel prendere” – ad esempio – non dà fiato soltanto a una battuta del copione, evidentemente sessualizzata, ma rende pubblico il pensiero che ha sulla relazione tra i generi, sulle disparità interne alla coppia e manifesta inoltre il programma di vendetta che sta già realizzando (togliere Adolf a Tekla, che ha preso per tutta la vita); quando in Zio Vanja Vojnickij dice “sarei potuto diventare...” non mormora solo un rimpianto ma esprime il tema cechoviano di una felicità che risulta impossibile poiché è sempre altrove (è a Mosca; è con lui o con lei; è in un futuro che non vivrò o in un presente che è già diventato passato); quanto a Shakespeare – come sa bene Dostoevskij, che dal Bardo apprese l'arte della polifonia – non c'è figura che non esprima il suo pensiero, la sua prospettiva, quel che per lui (e solo per lui) risulta fondamentale nel momento in cui è sul palco. Ciò che vale per Strindberg, Čechov e Shakespeare, vale – o dovrebbe valere – per un testo di nuova drammaturgia, per i dialoghi composti l'altro ieri, per l'opera a cui un autore metterà mano domani. Vale dunque anche per La buona educazione tant'è che lo spettacolo della Piccola Compagnia Dammacco adesso mi appare anche – forse soprattutto – la messa in scena di come un sistema di valori personali(zzati) cerchi a tutti i costi di adattarsi a un mondo che sta cambiando, che a quei valori non bada più o che di quei valori non sa più cosa farsene.
Questa zia, ad esempio, crede ancora che gli insegnanti abbiano un ruolo sociale, culturale e formativo fondamentale; questa zia pensa che il liceo classico aiuti a “farti crescere come uomo” e che sia importante studiare “Ovidio, Plinio, Quinto Orazio Flacco, Socrate, Platone e compagnia cantante”; questa zia è capace – pur a fatica – di riporre in un cassetto lo smartphone, staccare la spina della televisione, inscatolare nell'armadio la consolle dei videogiochi, chiudere a chiave i tre computer di casa, impacchettare lo stereo, nascondere il frullatore, spegnere il frigo e “la corrente elettrica dell'intero appartamento” così realizzando una condizione di silenzio assoluto (fondamentale perché ci si ascolti davvero) e di penombra (perché ci si sforzi nel cercarsi e trovarsi con lo sguardo): neanche ci si trovasse alla “fine dell'Ottocento”.
Questa zia sta insomma provando a capire come trasmettere (e far permanere, giacché pare declinante o morente) tutto ciò in cui crede mettendosi in contatto con un nipote consumistico-massmedializzato, che si è abituato a ciò che non è fatto espressamente per lui ma prodotto per tutti e, dunque, per nessuno davvero (esempio: si accontenta della parmigiana di melanzane comprata all'Esselunga) e che sperimenta e condivide tecnologicamente (modernamente) ogni contenuto e ogni scelta, ogni discussione, ogni passione. Il ragazzo, infatti, passa la sera sul letto, con in testa una cuffia e in mano una pistola giocattolo, davanti a uno sparatutto; strepita se non ha con sé il cellulare; comunica via social facendo comprendere il proprio parere attraverso l'esercizio dei “like”; rimane imbambolato davanti al moto del cestello della lavatrice; contempla come fosse una meraviglia il verde elettrico della croce di una farmacia e – quando s'innamora – prova un sentimento non verso una coetanea (dunque verso quella ragazza, proprio quella e non un'altra) ma verso una “splendida lampada da terra” di nome Annette, che costa 695 euro, che è vedibile online ed è comprabile in uno qualsiasi dei migliaia di centri commerciali sparsi per la Penisola: lampada con la quale, rimasto solo, non riesce a comunicare tant'è che, dopo pochi giorni, la riduce in frammenti.
Dunque.
Come faccio a mettermi ancora in relazione con un presente così, mi sembra quasi si chieda la zia. In che maniera ricontestualizzo e riformo quel che so, i discorsi di cui sono in grado, i contenuti e il sapere che ho accumulato negli anni? Tutto ciò a cui ho dedicato la mia vita (il mio stesso modo di vivere e di pensare l'esistenza) ha ancora una vita davanti? E se parlo c'è qualcuno che davvero mi ascolta? Ed è ancora possibile una relazione dialettica che sia un corpo-a-corpo, che abbia consistenza carnale, che sia compresenza effettiva, muscolarmente avvertibile, fatta di occhi che incontrano altri occhi, di fiato che si poggia alla pelle, di un gesto che produce uno spostamento d'aria avvertibile da qualcun altro che mi sta effettivamente difronte?
Sono domande che riguardano il contesto sociale e culturale del quale facciamo parte, adesso, nel 2019, e sono (aggiungo) domande che riguardano anche il teatro giacché proprio il teatro – chiedendo (pretendendo) “una concretezza che appare sempre più perduta” in un mondo e in un tempo “di simulazioni, in cui la finzione e il reale si scambiano continuamente di posto” – “rappresenta l'interruzione più intensa e più anacronistica dei circuiti di mediatizzazione prevalenti”, per dirla con Attilio Scarpellini; riguardano queste domande il teatro in quanto è il teatro l'ultima e ormai forse l'unica pratica con ambizioni d'arte in cui la parola che viene detta è ancora una “parola autentica” poiché “rivolta a noi in particolare e in concreto e non in generale e in astratto”, per citare Nicola Chiaromonte.

