“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 19 June 2014 00:00

Appunti sul Vanja di Savignone

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(una vecchia casa)
Marcelo Savignone riempie il palco di ciarpame: un tavolo, un divano, tre sedie, un mobiletto con sopra un orologio e un posacenere, un giradischi, un carrello a due piani e – su ogni piano –  un vassoio con bottiglie da liquore e bicchieri di misura differente. Ancora: un lampadario, un tavolino esagonale, una sedia a rotelle, un grosso baule dal cui orlo s’intravedono cuscini, una chitarra, un violino. A destra, con la testiera alla parete di fondo, piazza un letto su cui adagia un cane di cartone; nell’angolo sistema una panca, altre sedie le colloca a sinistra. Poi, nel mezzo, c’è una porta gialla.

L’accumulo sembra voler dire che s’ambienta lo Zio Vanja in una vecchia casa in decadenza, una di quelle vecchie case in cui – gli oggetti che non funzionano – vengono comunque conservati: l’orologio è senza lancette, i portalumini da tavolo giacciono inutilizzati, il lampadario non ha le lampadine.
È una casa, questa, alla maniera di quelle in cui abitavano i personaggi delle telenovelas argentine degli anni Ottanta trasmesse, in Italia, da canali privati, locali e ormai scomparsi: case di cui si immagina l’odore rancido, di cui si percepisce la presenza della polvere, di cui si nota la tristezza e la modestia.
Ma l’accumulo prevede anche questa porta gialla, semovibile e centrale, tenuta in piedi da ganci e ruote al palco. È un segno questa porta che non ha pareti e che separa una stanza dall'altra senza separare per davvero ed allora – questa porta – ci dice che Marcelo Savignone gioca con lo Zio Vanja cercando anche di renderlo una mascherata, una burla, un divertimento scenico.
Essendo il realismo ormai impossibile, le cose, dunque, si usano per alludere al kitsch latinoamericano e per produrre uno spettacolo caricaturale, eccessivo, digrossato e fuori norma. Dunque diremo che la scena risponde a due principi:
− svelamento del teatro fatto in teatro (monologhi detti in ribalta, con lo sguardo al pubblico, in piena luce rossa; attori che sostano sui lati, in attesa di riprendere la recita; movimenti innaturali in spazi metaforici e irreali).
−  ideale congiunzione tra la Russia del primo Novecento e certa Argentina natia che, il regista, sente attuale: nel segno di una condizione comune di povertà materiale e di una propensione all’abbandono e alla monotonia, al tedio, all’inazione, all’inefficacia (individuale e collettiva).


(zio Vanja)
Zio Vanja picchia gli altri indossando un guantone da boxe, gioca con i dardi, mette un disco. Dorme sul divano perché Astrov, il medico, ormai “viene tutti i giorni” occupandogli la stanza. Si aggira in questo spazio ingombro imbattendosi – suo malgrado – nei propri familiari. Va a zonzo tra ribalta e fondo scena, siede al tavolo, poi torna al divano, dal divano s’alza, torna al tavolo, si avvicina al mobiletto, mette un disco, non sa come impiegare i cinque minuti successivi ed allora inventa un gioco, smette il gioco, torna al tavolo, poi torna sul divano. Ciò che vale per il corpo vale per la voce e le battute, ripetute più volte e con un tono che alterna la farsa e la disperazione.  
Marcelo Savignone fa di zio Vanja un sognatore abulico, palesemente squattrinato, dallo sguardo un po’ imbolsito. I suoi vestiti sono stropicciati, i passi incerti, la barba sfatta da qualche giorno. “Che ci faccio qui?” sembra chiedersi, sapendo però bene che non c’è un altro posto in cui potrebbe andare. A un tempo questa casa gli fa da tana, da rifugio, da luogo di salvezza e di sopravvivenza ma è anche una cella, una galera, una gabbia in cui è lecito o inevitabile prima o poi ammattire.
Ha brevi momenti di consapevolezza (i monologhi čechoviani di primo e terzo atto) che placano lo spettacolo, lo fermano, l’oscurano (calano le luci, gli altri scompaiono, l’attore recita il suo a-parte) ma che durano meno di uno scatto di lancette. Poi farfuglia ancora qualche cosa, torna a centro palco, dà l'inizio alla scena successiva. Tutto torna chiaro, torna affollato, confuso, inutile e veloce.


