“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 01 March 2015 00:00

Frammenti paterni

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Caro papà,
recentemente ti è capitato di chiedermi perché affermo
che avrei paura di te. Come al solito non ho saputo
risponderti, in parte appunto per la paura che mi incuti,
in parte perché motivare questa paura richiederebbe
troppi particolari. 
                                 (Franz Kafka, Lettera al padre)

 

Gabriele Vacis intende e usa il palco come un luogo d’incontro, uno spazio di differenze messe in comune, il posto nel quale – convergendo da direzioni diverse – ci si ritrova a condividere lo stesso tempo e una stessa parola. Qui convoca sei donne, suggerisce loro il termine “padre” e comincia ad ascoltare ciò che ne consegue; ne viene un lungo processo fatto di interviste, colloqui individuali e collettivi, fatto di narrazioni private, di confessioni, ricordi personali che diventano parte di una tessitura unitaria perché, dai racconti, venga una trama di cui siano co-autrici di fatto le sei donne che lo hanno generato.

Vacis poi s’interroga su come poter rendere ciò che è l’opposto del teatro: la vita. Elabora così una strategia estetica e pensa a come alternare i flussi narrativi, a come intrecciarli facendoli passare dall’una all’altra delle interpreti come si passa una parola – quella parola – quando, ad esempio, si gioca(va) al telefono senza fili: “papà”, “tata”, “tato”, “tatko”. Pensa così a una parete di centosettantasei boccioni vuoti di plastica che, abbattuta da Irina, permetta di usare questi stessi boccioni come fossero mattoncini del Lego: buoni per costruire la pista di un aeroporto perché Maria Rosaria la percorra prima di cadere; buoni a rendere Venezia perché Ola la sorvoli ricordando il suo viaggio; buoni a replicare lo schema del Pacman perché Simona vi si muova all’interno per poi finirne intrappolata.
Tuttavia Vacis si rende conto che non basta e che occorre usare le immagini (i video, l’home page di un profilo Facebook, la proiezione di vecchie foto) e che alle immagini occorre aggiungere la musica (Le variazioni Goldberg di Glen Gould, Father and Son di Cat Stevens, lo Stabat Mater di Vivaldi) e che questo insieme di parole, boccioni, immagini e musica non può determinare una messinscena illusoria, verosimile, interpretata canonicamente, da interno chiuso tra quattro pareti e che è necessario invece imbastire una comunicazione diretta col pubblico: perciò l’illuminazione parziale della sala, il cambio d’abiti fatto a vista, le attrici che liberamente possono salire e scendere dal palco e sedere in platea, interrogando gli astanti o rivolgendosi ad essi stando frontalmente in ribalta, in piedi o sedute.
Ancora.
Vacis chiede alle sei donne d’essere ad un tempo attrici e spettatrici del proprio racconto; di accompagnare la storia di un’altra prendendovi parte, assumendovi un ruolo e dicendone una battuta; di compartecipare (con mimica, gesti, postura del corpo) perché il dolore o la gioia dell’una diventi il dolore e la gioia di tutte. S’inventa un’identica apertura e chiusura di spettacolo, Vacis, con le donne che, in gruppo e a centro palco, ondeggiano: come si ondeggia quando si traversa il mare, certo, essendo questo spettacolo nato dall’attraversamento dell’Adriatico, ma come si ondeggia anche quando si è nel pieno del flusso delle proprie memorie e ci si barcamena, quindi, nel punto in cui il passato s’unisce al presente. Inoltre: confonde i piani vocali sovrapponendo il labiale muto alla voce metallica di Google Traslate e (s)maschera i generi sessuali con l’uso di abiti maschili o di carta igienica infilata nei boxer e – quando deve evocare la bruttezza della Jugoslavia d’un tempo – fa partire Hot Problem delle Double Take (la canzone peggiore di sempre, secondo un recente sondaggio YouTube).

Tutto questo per dire che La parola padre è uno spettacolo pieno di segni visivi, di trasfigurazioni istantanee, di metafore sceniche offerte una dopo l’altra; un insieme che non sempre funziona a dovere perché – talora – mi sembra si ecceda in ripetitività e mi sembra che, alcuni momenti (penso alla ricostruzione del muro di boccioni), determinino un rallentamento dello spettacolo inducendo alla distrazione, al distacco o alla stanchezza chi osserva. Nel complesso parlerei quindi di un insieme che procede per montaggio, per continua ridefinizione dello spazio d’azione, e che alterna scene di grande impatto (il monologo finale di Alessandra) ad altre delle quali il significato non si rivela, è più oscuro, non è facilmente comprensibile: almeno per me.
Nonostante l’opacità di alcuni frammenti e l’evidente costruzione ottenuta per associazione, traduzione ed accumulo estetico, dall’insieme magmatico mi pare che comunque emerga la parola, protagonista inevitabile di questa babele straniante e votata alla trasmissione di pathos: la parola come fonte di emozioni e di consapevolezza, come strumento di conoscenza e di comprensione, come ragione di patimento e di vicinanza umorale. T’arrivano così frasi che, nella loro semplicità, sembra ti riguardino; ascolti brevi dialoghi in cui ti senti chiamato in causa; ricevi monologhi che ti spingono a pensare a tuo padre.
“Sarà che l’ultima volta che ti ho visto avevi quello strano fischio nel respiro: ti sei fatto vedere? Hai fatto qualche analisi?”
“Papà, lo sai che io, adesso, ho la stessa età che avevi quando sono nata?”
“Per me puoi tornare quando vuoi, ma tuo padre, lo sai, finché non sei rientrata non viene a letto”.
Oppure.
“Da bambina tutti mi dicevano che assomigliavo a mio padre e io piangevo”.
“Da quando, papà, non vai a nuotare perché ti vergogni di farti vedere?”.
“Ho messo la tua foto sul desktop. In questa foto hai trentuno anni, la mia età di adesso. Nel 2013 io ho trentuno anni, mio padre ha sessantadue anni, quand’è che mio padre ha avuto trentuno anni? Mio padre ha avuto trentuno anni nell’81. E io? Quand’è che io avrò la stessa età di mio padre? Io avrò sessantadue anni nel 2043 e, se io avrò sessantadue anni nel 2043, mio padre ne avrà…”.

