“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 02 March 2015 00:00

Una Parure per perdersi o salvarsi

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Una giovane donna bella e seducente, seduta su di una poltrona rosa antico, con occhi semichiusi e uno sfingeo sorriso lascia andare i pensieri all'inseguimento di ricordi talmente lontani da sembrare appartenere ad una sua vita precedente. Parla di sé in terza persona perché in questo modo è stata forgiata dalla penna paterna di Maupassant, e a quella penna − a parole − ha intenzione di restare fedele fino alla fine. Tra tredici raccolte di racconti La parure − scritta dopo la morte del suo amatissimo Flaubert − è tra i più famosi racconti dell'autore, tanto da ispirare diverse trasposizioni cinematografiche: Chabrol, ad esempio, nel 2007 vi trasse un mediometraggio di mezz'ora per la serie Chez Maupassant.

"Era una di quelle ragazze belle e seducenti che nascono, come per un errore del destino, in una famiglia d'impiegati. Era senza dote, senza speranze, non aveva alcuna possibilità d'essere conosciuta, capita, amata e sposata da un uomo ricco e raffinato; e lasciò che la sposassero a un impiegatuccio del ministero della Pubblica Istruzione. Non potendo far lussi, si vestì con semplicità, ma fu infelice, come se fosse degradata; perché le donne non appartengono a una casta o a una razza: bellezza, grazia e fascino sostituiscono per loro nascita e famiglia... ".
L'inizio di questo racconto ha un forte influsso Flaubertiano − Mathilde Loisel, la protagonista, ha tutto l'aspetto, le velleità e la medesima infelicità di una Madame Bovary − ma, nel suo evoluire, ne prende le distanze immettendosi su di un diverso binario del destino per osservarne, dietro le quinte, gli effetti che lo stesso produce sull'animo umano. "Che sarebbe accaduto se non avesse perso la collana? Chi lo sa? Com'è strana la vita, e mutevole! Quanto poco ci vuole per perdersi o salvarsi!".
In questa trasposizione teatrale, Roussel, cerca e trova la strada per lasciare inviolato il testo e, allo stesso tempo, sottrarre Mathilde dal suo confine ottocentesco e condurla nei ben più crudeli 'tempi moderni'. All'inizio la narrazione scorre lieve, Ludmilla Klejniak è la perfetta incarnazione della Mathilde di Maupassant − è bella, elegante e seducente − modula la voce e la mimica facciale esaltando l'impalpabile aura diafana del suo personaggio, complesso e tormentato, creando una distanza incolmabile con la figura del marito i cui dialoghi vengono caricati da una patina di goffa ottusità impiegatizia. Dopo il racconto del ballo Mathilde esce di scena per pochi minuti e al suo rientro non sarà più la stessa. In quei minuti il regista introduce il primo dei tanti interventi sovvertitori volti a sottrarre il racconto al tempo dell'autore: un filmato apre le porte alla scena del ballo inserendosi ad arte in quel vuoto letterario lasciato da Maupassant all'immaginazione del lettore. Il regista colma quel vuoto con immagini kubrickiane, sguardi maschili ambigui e lascivi seguono il trionfo della signora Loisel: "Era la più bella di tutte, elegante, graziosa, sorridente, fuor di sé dalla gioia. Tutti gli uomini la guardavano, chiedevano chi fosse, cercavano d'esserle presentati".
La statua di una dea ellenica la osserva rivolgendo il suo enigmatico sorriso a chi non farà più di una comparsa in quell'Olimpo che non le appartiene e mai le apparterrà. Assiste impietrita a quel trionfo che precede una velocissima discesa verso l'inferno della povertà assoluta. Un'altra Matilde dall'alto di una balausta tenta di illuminarla con una torcia, e un'altra ancora avvolta in un mantello nero la osserva dimenarsi, felice e ignara, al ritmo di suoni sguaiati.
Madame Loisel finisce il suo ballo tra le braccia di uno strano personaggio, ha una camicia a scacchi rossa e nera e indossa un monocolo. Si tratta di Luc Schiltz, interprete di Monocle − precedente lavoro del regista e trasposizione teatrale del quadro di Otto Dix Ritratto della giornalista Sylvia von Harden − che ha abbandonato il suo quadro e la sua pièce per inserirsi anch'egli in quel vuoto narrativo sovvertendone lo spazio e il tempo. Un parallelismo tra due personaggi che nulla hanno in comune tra loro − dato che lo svolgersi delle loro vicende è circoscritto entro i confini delle loro individualità teatrali − se non il loro esistere esclusivamente nell'arte: sulla carta, sulla tela e in scena.
Ludmilla Klejniak torna sul palcoscenico col vestito della festa, non ha più la collana di diamanti, e con la rassegnazione umana di chi non può interferire col destino prosegue nel racconto spogliandosi dell'abito. Sono arrivati i tempi della sofferenza e del dolore: la perdita della collana da restituire all'amica, l'onore da salvaguardare con la vita, la vendita della casa, gli strozzini, l'acquisto di una nuova collana uguale, i dieci anni di duro lavoro e di miseria per ripagare tutti i debiti. Ed è qui che si inserisce la seconda, notevole, variante al tema. Il racconto parla dei molti lavori accettati dal marito, del suo rincasare la sera tardi, del licenziamento della servetta, dei lavori domestici di cui si sobbarca la signora Loisel e delle sue mani rosse e screpolate, ed è questo che ci racconta anche lei stessa − Mathilde − ma, la sua narrazione, ha perso la tranquilla fluidità di un tempo, i continui richiami del campanello la interrompono e lei, ancora in biancheria intima, prima di andare incontro al richiamo fruga nella cassetta portagioie riposta sopra il tavolino, ne estrae qualcosa e al suo ritorno vi depone qualcos'altro.
Il racconto riprende ma stavolta sono i messaggi del telefonino che la richiamano ai suoi nuovi doveri. Poi sente il dovere di mostrare davanti ad uno specchio le sue armi seduttive e le sue grazie. Mathilde dopo dieci anni di questo viavai di campanelli, messaggi, balletti, oggetti sospetti sottratti dal portagioie e sostituiti col denaro nascosto tra i seni, salderà i suoi debiti, ma non come c'ha raccontato il signor Guy.
Il finale, invece, è esattamente come l'ha descritto lui. Tutto resta a mezz'aria, tutto è sospeso sul silenzio, Maupassant non giudica e Mathilde non commenta. Talvolta per comprendere l'assenza del dolore è necessario soffrire: "Che sarebbe accaduto se non avesse perso la collana? Chi lo sa? Com'è strana la vita, e mutevole! Quanto poco ci vuole per perdersi o salvarsi!".
Stabilire se Mathilde si sia persa o salvata è un altro spazio vuoto che l'autore e questa volta, anche il regista, ha preferito lasciare alla valutazione di ognuno di noi.



 

 

 

La parure
composizione scenica dalla novella La parure
di Guy de Maupassant
concetto e regia Stéphane Ghislain Roussel
con Ludmilla Klejniak
video Laurent La Rosa
scenografia Stéphane Ghislain Roussel, Stéphanie Laruade
luci Patrick Grandvuillemin
produzione Compagnia Ghislain Roussel
lingua francese con sottotitoli italiano
durata 1h
Napoli, Galleria Toledo, 28 febbraio 2015
in scena dal 25 al 28 febbraio 2015

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