(il professore)
Il co-protagonista di questo Zio Vanja che diventa Un Vania è il professore Aleksandr Vladimirovič Serebrjakov. Questo anziano pedante, questa “tinca erudita”, che scrive d’arte ma che di arte non capisce nulla; che è arrivato alla cattedra accademica per conoscenze e per favori; che rimastica idee altrui su realismo, naturalismo e altre simili panzane (ri)usando ciò che “agli intelligenti è già noto da tempo” e che “per gli stupidi è privo d’interesse” diventa – ancora più che in Čechov – un simbolo, un’icona, l’emblema di una generazione (passata) che, senza studi e senza meriti, ha raggiunto il suo benessere e che adesso se lo gode vegetando: come una pianta, un sopramobile; come un pupo, un manichino.
Un manichino, lo abbiamo scritto. Perché in Un Vania il professore è un manichino: trascinato per casa su una sedia a rotelle (sappiamo che è vittima di “podagra, reumatismi, emicrania” e ha il “fegato ingrossato dalla gelosia”), disteso sul letto, spogliato e rivestito come si spoglia e si riveste un corpo inerte, un incapace, un pigro o un uomo vivo ma che ormai non vive e che sembra già un cadavere.
La scelta è quella di farne una figura passiva, inanimata e tuttavia capace di incidere sulle vite altrui (Elena, Son’ja, Vanja, Marija) già soltanto presenziando, essendoci, continuando a esistere. D’altronde – leggiamo dall’opera – “la sua prima moglie “ lo amava “come solo gli angeli” sanno amare; la sua seconda moglie gli sacrifica “bellezza, libertà, la propria vivacità” mentre sua suocera, “ancora oggi lo adora e ancora oggi egli incute, in lei, un sacro terrore”. Quanto a Vanja – giacché è di Vanja contro Serebriakov che occorre scrivere – ha lavorato per il professore, traducendo libri e copiando carte; per conto del professore ha amministrato la tenuta; al professore ha rivolto ogni attenzione, ogni pensiero, ogni illusione salvo scoprire che – per il professore – ha sprecato tutto il proprio tempo, tutte le sue capacità, tutta l’esistenza: “Tu hai fatto scempio della mia vita! Io non ho vissuto, non ho vissuto! Per bontà tua ho rovinato, distrutto i migliori anni della mia vita! Sei il mio peggior nemico!”.
Il manichino, quindi, serve a Marcelo Savignone per rendere con immediatezza quasi vignettistica i rapporti che sussitono all’interno della casa; basti pensare alla scena del terzo atto, in cui il professore espone il piano economico: tutti gli interpreti si posizionano attorno al letto, su cui è adagiato il fantoccio; s’accalcano, conversano, applaudono; s’intrattengono acconsentendo e ridacchiando mentre Vanja se ne sta sulla soglia, a più di un metro di distanza. Così Savignone rende la subordinazione collettiva e – contemporaneamente – la diversità tra Vanja ed il resto della combriccola.
Proviamo a ragionare. La casa è un regno, il professore è un sovrano, la famiglia fa da corte, Vanja ne è l’avversario e, per questo, viene trattato come fosse un pazzo. Vi ricorda qualcosa? A noi l’Amleto. E infatti…


