“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 13 May 2015 00:00

L'efficacia della semplicità

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La vita come una strada da percorrere, la bici come metafora del cammino, con le salite da affrontare e le cadute da cui rialzarsi. C’è un uomo solo al comando, in questo spettacolo, ma la sua maglia non è bianco-celeste ed il suo nome non è Fausto Coppi; c’è un solo uomo, e forse non è nemmeno al comando, almeno non nel senso epico delle gesta sportive, ma c’è un uomo solo sulla scena ed indossa una camicia rossa come la passione. E racconta una storia; una storia di sacrifici e sentimenti, una storia che si esprime nel lessico familiare della terra in cui si svolge, la Calabria.

Essenziale la scena come semplice e asciutto è il racconto, monologo per voci alternate, in cui i personaggi cardine attorno ai quali ruota la narrazione sono un padre ed un figlio; la bicicletta a cavallo della quale trascorrono la vita è in scena, ferma da un lato; dall’altro un baule chiuso è custodia memoriale; nel mezzo solo una sedia, “cavalcata” come una bici da Lorenzo Praticò, che vi ondeggia come stesse pedalando, recita come stesse in corsa, chino su un manubrio immaginario, al ritmo ossessivo di un mantra agonistico: “Spingi e respira”.
Il ciclismo, col suo carico di sudore e sofferenza diviene così metafora portata in assito, racconto di una genealogia che pedala fra due generazioni, in cui una – quella dei padri – si fa depositaria di una saggezza da tramandare e l’altra – quella dei figli – ne è destinataria e al contempo, in parte, anche traditrice. Perché la vita, come l’asfalto su cui si spingono le ruote, è piena di insidie, di asperità, di “’nchianate” (salite) da affrontare e “uno scalatore la salita se la porta dentro”, così come si porta dentro le proprie incertezze e sofferenze anche quando scende di sella, anche quando la strada da percorrere è quella che conduce al cuore della donna desiderata; e “’a ‘nchianata cumme ‘a fimmina non ci mette niente a buttarti a terra”.
C’è dunque una storia semplice che si racconta in assito, una piccola epopea familiare che si tramanda di padre in figlio e che nel baule dei ricordi conserva un dolore ancestrale, un segreto reticente che ne è il motore recondito, col suo dramma lontano; il tutto prende forma su scena in un racconto dal ritmo serrato, da passista veloce, se vogliamo attenerci al gergo ciclistico; il gioco alternato dei personaggi a cui Lorenzo Praticò dà voce è affidato a cambi di postura su quella stessa sedia che ora scricchiola e ondeggia sotto la spinta e il respiro del figlio ciclista ancora in corsa facendosi surrogato di bici, ora accoglie il motteggiare sentenzioso del padre che più non corre e che ritto nelle spalle dispensa consigli ed ammaestramenti, oppure esprime dissenso quando il figlio va “fuori strada”: l’accenno al doping, rimasto come traccia appena accennata, una delle “cadute” che interrompono il ritmo della spinta e della respirazione, viene liquidata lapidariamente con un “Nun è chista la bicicletta che t’insegnai eu”, sancendo una sorta di conflitto generazionale fra valore e disvalore.
E c’è poi l’uso chiaroscurale delle luci, che variano alternativamente fra il rosso e il nero, fra la passione e la tenebra, scandendo i momenti contrastanti, la salita e la discesa, la corsa e la caduta, l’amore ed il dolore. Sullo sfondo, il mito di riferimento che alberga nella normalità del campione umano, la figura di Fiorenzo Magni, “il terzo uomo” ai tempi di Bartali e Coppi, del quale si susseguono le immagini nei vecchi filmati dell’Istituto Luce, e del quale rivive la memoria nella voce epica di Mario Ferretti; Fiorenzo Magni, campione normale al tempo dei miti, che lotta e combatte vincendo, che abbatte i “muri” fiamminghi conquistandosi l’appellativo di “Leone delle Fiandre”; è lui a costituire il punto di riferimento per questa piccola mitologia familiare che si snoda per le strade di Calabria, e che celebra la fatica, la sofferenza, il sacrificio, consumati nel segno di un ideale più grande e più saldo, che è quello che sulla scena si conserva nel baule, nell’intima epopea familiare che vive nel ricordo di chi più non c’è ma si perpetua e si eterna in una bicicletta che ne porta impresso il nome, “Sara”. Una storia semplice, nulla di strabiliante; ma siamo dinanzi ad uno di quei casi in cui a una storia basta essere normale, senza fronzoli e colpi di scena, per funzionare in assito; le basta anche perché asciutto ne è il racconto, equilibrata la partitura teatrale, affidata ad una narrazione serrata, che sa dosare i toni e che manifesta consapevolezza teatrale nel saper evocare, con pochi gesti quegli sparuti oggetti che completano la narrazione, siano essi una tazza di caffè da sorseggiare o delle polpette casalinghe da impastare; sapiente e calibrato l’uso delle luci, non invasivo il ricorso alle immagini proiettate, che ben assolvono al compito dell’amarcord evocativo della figura di Fiorenzo Magni, lasciandola comunque in tralice, in una penombra che non oscuri il fulcro principale della storia. Narrazione che procede per metaforiche allusioni, per evocazioni e ritorni al presente; procede nell’andamento desultorio di una strada che prevede pianura e salite e che presuppone cuore, tendini e polmoni; una strada che continua oltre la bici, perché si può “smettere di correre ma non di pedalare” e c’è un traguardo chiamato amore, che rappresenta lo snodo a partire dal quale far ripartire una ciclicità generazionale.
C’è un uomo solo che non è forse mai stato al comando e che forse, adesso non è più nemmeno solo e che continua la sua corsa da vincitore, mentre risuonano le note dei Dire Straits, Romeo and Juliet, a suggerire che quel traguardo chiamato amore è appena stato tagliato.

 

 

 

 

GEOgrafie  – Teatri della contemporaneità, atto I/La Calabria
Spingi e respira
scritto e interpretato da Lorenzo Praticò
regia Lorenzo Praticò, Gaetano Tramonata
progetto grafico e scenografico a cura di Giuseppe Praticò, Marcella Praticò
illustrazioni Fabrizio De Masi
montaggio video Lucio Lepri
produzione Spazio Teatro – Reggio Calabria
con il patrocinio di Federazione Ciclistica Italiana
lingua italiano, dialetto calabrese
durata 1h
Salerno, Piccolo Teatro del Giullare, 8 maggio 2015
in scena 8 maggio 2015 (data unica)

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