 


Mariano Dammacco, come autore e regista, con La buona educazione conferma capacità nello scrivere – su pagina e in scena – prosa in forma poetica: le battute non raggiungono quasi mai l'orlo del foglio ma vanno a capo assai presto segnando un andamento grafico che trova corrispondenza nel fiato e nella gestualità per accenni incisioni e ricami di Serena Balivo. Dammacco pensa e compone dunque La buona educazione così come ha pensato e composto L'inferno e la fanciulla ed Esilio, realizzando cioè un testo che si dipana per microcanti in versi, contraddistinti da alte citazioni letterarie nascoste, ritorni interni e funzionali di una battuta, dosi calibrate d'ironia: caratterizza la zia, così come l'adulta/fanciulla o l'Omino, con un lessico che ha punte d'infantilismo comunicativo o di ingenuità espressive (esempi: il verbo "screpitare" in luogo di "strepitare" o il fraintendimento per cui “il mestiere del genitore” è “il più antico del mondo”) senza rinunciare a una consapevole e adulta riflessione sulla vita (su una vita) e sulle inadeguatezze e le fragilità che contraddistinguono questa vita. Mette, qui come in passato, Serena Balivo in posizione frontale, come sull'orlo del palco, in dialogo costante e dichiarato col pubblico (non esiste quarta parete: siamo a teatro, sto parlando proprio con voi, inclinando la testa e il mio sguardo ora a destra ora a sinistra) collocandola in uno spazio testuale che in assito Stella Monesi (e lo stesso Dammacco) traducono come un altrove allestito ed esposto proprio qui, stasera: d'intorno un mobilio-feticcio composto dal riassemblaggio di rami d'albero, cassette da frutta, piccole botti da vino, bastoni e cassetti (a un tempo accumulato antiquariato di risulta e sagome umano-materiche dei fantasmi che di notte cingono la zia), qui e lì oggetti che saranno agiti durante lo spettacolo (un secchio, un ombrello, le sedie, la valigia con dentro un pallone, una cornice con dodici lumini e un paio di lenti di ingrandimento per leggere meglio la "gara d'appalto del minore"), dall'alto o dai lati vengono tagli di luce fredda, calda o colorata ad hoc per sottolineare una frase o un momento (quattro luci blu, ad esempio, servono a dire delle altrettante telefonate fatte dal nipote al telefono azzurro) mentre in assito un ampio quadrato di terriccio fa da pavimento effettivo del salotto così dicendoci che questa donna è già quasi interrata e, dicendoci inoltre, che questo è lo spazio realizzato e specifico dell'attrice e del suo personaggio.
La stanza de La buona educazione è quindi la forma ulteriore assunta dalla soglia-tappeto de L'inferno e la fanciulla e dalla zattera/isola/appartamento di Esilio, con un'evoluzione tuttavia: qui l'ambiente viene vissuto tridimensionalmente da una figura che, nel contempo, lima le caratteristiche grottesco-marionettistiche che avevano l'adulta/bambina e l'Omino assumendo – pur nell'ostentazione manierata di gesti, pose, posizioni, dinamiche di movimento, volteggi dal valore emotivo, pause fisiche e silenzi verbali – tratti più umani che burattineschi rispetto al passato e dunque: lo sguardo al soffitto è una messa in relazione della donna coi genitori morti; l'indice mosso nell'aria serve per rafforzare il “che poi sarei io”; le braccia incrociate sul petto anticipano il primo abbraccio che la zia dà al nipote; la mano destra sulla fronte aggrava la frase “ho sbagliato”; le mani portate alle ginocchia rappresentano la posa assunta dal ragazzo in ascolto; le maniche della giacca alzate ai gomiti rafforzano la battuta “allora attacco, ci provo” mentre per comprendere quanto strazio e quanta  tristezza (forse anche quanta rabbia, verso gli altri e verso se stessa) provi la zia basta notare come Serena Balivo stringe tra le mani il fazzoletto bianco di cotone, così sfogando un dolore che “l'anima mia non deve dare a vedere”.