(Amleto)
“Vanja, smettila di dormire”.
“Dormire, dormire, forse  sognare… Sì, è qui l’ostacolo, perché…”. Zio Vanja cita Amleto e allora si deve pensare che, per Marcelo Savignone, l’opera di Čechov è (anche) un dramma dialettico, una tragedia della morale, un’opera sulla presa di coscienza della propria condizione senza che, a questa presa di coscienza, segua una vera ribellione. 
Zio Vanja cita Amleto e – perché sia più forte l’allusione al testo shakespeariano – Marija dice a un punto: “Vanja, due mesi dopo la morte di tuo padre ho avuto una scappatella con tuo zio”. Per cui possiamo scrivere di una rilettura più complessa che – assumendo forma moderna e colorata – cerca di rendere il comportamento di chi non si adagia ma comprende, comprende e soffre, soffre e s’agita, s’agita ma poi non conclude, finendo vittima della propria stessa incapacità, dei propri dubbi, delle proprie abitudini, della propria stanchezza fisica e mentale.
Dovrei vendicarmi, voglio vendicarmi, ho il compito di vendicarmi, devo vendicarmi ma non riesco a vendicarmi, lascio perdere e non mi vendico, abbandono il proposito della vendetta e torno a pensare – al massimo – che dovrei davvero vendicarmi.
Così zio Vanja perlustra il proprio spazio come Amleto perlustra il castello di Elsinore, spia i rapporti che vi sussistono ("Dormi, Vanja, non è interessante"), osserva, scruta, mugugna e trama, medita una rivincita, immagina il trionfo, crede per un attimo che sia possibile ristabilire una giustizia ma poi si arrende all’andamento solito, vischioso, ormai spossato: i gesti gli si legano, la volontà appassisce, lui fluttua come un tappo di sughero sull’acqua passeggiando senza senso, per finire poi afflosciato tra i cuscini del divano.
L’assenza di temperamento lo inebetisce, lo annoia, lo sfianca, non gli permette un riscatto, non gli consente la vittoria.


(insomma)
Insomma: Marcelo Savignone genera una ri-lettura scorciando di molto il testo; vivacizza il palco coi fari psichedelici e con il fumo da discoteca; aggiunge al teatro il metateatro per aggiungere la finzione alla finzione; costruisce una partitura mutando o riposizionando intere parti della trama, definendo macro-sequenze vivacissime intervallate da micro-sequente fatte di staticità e penombra; calca con fare quasi ossessivo sulla leggerezza čechoviana tramutandola in un vortice continuo di piccole invenzioni, aggiunte assurde, improvvise apparizioni; fin dall’inizio allude al principe danese cercando di realizzare (nella pratica) il dubbio teorico tra l’essere e il non essere, tra l’agire e il non agire.
Scherza teatralmente con i generi, Marcelo Savignone, fondendo il classico alla pochade, ammiccando al cabaret, riproponendo il proprio interesse per certo vintage para-televisivo d’Argentina; talora accelera inducendo al ballo i propri attori, talaltra rallenta proponendo echi onirici e flussi di coscienza (si pensi ai due spari di zio Vanja che diventano ben dodici: a braccio ormai calato, a pistola che non fuma).
Ha ben presente che la limitatezza dello spazio, la reiterazioni di frasi e gesti, certa impossibilità di relazione sentimentale sono alla base del testo di Čechov tanto quanto ha ben presente che il protagonista dell’opera è l’unico – a un punto –  che ha il coraggio di parlare tanto da essere spinto e ridotto presto a far silenzio, a tacere, a non fiatare: “Basta Vanja”; “Scusa, scusa, sto zitto”.
“Ma perché invece di litigare con tutti non cerchi di riconciliarti?” sentiamo dire a un punto e, di questa frase, ciò che conta è “con tutti” perché rende la solitudine assoluta e, quindi, l’assoluta alterità, del personaggio.
Ma se tutto questo azzardo è molto apprezzabile va detto con pari onestà che Un Vania è anche una messinscena in cui – per il gusto dell’eccesso, del frenetico, dello sconclusionato ad ogni costo – sembrano abbondare anche i difetti, anche le mancanze.