Opera di passioni, verrebbe da scrivere, perché finalizzata a riattivare, esasperare, smuovere e terremotare le emozioni sedimentate convocandole in scena all'istante (e dunque sospendendo la loro storia e le loro differenze), funzionando da denotatore collettivo delle cariche emotive dei singoli spettatori, La parola padre mi impedisce quasi una valutazione critica e distaccata perché bilancia le imperfezioni formali con l’intensità emotiva che genera all’ascolto. Dovessi definirlo direi che si tratta di un viaggio verso l’ignoto, con quest’ultimo termine – “ignoto” – che assume una doppia valenza.
C’è innanzitutto l’ignoto offertoci da Alessandra, Anna Chiara e da Maria Rosaria (le tre donne italiane della compagnia); di natura domestica, familiare, interrelazionale, per le tre il padre è colui che le ha generate e cresciute. Si tratta, dunque, di un ignoto individuale che viene condiviso: la passeggiata sul lungomare, di domenica mattina, fatta invece di andare in chiesa; le gare di nuoto, iniziate per scherzo e oggi impossibili a causa della stanchezza, della vecchiaia, della vergogna; quel bacio subito di nascosto e che non si è mai avuto il coraggio di denunciare. Il loro è l’ignoto della storia singola che viene offerta al pubblico, ha la natura del frammento biografico che viene recuperato da un fondo segreto e posto alla luce, somiglia alle memorie riscoperte guardando un album di foto, leggendo le pagine di un diario ingiallito, trovando lettere che sono state scritte quel giorno.
C’è poi l’ignoto di Serena, di Ola e di Irina, che è l’altro ignoto ovvero quello che appartiene alle tre donne che giungono d’oltre cortina, dall’Est che è stato comunista, dalle terre (Macedonia, Polonia, Bulgaria) in cui “padre” si fonde con “patria” determinandosi anche nell’accezione di “padre della patria”. Si tratta qui di comprendere un genere di filiazione diversa, orgogliosa anche se imposta, nostalgica tra amarezza e ironia, verso cui emergono intensissimi i sentimenti contrastanti di affetto e di odio, di rancore e di benevolenza, di sollievo e fastidio. “Il mio nome è Simona. Sono nata a Skopje. Skopje è in Macedonia”; scopriamo così che Macedonia vuol dire Alessandro Magno e che, Alessandro Magno, vuol dire indotti contrasti identitari e nazionalistici coi greci, coi serbi, con gli albanesi: “Alessandro Magno, lo odio!” e lo odia, Simona, perché è in nome di questo padre della patria che non ha potuto “essere amica dei suoi amici”.
Così de La parola padre  − tre giorni dopo averlo visto − mi rimangono frammenti, lacerti, singoli momenti episodici piuttosto che una vera e propria sensazione d'insieme. Certo, mi rimane la plurisignificatività del termine “padre”, che mi fa pensare – ad un tempo – all’avvizzimento delle forze e al crollo dei regimi, alle malattie e alla dottrina politica, ai sorrisi d’allora e ad un sogno infiacchito dalla miseria; mi fa pensare alle tempie canute di chi si fa anziano e alle file di sei ore per avere un pezzo di pane; “agli occhi, al naso, alla bocca”, così somiglianti rispetto a quelli di chi ci precede e a Tito, Zirkov, ai dittatori che si salutavano col pugno chiuso, una stretta di mano e poi con un bacio. Ma soprattutto mi rimane un concetto espresso da Simona e sul quale m'interrogo ancora (“In questo spettacolo le ragazze piangono continuamente, perché questo è un momento in cui noi ragazze d’Europa abbiamo voglia di piangere come fontane”), mi rimangono le lacrime di Irina, l'intreccio delle lingue, il fotogramma della bandiera europea, i sei grossi fari che si spengono lentamente; mi rimane il silenzio di Anna Chiara, un boccione portato come si porta un bambino, la frase "Eri una specie di astrazione, un totem, un mito" e mi rimane la fragilità, forte e delicata assieme, di Maria Rosaria quando dice: “Scusa papà, scusa… volevo solo sapere quanto tempo mi rimane… quanto tempo mi rimane da vivere… e quale tempo”.
Resti, avanzi, particolari di un tema vastissimo e non risolvibile giacché, per dirla con Kafka, sopravanza "di gran lunga ogni memoria".

 

 

 

 

 

La parola padre
drammaturgia e regia Gabriele Vacis
scenografia e allestimento Roberto Tarasco
coordinamento artistico Salvatore Tramacere
con Irina Andreevna, Alessandra Cocco, Aleksandra Gronowska, Anna Chiara Ingrosso, Maria Rosaria Ponzetta, Simona Spirovka
assistente alla regia Carlo Durante
training Barbara Bonriposi
tecnico Mario Daniele, Klaidi Kulja
organizzazione Laura Scorrano
foto di scena Alessandro Colazzo
produzione Cantieri Teatrali Koreja
nell'ambito del progetto Archeo S./Programma di Cooperazione Transfrontaliero IPA Adriatico
lingua italiano, inglese, macedone, bulgaro, polacco
durata 1h 30'
Napoli, Teatro Nuovo, 25 febbraio 2015
in scena dal 25 febbraio al 1° marzo 2015

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