Segni – solo alcuni – che testimoniano l'esistenza di una poetica espressiva che si sta confermando spettacolo dopo spettacolo.
Infine.
La Piccola Compagnia Dammacco è una scheggia minuscola: composta da tre elementi, sopravvive delle repliche che riesce faticosamente a procurarsi. Ha numeri bassi per gli alti minimali e i parametri algoritmici del FUS e tempi di gestazione troppo lunghi per un sistema (di finanziamenti, di bandi, di premi, di festival voraci di anteprime) che costringe alla produzione semestrale o annuale e che induce all'immediata sostituzione di un titolo con un nuovo titolo, di un prodotto col nuovo prodotto già pronto. Non ha un proprio spazio, questa compagnia, tanto da usare (a parte i periodi di residenza trascorsi in giro per l'Italia) le pareti di casa e lo sportello del frigo come appoggio per i post-it con su scritti lembi della drammaturgia e se in Esilio la pedana su cui si muove l'Omino misura due metri e quaranta per due metri e quaranta è perché queste sono le misure della sala prove a disposizione: sala prove che coincide col salotto di casa Dammacco. Priva dunque di un proprio teatro – buono, ad esempio, per lo scambio di spettacoli e dunque per circuitare, foss'anche a livello locale –, ostinatamente intenta a lavorare prendendosi tutto il tempo necessario (almeno due anni servono alla compagnia per elaborare testo, regia, scene e interpretazione: L'inferno e la fanciulla è del 2014; Esilio del 2016; La buona educazione ha debuttato nel 2018), la Piccola Compagnia Dammacco – per usare le parole dei loro testi – si sta faticosamente abituando a “stare all'inferno con una dignità inimmaginabile” e, per quanto – chissà – sia forse animata dalla voglia di “urlare”, di “chiedere aiuto”, di “essere meno bella, ispirare meno tenerezza”, non rinuncia tuttavia al (serio) processo realizzativo che la contraddistingue. Pertanto mi viene adesso da chiedere: in che condizioni questa preziosa cellula artistica può sopravvivere in un contesto teatrale sempre più (anch'esso) iperattivo, rutilante e distratto,  votato alla celerità assemblativa e  all'immediata sostituibilità dell'offerta? In che maniera può ancora continuare ad apparire, dicendo ciò che sta cercando di dire nel modo in cui ha scelto di dirlo? Insomma: questo suo modo di stare al mondo (questo suo modo di pensare e di fare il teatro) ha ancora una vita davanti? E in che maniera – rispettando se stessa, il proprio lessico e il proprio immaginario, non rinunciando dunque a ciò in cui crede e che ritiene vitale sul piano creativo – può continuare a parlare, comunicare, esistere ancora?
Sono, in fondo, le stesse domande che si fa la zia ponendosi in relazione con il nipote e – questo – mi sembra un altro (l'ultimo) modo d'intendere La buona educazione.
Potrò vivere ancora, potrò ancora tentare di parlare davvero con te, o devo lasciar perdere?

 



leggi anche:
Alessandro Toppi, L'esilio politico dell'uomo flessibile (Il Pickwick, 4 marzo 2018)
Alessandro Toppi, L'adulta bambina (Il Pickwick, 10 marzo 2015)

 

 

MutaVerso Teatro
La buona educazione
ideazione, drammaturgia, regia Mariano Dammacco
con Serena Balivo
spazio scenico Mariano Dammacco, Stella Monesi
produzione Piccola Compagnia Dammacco, Teatro di Dioniso
in collaborazione con L'alboreto Teatro Dimora, Teatro Franco Parenti, Primavera dei Teatri, Asti Teatro 40
con il sostegno delle residenze artistiche Compagnia Diaghilev Residenza Teatro Van Westrhout, residenza Teatrale di Novoli (Principio Attivo Teatro, Factory Compagnia Transatlantica), Giallo Mare Minimal Teatro, Capotrave Kilowatt, Residenza Teatrale Qui e Ora
foto di scena Luca Del Pia
lingua italiano
durata 1h
Salerno, Auditorium Centro Sociale, 11 gennaio 2019
in scena 11 gennaio 2019 (data unica)

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