(i difetti e le mancanze)
Un Vania assottiglia la figura di Son’ja, cancella quasi del tutto lo spasimo amoroso che la fanciulla prova per Astrov, la riduce a una ragazzina sciocca, il cui dolore non trova compimento né resa approfondita. Commette poi l’errore, Savignone, di tramutare l’insieme di soliloqui in un dialogo effettivo, per cui manca del tutto la disconnessione verbale tra le figure e – al contrario di quanto dovrebbe avvenire – a domanda davvero seguita risposta, dando vita a una linearità dialogica che Čechov non prevede (non basta, in tal senso, la battuta: "Bisogna essere dei metereologi per essere ascoltati in questa casa?").
Per realizzare la propria fantasia genera scompensi realizzativi: alcune scene svolte in retropalco sono coperte dagli oggetti posti in ribalta; altre scene invece perdono di senso o appaiono un orpello futile, uno sfoggio inutile. Così gli effetti abbondano per un’ora e mezza e – mentre alcune soluzioni sono funzionali (l’alternanza didascalica delle luci; la ripetizione diversificata di una stessa scena) – altre sembrano gratuite: si pensi all’andamento, meccanico ed inverso, che retrocede la porta mentre avanza il letto.
A forza di ridurre, cancella del tutto il quarto atto, di cui rimane soltanto il monologo di Son’ja, dimenticando che questo stesso atto vive degli abbandoni progressivi e che si nutre di una lentezza inevitabile e di un’afflizione che si rigenera (giacché è una condizione di partenza a cui si ritorna nel finale) andando adagio, tra tempi morti e rassegnazione addolorata.
Inoltre non convince del tutto il riferimento ad Amleto. Occorrere ricordare che il principe di Danimarca non è un pazzo ma un sano che recita la parte del pazzo e che – tralasciando il grande tema del dubbio e dell’inazione – riesce invece a realizzare la vendetta usufruendo proprio del teatro: è mettendo in scena L’assassinio di Gonzago (o, se si preferisce, La trappola per topi) che Amleto rende evidente il vero rimettendo in sesto il mondo: ne viene perciò dopo la morte di Gertrude, di Claudio e di Polonio. Amleto agisce, di fatto mutando le condizioni del suo regno; a zio Vanja invece – terminata l’opera – tocca la stessa vita che gli toccava prima.
Alludere al dramma di Shakespeare quindi è la dimostrazione di quanto – Un Vania – cercando ovunque sprazzi, trovate e soluzioni innovative, pecchi di esagerazione: come se l’euforia evidente che ha determinato lo spettacolo divenisse incontrollabile, producendo talora dei dissesti.
Guerre di cuscini, minacce di martellate, inseguimenti e giocose confusioni identitarie; cadute, inciampi, rabbia simulata, realismo materiale in un contesto d’irrealismo scenografico, propensione metaforica (“sta arrivando  il temporale” allude al terzo atto, allo sfogo, alla lite; “Il temporale è passato” si dice, infatti, in conclusione) e – ancora – lunghe bevute dalla bottiglia, baci imprevisti, continue rotazioni degli oggetti in aggiunta a tagli di battute, riscrittura di battute e invenzioni di battute: c’è così tanto, in Un Vania, da essere fin troppo, per Zio Vanja

 

 

 

 

 

 

Napoli Teatro Festival Italia
Un Vania
liberamente ispirato a Zio Vanja
di Anton Čechov
ideazione e regia Marcelo Savignone
con Paulina Torres, María Florencia Alvarez, Merceditas Elordi, Marcelo Savignone, Luciano Cohen, Pedro Risi
assistenza tecnica Nela Fortunato, Andrea Guerrieri, Eva Rodríguez
scene Lina Boselli
ideazione manichino Flavio Pagola
costumi Mercedes Riveros
operatore Daniel Schabert
fotografie Cristian Holzmann e Ufficio Stampa Napoli Teatro Festival Italia
produzione Belisarias
lingua spagnolo con sovratitoli in italiano
durata 1h 30'
Napoli, Galleria Toledo, 17 giugno 2014
in scena 17 e 18 giugno 2014

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